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Fra Diego La Matina: Romanzo storico siciliano
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E-book618 pagine9 ore

Fra Diego La Matina: Romanzo storico siciliano

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Info su questo ebook

Fra' Diego La Matina è uno dei più drammatici romanzi della feconda e inesauribile fantasia di William Galt, pseudonimo, come oramai si sa, nel quale si cela Luigi Natoli. Nel romanzo pagine fosche e pagine commoventi si alternano e si intrecciano sul cupo fondo di quel periodo nefasto per la Sicilia che fu il Seicento. 
La società era allora sotto l'incubo della reazione religiosa; il clero vi spadroneggiava; il Sant'Offizio incuteva il terrore dei frequenti roghi; in nome della religione si commettevano delitti inauditi. 
Appunto due uomini di chiesa nel romanzo si trovano di fronte: don Angelo, avido, ipocrita, tiranno della coscienza, capace di tutto e fra Diego, spirito ribelle, difensore dei deboli, violento anche nella pietà. 
Fra questi due si svolgono le vicende dolorose di due donne...
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2023
ISBN9791255470151
Fra Diego La Matina: Romanzo storico siciliano

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    Anteprima del libro

    Fra Diego La Matina - Luigi Natoli

    Luigi Natoli

    ovvero William Galt o Maurus

    Così gli editori di La Gutemberg lo presentavano, nella edizione di Calvello il Bastardo, riveduta e corretta dallo stesso Autore nell’anno 1913:

    Chi è William Galt?

    " È vano mantenere il segreto su questo nome esotico, sotto il quale si è compiaciuto celarsi uno degli ingegni più vigorosi che onorano la Sicilia.

    Quando sulle colonne del Giornale di Sicilia apparve una biografia di questo preteso inglese, con un elenco di opere... che non esistono; nessuno sospettò che si trattasse di una burla, e che uno scrittore inglese di questo nome non esisteva che nella immaginazione di chi l’aveva creato. Ma dopo le prime dieci puntate di Calvello, gli uomini colti capirono che il romanzo non poteva essere di un inglese; e che la conoscenza della storia, del costume, della topografia di Palermo nel 700, della vita e dell’anima siciliana in quel tempo, era così profonda, che l’autore, per quanto camuffato da suddito di S.M. britannica, non poteva essere che siciliano.

    E a poco a poco, crescendo l’ammirazione pel romanzo, si venne a questa conclusione; che di uomini i quali conoscessero così profondamente le cose siciliane non ve ne erano che due: Giuseppe Pitrè e Luigi Natoli; e che, trattandosi di un lavoro di fantasia, e non di erudizione e di scienza, William Galt non poteva essere che Maurus o Luigi Natoli.

    Perchè egli abbia voluto incarnarsi in un personaggio esotico, non sappiamo. Non si domanda a uno scrittore perchè abbia assunto questo o quell’altro pseudonimo; talvolta si può indovinare. Forse, William Galt ha voluto godersi da incognito lo spettacolo del grande successo del suo romanzo. Il quale egli scrisse per una prova e per una dimostrazione. Volle dimostrare che l’ingegno italiano può, se vuole, sostenere vittoriosamente il confronto con quello straniero in un genere di letteratura che i sopracciò dell’arte guardano spesso con ingiustificata diffidenza; e che si può scrivere un romanzo di appendice, interessante per intreccio di avvenimenti, e anche per situazioni drammatiche di effetto, che nel tempo stesso sia opera d’arte.

    Opera d’arte nella creazione dei caratteri umani, reali, determinati, varii, opera d’arte nel dialogo; nella descrizione efficace e pittorica; nella rappresentazione viva, evidente, maravigliosa; opera d’arte nella forma; in quel giusto senso di misura, che è pur difficile mantenere in una tela vasta e varia.

    E William Galt è riuscito: ha superato la prova. Tanti romanzi già sono usciti dalla sua penna; e basterebbe soltanto uno di essi per la fama dello scrittore. Confronti non se ne fanno, ma dinanzi a quei pasticci, che sono una offesa alla storia, al buon senso, all’arte; a quelle rifritture dei romanzi di A. Dumas, che escono dalla cucina di M. Zevaco, e dei quali pure non si vergognano di imbandire piatti indigesti al pubblico nostro editori e giornali, abbiamo il diritto di affermare la incomparabile superiorità del nostro William Galt.

    William Galt o Maurus , come piacerà meglio ai nostri lettori di chiamarlo, da ventidue anni collaboratore ricercato del Giornale di Sicilia, nacque in Palermo nel 1857; da ragazzo rivelò le sue attitudini; a quattordici anni scrisse un romanzo; a sedici anni verseggiava; a diciotto cominciò a scrivere sui giornali. Non ebbe veramente maestri; ma egli ricorda con devoto affetto il suo maestro di quarta classe. Nicolò De Benedetto (morto giovane e pazzo) che indovinò nel piccolo allievo le attitudini a scrivere, e lo incoraggiò e gli perdonò le monellerie; e il professore di ginnasio p. Ramirez, che, leggendo in pubblico i componimenti dell’alunno, gli diceva: - Spero di vivere tanto da leggere le vostre stampate. Queste parole furono lo sprone che spinse il giovane nella carriera delle lettere. D’allora la sua vocazione fu ben chiara e determinata. Abbandonò le scuole, dove il suo ingegno non poteva costringersi al formalismo pedantesco; ma studiò da sé, gagliardamente, i classici latini e italiani, studiò filologia (conserva ancor manoscritta una grammatica storica del dialetto siciliano) studiò filosofia, volle anche formarsi una cultura scientifica. Ma più si appassionò della letteratura e della storia siciliana; e della sua profonda e sicura conoscenza in questo ramo di studi, non vi è chi non gli renda giustizia.

    Uomo di svariata e vasta cultura, di ingegno versatile, autore di un gran numero di libri per le scuole pregevolissimi; di una infinità di articoli, di novelle, di storie e leggende saporitissime, di poesie ammirate, di monografie storiche e letterarie, importanti e citati dagli studiosi come fonti; conferenziere caro e applaudito; commediografo, lavoratore instancabile, scrittore sempre elegante ed efficace e personale, conserva sempre la stessa freschezza giovanile, e si rivela sempre con aspetti nuovi.

    I suoi romanzi storici sono lo specchio delle sue doti: in essi vi è fantasia mobile e varia del poeta, l’osservazione dello psicologo, l’erudizione dello storico e la potenza efficace dello scrittore. Ecco perchè piacciono e piaceranno!"

    Gli editori La Gutemberg – Palermo 1913

    E noi oggi, con forza, ribadiamo questi concetti e con orgoglio pubblichiamo le sue opere.

    I Buoni Cugini editori – Palermo 2023

    Fra Diego La Matina

    Romanzo storico siciliano

    (William Galt)

    FRA DIEGO LA MATINA

    Romanzo storico siciliano

    L’opera è la trascrizione dell’unico romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1924

    Nota dell’editore

    Luigi Natoli ha sempre pubblicato i suoi romanzi a puntate in appendice al Giornale di Sicilia.

    In seguito, alcuni sono stati raccolti in dispense e venduti direttamente dal Giornale o dalla casa editrice La Gutemberg , che li ha pubblicati anche in edizione economica per essere rilegati come un libro.

    Dopo la morte dello scrittore, la casa editrice La Madonnina inizia a ristampare in dispense la maggior parte dei suoi romanzi, il più delle volte apportando modifiche sia nel linguaggio (ammodernandolo o adeguandolo alla morale della comunità sempre in evoluzione) sia nelle dinamiche della storia stessa (per fortuna non sempre).

    Dopo le pubblicazioni de La Madonnina , per alcuni romanzi si sono avvicendate altre edizioni fino ai giorni nostri, riportando sempre le modifiche fatte al testo, o apportandone a loro volta.

    Il romanzo di Fra Diego La Matina oltre ad aver subito queste violenze fatte di aggiunzioni, correzioni insensate, soppressioni o rielaborazioni delle frasi a favore di un improbabile ammodernamento, cambiando termini ed eliminando le parole tronche, è stato anche CENSURATO più volte perché ritenuto anticlericale. Di seguito riportiamo alcuni esempi astenendoci dal commento e precisando che nel testo La Madonnina, poi ripubblicato da tutte le altre case editrici, queste correzioni sono moltissime.

    Parte prima, capitolo I:

    nella edizione La Madonnina:

    La giustizia secolare, e cioè la curia del Capitano di città dopo la solenne lettura della sentenza del Tribunale del Sant'Offizio s'impadroniva del reo, e lo sottoponeva a un giudizio pro forma, per dimostrare che la sentenza di morte non era pronunciata dall'autorità ecclesiastica, ma da quella laica.

    La Gutemberg continua con:

    In grazia di queste miserabili ipocrisie, poteva la potestà della Chiesa affermare che essa non condannava a morte nessuno!

    Nell’edizione La Madonnina è stata eliminata la seguente parte:

    E dimenticando che era prete e in luogo sacro, si lasciò scappare qualche bestemmia e qualche parolaccia.

    - Sangue d’un diavolo!... Ed è venuta a farla a me? Proprio a me, con quella faccia di santa! Ah troia e figlia di troia!"

    Parte quarta, capitolo VII:

    nella edizione La Madonnina è stato abolito tutto il dialogo di Don Carlo Ventimiglia, in occasione di ruberie ai monaci:

    - Oh che? Hai scrupolo a prenderlo. Sei uno sciocco. Di chi è questo denaro? Crei che sia dell’Abate? No, pezzo d’asino! È del monastero. E chi lo da al monastero? I monaci? Lavorano forse quei poltroni? Questo denaro, tutto quello che posseggono, è frutto di usurpazioni: e col pretesto della religione si fan lasciare pingui eredità, che spetterebbero ad altri. I Ventimiglia se ne son fatte prendere terre e rendite!... E perché? perché quei frati vivano nel lusso e nella poltroneria. Sei stato mai al monastero di San Martino? No? Non sai dunque che cosa sia una tavola di benedettini!... Va a vederli mangiare, e poi mi dirai se non sia un bene mortificarli di tanto in tanto con un salasso!... Bisognerebbe obbligarli, per l’onore di Dio, alla penitenza; e con una dozzina d’uomini che la pensano come me, si farebbe presto a riprenderci e a dividerci quelle ricchezze, che, infine, son roba nostra. Questo denaro è mio. Non lo rubo; me lo riprendo. E perciò non ho nessuno scrupolo, e non sento di compiere un’azione riprovevole. Prendi, sciocco: non ti si offrirà mai un'occasione come questa, di guadagnarti tre doppie d'oro, soltanto per avere assistito a uno spettacolo! Di solito invece si paga.

    Tutto il precedente discorso è sostituito con questo: Prendi il denaro, sciocco: non ti si offrirà mai un'occasione come questa, di guadagnarti tre doppie d'oro, soltanto per avere assistito a uno spettacolo!

    P arte quinta, capitolo II:

    nella edizione La Madonnina:

    Qualcuna metteva qualche monetuccia nella cassetta dell'elemosina;

    La Gutemberg continua con:

    e forse si privava del necessario, nella persuasione che l’offerta di quel quattrino giovasse a placare la collera del Signore.

    Parte sesta, capitolo I:

    nella edizione La Madonnina è stato abolito tutto il dialogo fra Diego La Matina a Giuseppe D’Alesi a proposito dei beni della chiesa:

    - Ah, sì! – esclamava fra Diego: – credete che essi servano la religione? So io come la servono: mangiando, bevendo, dormendo, e sbadigliando nel coro: per non dire che il meno peggio. Andate là! Sono dei poltroni: e io pel primo. Poveri, poveri hanno a essere, e obbligati a lavorare al servizio della povera gente. V’è tanta gente ignuda: perché non cuciono per vestirla? Ce n’è tanta che non ha come sfamarsi: perché non rinunciano a qualche piatto, per dar da mangiare agli affamati? C’è tanta gente che non ha dove dormire: perché non cedono una parte dei conventi, o non danno gratis le case che posseggono? Predicano le opere di misericordia, ma no le fanno; invece di fare come san Lorenzo che distribuiva ai poveri i tesori della Chiesa: essi accumulano tesori per loro benefizio!... Questa è la verità. Se io fossi capo di una cospirazione, per prima cosa spoglierei d’ogni ricchezza i frati e i preti.

    Parte sesta, capitolo VIII:

    nella edizione La Madonnina:

    - Ah! questi voti! questi voti!... Io sono legato, capite? io sono legato per tutta la vita, e soltanto il Papa potrebbe sciogliermi...

    La Gutemberg continua con:

    - Ma il Papa scioglierà un prete da messa ricco e potente, non un povero e miserabile diacono, diventato tale, senza vocazione, per un cumulo di circostanze!... Ma che sto a dirvi?... Scusate.

    Parte settima, capitolo V:

    nella edizione La Madonnina:

    - Ah! siete voi i ministri di Dio? – proruppe fra Diego non contenendosi più.

    La Gutemberg continua con:

    - Voi? Di qual Dio? Voi siete i ministri di Moloch! Voi siete i sacerdoti di Belzebù! Voi siete gli ipocriti, bianchi di fuori, e dentro putredine verminosa, di cui parlano i Vangeli! Voi appestate la Chiesa!...

    Parte settima capitolo V:

    nella edizione La Madonnina:

    - Vossignoria m’ascolti, – disse; - vada in fondo a questo corridoio; a destra, all'angolo, c'è una porticina. Apra con questa chiave. Scenda la scala; in fondo c'è un'altra porticina che si apre con quest'altra chiave e si va nel portico della Dogana. Di là vossignoria avrà modo di uscire.

    La Gutemberg:

    - Vossignoria m’ascolti, – disse; – vada in fondo a questo corridoio; a destra, c'è una scaletta: scenda: si troverà nel portico del primo piano. Volti a destra, all’angolo c’è una porticina. Apra con questa chiave. Scenda la scala; in fondo c'è un'altra porticina che si apre con quest'altra chiave, e si va nel portico della Dogana. Di là Vossignoria avrà modo di uscire.

    Epilogo:

    nella edizione La Madonnina:

    Egli s'era difeso: non sentiva di essere eretico; e non sapeva di dottrine; ma a furia di sentirsi sollevare dubbi e muovere quistioni, aveva finito per convincersi che quella religione della quale il Sant'Offizio si diceva difensore, era proprio in cattive mani.

    La Gutemberg conclude con:

    Egli s'era difeso: non sentiva di essere eretico; e non sapeva di dottrine; ma a furia di sentirsi sollevare dubbi e muovere quistioni, aveva finito per convincersi che quella religione della quale il Sant'Offizio si diceva difensore, era tutto un ammasso di menzogne.

    Tralasciamo volutamente di trascrivere altro avvisando il lettore che nell’edizione La Madonnina c’è anche uno sconsiderato e sistematico cambio di punteggiatura, coniugazione dei verbi, cambio di parole o verbi e la quasi abolizione delle parole tronche.

    L’edizione de I Buoni Cugini riproduce fedelmente l’opera pubblicata in dispense da La Gutemberg nel 1924, l’unica da ritenersi ufficiale, dato che il manoscritto originale è andato irrimediabilmente perduto.

    Le uniche modifiche che abbiamo apportato al testo sono consistite nel togliere i refusi evidenti, qualche segno di interpunzione, e nell’uniformare delle parole scritte in modi diversi (ad esempio Nino la Pilosa o Nino la Pelosa, in Nino La Pelosa). Abbiamo introdotto le virgolette alte per contraddistinguere il pensiero del personaggio all’interno dei dialoghi, perché questi ultimi nella versione originale sono preceduti o intervallati dal trattino del discorso diretto, ingenerando confusione nella lettura; infine abbiamo messo in corsivo i contenuti delle missive, perchè, anche in questo caso, possono confondere il lettore.

    T utto il resto è stato rispettato: quindi si può godere del linguaggio dell’epoca fatto di elisioni, suffissi nominali, preposizioni e parole oramai non più usate nel nostro vocabolario moderno o modificate, alcune delle quali possono anche sembrare errori (per esempio: non ostante – maraviglioso), inoltre molti verbi sono coniugati con trapassato remoto ai nostri giorni scarsamente usato.

    Abbiamo infine trascritto dal Registro dell’Inquisizione Siciliana, 1478-1732 parte 4 di 4, la condanna di Fra Diego La Matina e aggiunto il contesto storico dell’opera, tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria a fascismo sempre di Luigi Natoli ( I Buoni Cugini Editori 2020).

    In conclusione:

    L’edizione de La Gutemberg del 1924, oggi ripubblicata fedelmente, è l’unica sulla quale non si è abbattuta la ferocia del revisionismo clericale e censorio di tutte le pubblicazioni seguenti, volte ad ammorbidire i giudizi dell’Autore sul sant’Offizio e su quanto in Sicilia nel 1600, la Chiesa era superstiziosa, avida, ipocrita, e soprattutto lontana dal suo ministero di carità e amore verso il prossimo. La ritorsione fu la messa all’ indice dei libri proibiti per i suoi romanzi, ma Natoli non rinnegò mai la sua opera neanche dinanzi al prete inviato dalla Curia poco prima della morte; infatti, a quest’ultimo che prometteva la riabilitazione delle sue opere a patto del ripudio del romanzo di Fra Diego La Matina rispondeva di riferire ai suoi superiori che La storia non si può ritrattare o coprire con un velo, un tale potere non l’ho né io né il papa.

    I Buoni Cugini Editori

    PARTE PRIMA

    Il guantaio

    I.

    Il segreto di Giovanni Battista Verron

    C’era spettacolo del Sant’Offizio quella mattina del 9 settembre 1640. Già il giorno innanzi, come era prescritto, c’era stata la processione, che partendo dallo Steri, palazzo del Sant’Offizio dell’Inquisizione, si era recata nel piano della Cattedrale, dove era stato costruito il gran palco per l’Atto di Fede; e aveva posto la Croce del Santo Tribunale sull’altare, fra torce rimaste accese tutta la notte; e frati, preti, familiari del Sant’Offizio vi avevano vegghiato recitando salmi ed inni.

    Lo spettacolo destava grande curiosità pel numero degli inquisiti, tre dei quali erano stati colpiti dalla più grave sentenza: erano stati cioè rilasciati al braccio secolare. Era una formula ipocrita con la quale si intendeva togliere alla Chiesa il biasimo di condannare a morte. La Chiesa non doveva e non poteva per materia di fede, uccidere; ma faceva uccidere dalla giustizia laica, alla quale consegnava i rei d’eresia e di commercio col demonio, che dovevano essere bruciati. La giustizia secolare, e cioè la curia del Capitano di città dopo la solenne lettura della sentenza del Tribunale del Sant’Offizio s’impadroniva del reo, e lo sottoponeva a un giudizio pro forma, che serviva per dimostrare che la sentenza di morte non era pronunciata dall’autorità ecclesiastica, ma da quella laica. In grazia di queste miserabili ipocrisie, poteva la potestà della Chiesa affermare che essa non condannava a morte nessuno!

    T re, dunque, fra gli inquisiti, già si sapeva, sarebbero stati rilasciati al Capitano di città. Tre roghi si sarebbero accesi nel piano di Sant’Erasmo: spettacolo triplice in onore della santa religione. I nomi erano noti: uno si chiamava, da cristiano Gabriele Tudesco, da moro musulmano Amet. Era un mal battezzato, ritornato alla sua prima fede. Condannato una prima volta per questo suo ritorno alla fede dei padri, aveva confessato il suo errore, abiurato, ed era stato assolto e mandato in galera a remare per cinque anni. Ma era ricaduto nel fallo; e sottoposto nuovamente a giudizio, aveva dichiarato che maomettano era nato e maomettano voleva morire: colpa gravissima, che meritava il rogo.

    Il secondo era un frate agostiniano, calabrese: fra Carlo Tavalora, che si era spacciato per Messia; aveva fondato una setta di Messiani e diffondeva una morale nuova, una teoria nuova, una politica nuova e nuovi riti, che avevan trovato qualche seguace. Arrestato nel 1635 era stato per cinque anni nelle carceri della inquisizione sottoposto a dispute e a torture, ostinato nella sua riforma religiosa; finalmente il pio tribunale lo aveva condannato.

    Il terzo che destava maggior interesse per la sua notorietà, era un francese, guantaio, che si chiamava Giovan Battista Verron. Era venuto di Francia giovane, non ancor ventenne; aveva aperto bottega nella strada dei Guantai, e aveva fatto fortuna; e però aveva suscitato gelosie e invidie. Qualcuno notò che Verron non andava a messa. Francese e non frequentatore della chiesa, bastava per far nascere sospetti. Un giorno fu sorpreso mentre leggeva la Bibbia; quella Bibbia era tradotta in francese: Giambattista Verron dunque era ugonotto.

    I birri del Sant’Offizio lo arrestarono.

    Verron era giovane e amava la vita. Morire a venti anni, quando il cuore ferve di sogni? Per una messa? Rinunciare alla gioia di amare, alla gioia di vivere? Nelle carceri del Sant’Offizio, tormentato da teologi di ogni specie, sopraffatto di argomentazioni e di minacce, Verron sentì vacillare la saldezza del suo carattere. Si confessò convinto della verità cattolica. Così nello spettacolo o atto-di-fede nel 1630 egli fu pubblicamente assolto dall’eresia, e condannato a un anno di carcere. Quando ne uscì, credette di poter vivere in pace con il suo lavoro; e di poter seguire il suo sogno d’amore.

    Vano sogno! Una mattina, era la quaresima del 1640 appunto, in un impeto di furore, tolse via dalla bottega l’immagine del Cristo, e da un ripostiglio segreto del suo armadio, prese una piccola Bibbia. I suoi nemici lo spiavano. Quando si assicurarono che egli non andava più a messa, non si confessava, non compiva nessuno degli atti prescritti dalla religione, lo accusarono nuovamente all’Inquisizione, che gli teneva gli occhi addosso. Gli occhi delle spie. Verron fu arrestato una seconda volta e chiuso nelle segrete del Sant’Offizio; ma questa volta per non uscirne più.

    Sottoposto ad interrogatori, discussioni e minacce, rispose che la sua coscienza gli aveva fatto giudicare più pura, più cristiana, più conforme allo spirito del Vangelo, la sua fede di ugonotto; che era ritornato a essa e che sarebbe morto, prima di rinunziarvi. Colpa grande! dopo sette mesi di torture il Sant’Offizio lo condannò come eretico formale, ostinato, bestemmiatore.

    E quella mattina del 9 settembre 1640, egli insaccato nell’ abitello nero dipinto a fiamme, fu condotto con gli altri due, per sentirsi leggere in pubblico, le grandi colpe commesse, e la sentenza che lo rilasciava al braccio secolare. Dopo lo spettacolo egli fu dunque consegnato al Capitano di città, al quale spettava di diritto di far seguire la sentenza. Di solito l’arsione avveniva il domani; perché la corte capitanale doveva imbastire quel simulacro di giudizio, per pronunciare la condanna al rogo; ma il domani era domenica e nei giorni festivi non si eseguivano sentenze. Non in die festo. Verron ebbe dunque prolungata l’agonia ancora un giorno: ma la mattina del lunedì, sollecitato a convertirsi, a salvare l’anima, egli disse che voleva confidare cose di grande importanza, soltanto a un frate agostiniano.

    - Chi è?

    - Frate Agostino da Naro.

    - È un teologo forse? Nessuno ne ha mai sentito parlare.

    - Oh...

    Come e dove lo conosceva Giambattista Verron? E dove trovarlo? Era una gherminella per ritardare l’esecuzione della sentenza? Ma Verron disse che frate Agostino era in Palermo: lo aveva visto tra i frati agostiniani. Il cappellano che lo assisteva fiutò qualche intrigo ereticale; chi sa? forse si poteva scoprire qualche nuova offesa alla religione. Verron fu contentato.

    Frate Agostino era realmente venuto a Palermo da qualche giorno, e si trovava nel convento di San Gregorio. Andarono a chiamarlo. Era un bell’uomo, alto, robusto, bruno di volto e di capelli, d’una quarantina d’anni, con un aspetto più da soldato che da frate.

    Egli si recò nelle carceri del Capitano di città e fu lasciato solo con Verron.

    - Eccomi a voi, figlio mio, – gli disse con voce commossa.

    Stettero un po’ in silenzio, come sopraffatti da un gran dolore: poi Verron sedette, e frate Agostino gli disse:

    - Parlate.

    La confidenza durò circa mezz’ora dopo la quale frate Agostino uscì dalla cella pallido e cupo. I giudici e i teologi che aspettavano per sapere se il luterano avesse abiurato i suoi errori, e si fosse riconciliato con la Chiesa, gli domandarono se Verron era pronto a sottoscrivere la sua abiura.

    - Non vuole abiurare – rispose frate Agostino con voce grave.

    - Sì...

    - Non l’avete assolto?

    - No. Non mi ha domandato di essere assolto. Ha detto di voler morire nella sua fede. Dio lo illumini!

    - E perché dunque vi ha trattenuto così tanto tempo?

    - Abbiamo discuso – disse freddamente il frate, e fatto un inchino se ne andò.

    Poco dopo la processione uscì dal Palazzo dello Steri. I tre rei principali erano vestiti con l’abitello infamante, nero, dipinto a fiamme e mostri. Celebrata la messa, recitata l’orazione e letta la sentenza, i tre rei furono consegnati al Capitano di città; e la processione ritornò al palazzo tra la folla silenziosa.

    La sentenza fu eseguita il domani sera, lunedì. Nel piano di Sant’Erasmo furono rizzate tre colonne; i condannati furono prima strangolati, poi bruciati. Una folla immensa assisteva al pio spettacolo: per godersi il quale erano stati eretti palchi per le cariche, per le dame e pei cavalieri. Tra gli spettatori era frate Agostino. Egli insieme con un novizio aveva accompagnato il carro che trasportava i tre condannati; aveva scambiato uno sguardo con Giambattista Verron, che parve la conferma di una mutua promessa. Un senso di pace si diffuse sul volto del guantaio, che per tutto il tragitto aveva tenuto gli occhi levati al cielo, come per offrire il suo martirio. Da sé, senza tremare, senza impallidire offerse il collo al nodo omicida. La sua agonia fu breve. Frate Agostino che, in grazia dell’abito, s’era potuto avvicinare e non gli aveva tolto lo sguardo dal viso era stupito della mansuetudine del condannato. Egli aspettò che le fiamme lo avvolgessero, e allora se ne andò a capo basso, lentamente, col novizio che pareva vivamente colpito da quanto aveva veduto.

    La sera calava un po’ fosca ed afosa, e il vento portava nella strada il puzzo confuso della legna e della carne bruciata. Nell’aria vibravano i rintocchi dell’ Ave, oscillando nel vento e spegnendosi come gemiti. Frate Agostino risalì per la strada Toledo. Passando dinanzi alla piazza Marina diede una bieca occhiata alla massa torreggiante dello Steri, che nell’ombra appariva più cupa; e nella pupilla gli balenò un lampo d’odio. Per vie di traverso passando per la strada dei Merciai – oggi detta dei Cassari – e per l’Argenteria e pel Mercato della Bucceria vecchia, giunse al quartiere della Conceria, che era già buio.

    La porta della chiesa di Santa Margherita era aperta e se ne vedeva l’altare maggiore illuminato: lo scampanellio della gloria e l’odore dell’incenso rivelavano che si dava la benedizione serale col Santissimo. Frate Agostino si avvicinò, si genuflesse dinanzi alla porta, si tolse la mozzetta che gli copriva il cranio raso, ed entrò nel momento in cui il cappellano, riposto l’ostensorio, recitava l’Oremus . Ma si rimise il cappuccio in testa.

    Il frate aspettò che il cappellano entrasse in sagrestia. E ve lo seguì, ordinando al novizio di aspettarlo.

    - Bacio le mani, padre don Angelo.

    Il cappellano, che stava togliendosi la cotta, si voltò, squadrò il frate, e rispose con un lieve cenno del capo:

    - Bacio le mani a vossignoria.

    - Ho bisogno di parlarle, quando avrà finito...

    - Subito...

    Il sagrestano ripiegò accuratamente la cotta, ornata di un finissimo ricamo e la conservò nell’armadio, che nell’ombra, con lo sportello aperto, pareva volesse inghiottire il chierico in una profonda voragine. E s’indugiava egli, curioso di sentire ciò che quel frate così grande e robusto e così grave direbbe al cappellano. Ma il frate taceva e il cappellano aspettava.

    - Quello che ho da dirle – riprese frate Agostino – è segreto...

    Il cappellano allora fece un segno al sagrestano, che uscì di malavoglia.

    - Ebbene, ora siamo soli.

    Frate Agostino indicò un seggiolone al prete, ne accostò uno per sé e vi sedette, invitando l’altro a far altrettanto, il che, significando che il discorso sarebbe stato lungo, non garbò al cappellano, che non poté frenare un gesto di malumore.

    - Probabilmente questa non è un’ora comoda per vossignoria, – disse frate Agostino: – ma quando le avrò detto che ieri fui chiamato dal guantaio francese, del quale ebbi le confidenze, e che sono frate Agostino da Naro, vostra signoria non avrà bisogno che io le dica per quale oggetto io sia venuto...

    Il cappellano che all’udire quel nome aveva avuto un sobbalzo, simulò il viso di chi non intende, e rispose con indifferenza:

    - In verità, non saprei.

    - Allora dirò un altro nome, che forse ricorderà meglio. Nel secolo mi chiamavo Gerlando La Matina...

    Il cappellano si sforzava di mantenere un aspetto calmo; ma a quel nome, e vedendo che il frate si scappucciava, fissò gli occhi pavidi su quel volto a lui noto. Pure disse con freddezza:

    - E che cosa volete ancora da me?

    - Una cosa semplicissima: sapere che cosa avete fatto di Isabella e di Cristina.

    - In verità, frate Agostino, ci vuole un bel coraggio per venire a farmi questa domanda. Io mi rifiuto di rispondervi.

    - Badate, don Angelo, che se vi ostinate nel rifiuto, io potrei andare dal Cardinale, e raccontargli una storia, che non vi piacerebbe certamente.

    - Fatelo pure...

    - Lo farò; ma dopo che vi avrò strappato il segreto del vostro nuovo delitto...

    - Vorreste commettere violenza in un luogo sacro? Voi, che siete sacerdote?

    - Non ne commetterò; ma ricordatevi di Gerlando, don Angelo!

    - Oh, me ne ricordo; ma alla vostra volta ricordatevi di don Angelo Alvarez... E mi pare che ci siamo spiegati abbastanza!...

    - Sì. Io sapevo bene che questa conversazione non sarebbe approdata a nulla; ma son venuto per uno scrupolo... Rifletteteci questa notte; domani mattina verrò a prendere la vostra ultima risposta.

    - Ve l’ho data...

    - Forse non è l’ultima. Pregate Dio che v’illumini!

    Il frate uscì; nella chiesa trovò il novizio.

    - Andiamo – gli disse.

    Ma quando furono fuori, frate Agostino disse al giovine:

    - Diego, ecco venuto il momento di adoperarti; ma occorre prudenza e scaltrezza. Ascoltami bene.

    Sottovoce gli diede delle istruzioni, alle quali il giovine rispondeva con un cenno del capo, che aveva capito bene. Quando frate Agostino ebbe finito disse:

    - Ora a te. Io me ne vado al convento. Pregherò fra Giuseppe di aspettarti e aprirti...

    E se ne andò rapidamente. Diego lo seguì un poco, ma svoltato un vicoletto buio si fermò, si tolse i sandali, si tolse la tonaca; ne fece un fagotto e se lo mise sotto il braccio; poi, come uno dei tanti giovani che infestavano i mercati, si accucciò nel vano di una bottega chiusa, protetto da una pensilina sorretta da rozzi pilastri. Allora le botteghe avevano spesso queste tettoie, simili a portici, che difendevano il banco di pietra sporgente per due palmi fuori dalla porta, di che occupavano la metà. Tra il battente e il banco rimaneva perciò un cantuccio, dove uno si poteva nascondere o dormire.

    Intanto don Angelo Alvarez, mordendosi le labbra per la collera diceva:

    - Domani! ti darò domani una risposta, che non te la scorderai più!

    Il sagrestano rientrò nella sacrestia. Il padre cappellano stette ancora un poco, poi preso il nicchio, il ferraiolo, la canna, gli disse:

    - Io vado per un affare di coscienza: se mai occorresse viatico o battesimo o altro, chiama padre don Ambrogio.

    E uscì dalla porticina dell’ufficio parrocchiale .

    Era notte tiepida e luminosa. Nel cielo errava ancora come un lontano riflesso d’alba, per l’imminente sorgere della luna. Le strade erano deserte, perché già prossima l’ora del coprifuoco; le botteghe chiuse. Nel silenzio s’udiva il mormorio dolcemente monotono dell’acqua che scorreva nelle vasche delle conce e nel grande abbeveratoio, sorgente in mezzo alla piazza della Conceria. Il cappellano voltò a sinistra e si cacciò in quel groviglio di vicoletti che giravan dietro la parrocchia di S. Margherita; vero labirinto, del quale oggi non v’è più traccia.

    P er precauzione sospettosa a ogni svolta si guardava indietro per vedere s’era seguito; e rassicurato di non veder alcuno, continuava la sua via. Ma s’ingannava: Diego lo pedinava.

    Rasentando i muri, con movimenti astuti, senza perder di vista il padre cappellano e senza destar sospetti col più lieve rumore, egli lo seguì in quel labirinto. Lo vide fermarsi dinanzi a una porticina e picchiare. Quasi subito si aperse un balconcino, una persona indistinta si affacciò a spiare, e udendo la voce del padre cappellano, esclamò.

    - Sia benedetto il patriarca San Domenico! È il Signore che lo manda!

    La porta si aprì, inghiottì il prete, si richiuse. Diego si avvicinò per veder meglio; giacché il vicolo era così stretto e le case così alte, che non v’entrava neppure un barlume dal cielo.

    La casa era assai modesta, anzi umile: a due piani, con la facciata nuda e fuliginosa, nella quale si aprivano dei balconcini con le imposte infradicite dalle piogge e dal sole. Porte, finestre, balconcini erano in quel breve vicolo chiusi e silenziosi; ma dalla casetta spiata, parve a Diego che uscissero dei gemiti. A un tratto sopra quei gemiti irruppe un urlo, che si affievolì, tra un brusio di voci, che pareva esortassero, incoraggiassero, pregassero.

    Che cosa accade lì dentro? si domandò il novizio col cuore sospeso.

    Ancora due o tre volte quegli urli squarciarono il silenzio, e lo stesso brusio indistinto li accompagnò. Poi non si udì più nulla, ma si indovinava un andare e venire da una stanza all’altra e un ciarlottio, nel quale sembrò a Diego di riconoscere la voce del padre cappellano. Mezz’ora dopo egli sentì risonare la scaletta sotto i passi di qualcuno: ebbe appena il tempo di accoccolarsi dietro una porta, che udì il rumore secco del saliscendi; e dal battente aperto, la voce del cappellano che diceva:

    - Fa’ presto!

    Uscì una donna che portava sotto il manto un fagotto: e passò dinanzi a Diego senza accorgersene: ma nel passare, di sotto il manto si udì un vagito quasi soffocato. Diego si sentì rimescolare il sangue: si alzò e seguì la donna, la quale rifaceva la via già percorsa dal cappellano: ma invece di recarsi alla parrocchia, si avviò verso la piazza della Conceria. Diego udiva ora più distinti i vagiti: e si spiegava quel che era accaduto, e il perché degli urli, e di quel tramestio; e il perché l’arrivo del cappellano era stato accolto come una provvidenza. Una donna si era sgravata. Chi? E le toglievano la sua creatura. Perché? e dove la portavano? E l’aveva ordinato il cappellano? Con quale autorità e per quale ragione?

    Così ragionando e domandando fra sé e sé, tenendo cautamente dietro alla donna, Diego la vide fermarsi dinanzi alla chiesa di San Rocco, presso l’antica Porta Oscura e chinarsi rapidamente. E la lasciò passare: ma appena quella si fu discostata di qualche passo, d’un balzo corse alla chiesa, si chinò, raccolse di sui gradini una piccola creatura, che avvolta in pannilini, vagiva .

    Restò un minuto tenendo fra le braccia quella povera carne abbandonata, pieno di pietà per quella bocca che pareva domandasse aiuto; e stese il pugno verso la donna che si era dileguata nell’ombra. Poi deposta la creaturina, infilò la tonaca, si rimise i sandali; indi toltasi dal collo una medaglietta di bronzo legata a un cordoncino di seta, fece tre nodi al cordoncino, e lo passò intorno al collo del neonato.

    - Un maschio, – disse. Questa medaglietta servirà per riconoscerti.

    E con quel bambinello in braccio si avviò all’ospedale. Allora l’ospedale si trovava nel palazzo di Matteo Sclafani – che sorge ancora nella Piazza Vittoria, tramutato in caserma; in meno di un quarto d’ora Diego vi giunse: ivi era in quel tempo la ruota degli esposti, sotto l’arco detto appunto dell’Ospedale. Diego vi depose il bambino, suonò la campana di avviso, e girò la ruota: e quando udì che toglievano il piccolo esposto, se ne andò di fretta al convento.

    Frate Agostino lo aspettava.

    Diego gli raccontò tutto. Quando ebbe finito, frate Agostino lo abbracciò.

    - Hai fatto benissimo. Ora ascoltami bene. Quel cappellano si chiama Angelo Alvarez; tu non sai quanto male egli ha fatto a me e ad altre povere creature. Son quasi certo che stanotte tramerà qualche altro delitto; può anche darsi che inventi qualche accusa per farmi arrestare dal Sant’Offizio. Se io sarò arrestato, cerca nelle mie bisacce; vi troverai un libretto. È la storia dei delitti di don Angelo. Il tuo cuore ti suggerirà quel che dovrai fare. Ma ricordati che prima di ogni altro bisogna sottrarre a don Angelo, la madre di quella creatura che tu hai raccolta. Essa si chiama Cristina... Ed è mia figlia!...

    Il domani mattina, quattro birri del Sant’Offizio si presentarono al convento di San Gregorio, e domandarono che fosse loro consegnato frate Agostino da Naro. Il frate abbracciò Diego e gli mormorò all’orecchio:

    - Va’ subito a togliere il libretto dalle bisaccie, perché ora verranno a frugare le cose mie; e ricordati!

    Diego fece appena in tempo. Come i birri se ne andarono col frate, un commissario con altri agenti si impadronì della bisaccia e la portò via, tra lo stupore dei frati, che non sapevano che cosa frate Agostino avesse commesso.

    Né lui né Diego appartenevano al convento di Palermo: erano venuti per affari, e, naturalmente vi avevano preso alloggio, perché convento del loro Ordine. Ora che frate Agostino era stato arrestato, Diego disse che non voleva ritornare più a Girgenti e pregò i frati che gli facessero fare il noviziato nel loro convento. E la sera al lume di una lucernetta, cominciò a leggere il libretto di frate Agostino.

    II.

    Verron il guantaio

    Giovan Battista Verron era di Chateau Ruen. Era venuto a Palermo nel 1627 giovane di vent’anni. Biondo, ben fatto, di maniere gentili, accolto con franca ospitalità, aveva facilmente trovato di allogarsi come lavorante presso un guantaio. Era il suo mestiere. Dopo qualche anno la sua bravura gli consentì di dare gli esami dinanzi la Maestranza, ottenere il grado di maestro, e dopo aver pagato i diritti, facoltà di aprire bottega. Egli trovò quel che occorreva nella strada stessa dei Guantai.

    In breve divenne il guantaio di moda, ricercato dalla nobiltà e dalla borghesia grassa. E veramente non aveva chi lo uguagliasse nel taglio e nella cucitura dei guanti; né ve n’erano di meglio dipinti o ricamati; senza contare la sapiente scelta delle pelli, cedevoli, elastiche, morbide. E poi aveva modi così cortesi, così condiscendenti, e un senso di onestà, che incantavano. Le dame avevano per lui una vera predilezione.

    - Volete dei guanti veramente belli? - dicevano - andate da Giovan Battista Verron il francese.

    Dicevano anzi addirittura il francese. Non vi erano due francesi in Palermo così universalmente noti.

    La sua bottega era ogni giorno affollata di paggi e di schiavi che portavano ordinazioni, o venivano a prendere pacchetti di guanti. Verron aveva dovuto prendere due garzoni; ma il lavoro era molto, e qualche volta non si arrivava a corrispondere ai clienti con quella puntualità che il giovane voleva fosse il suo titolo nobiliare.

    Era naturale che questa fortuna suscitasse intorno a lui rancori invidiosi: specialmente fra i vecchi guantai, che si pentivano di avergli data licenza d’aprire bottega. Se Verron non fosse stato il favorito della nobiltà gli avrebbero bruciato la bottega e lo avrebbero costretto ad andarsene da Palermo. Perché c’era venuto? non poteva fare il guantaio nel suo paese? Chi sa che bricconerie aveva commesse, per esserne scappato! Chi ha un’arte non abbandona il suo paese senza una grave ragione: e per Verron doveva essere gravissima, se non parlava mai di ritornare in patria.

    Quando il sospetto è lanciato, scorre come una polla d’acqua; serpeggia, s’insinua, si dirama. Cominciò intorno al giovane, senza che egli se ne avvedesse, uno spionaggio d’intriganti: si interrogavano i garzoni, nella supposizione che egli facesse loro qualche confidenza, parlasse, se non altro, della sua famiglia, del suo paese; ma i garzoni non sapevan nulla: Verron non ne parlava mai: una volta videro una lettera che seppero provenire dalla Francia. Dunque in Francia sapevano che egli era in Sicilia. Esule? Profugo? Bandito? Comunque, aveva dovuto commettere un delitto. Ammazzato qualcuno, rapito una monaca, falsificato monete...

    Lo spionaggio si fece più assiduo, più acuto. Se usciva, lo pedinavano; se parlava con qualcuno cercavano di intendere quel che diceva; domandavano se portava armi nascoste, se aveva pratiche con cortigiane, se bestemmiava.

    - Non vi siete accorti di una cosa? – disse un giorno uno degli spioni, – nella sua bottega non c’è nessuna immagine sacra!

    - Oh!

    - In nessuna delle nostre botteghe manca un quadro, una statuetta di legno o anche di carta pesta, con la sua lampada accesa... Ognuno ha la sua divozione, ma il francese pare non ne abbia alcuna.

    - È uno scandalo!

    - Scommetto che dev’essere un eretico. Già, fin da quando lo conobbi, ne ho avuto il sospetto. Non viene di Francia? E la Francia non è impestata di luterani?

    - Avete ragione! come mai non ce ne siamo accorti prima? Come non abbiamo pensato ad assicurarci se va a messa?

    - E se digiuna...

    Giovan Battista Verron non sospettava nulla, e lavorava assiduamente, con diligenza, con onestà, e con un bel sogno. Venti anni non sono forse il tempo delle dolci illusioni e dei sogni d’amore? non sono forse il tempo in cui più si ama la vita? Verron amava. Lì, dinanzi alla sua bottega a una finestra aveva veduta affacciarsi una fanciulla di tredici o quattordici anni forse, con capelli e occhi nerissimi e labbra come fragole; e quegli occhi e quelle labbra gli avevano fatto battere il cuore forte forte, e gli avevano rimescolato il sangue. Chi era? Non l’aveva mai veduta prima d’allora.

    Quel giorno era stato distratto; aveva tenuto gli occhi più sopra la finestra che sulle pelli. Vista uscire la fanciulla con una donna vestita di nero, che le somigliava, ed era tanto giovine, che poteva prendersi per una sorella maggiore egli le seguì; le vide entrare in una casetta modesta nella strada del Crocifisso all’Albergaria; aspettò se uscivano; poi vide la donna passare dinanzi alla finestra senza il manto, donde argomentò che quella era la loro casa. E se ne tornò arrossendo, ora, al pensiero che i suoi lavoranti potessero sospettare il perché di quella sua uscita, e riderne.

    Ma da quel giorno Verron diventò un assiduo frequentatore della strada del Crocifisso, indugiandosi sotto le finestre per vedere la fanciulla. S’informò del nome e della condizione: seppe che la donna era una vedova, e la fanciulla era sua figlia. Abitavano in quella strada da un paio d’anni: erano venute dal regno: ma di che paese fossero, veramente non si sapeva. Vivevano ritirate, e uscivano appena la domenica per la messa: era raro che uscissero per altre ragioni. In casa non bazzicava nessuno; ogni tanto veniva un uomo, che poteva essere uno scrivano o un servitore o un birro; una persona indecifrabile, che si tratteneva appena il tempo di salire le scale e domandar conto della salute. La madre si chiamava Isabella, la figlia Cristina. Il cognome non lo sapeva nessuno: le designavano col soprannome di le regnicole.

    Né la madre né la figlia da prima badarono al giovane, ma finalmente la sua insistenza attirò la loro attenzione; e tutte e due lessero nella fiamma dei suoi sguardi: Isabella con la consapevolezza della donna, Cristina con l’oscuro istinto della sua giovinezza. Da quel giorno Isabella evitò che Cristina rivedesse quel giovane sconosciuto: ma a che giovano le precauzioni, quando il cuore si desta, se non all’amore vero e proprio, certo a quella forza misteriosa di attrazione, contro la quale non vale la difesa dell’esperienza? Cristina indovinò che sua madre le impediva di vedere quel giovine; ed essa invece lo rivide, senza pur avere l’intenzione di disubbidire .

    La domenica seguente non poterono evitare che egli le s eguisse fino alla parrocchia di San Nicola, dove esse andarono per ascoltare la messa. Egli si fermò sulla porta; ma Isabella, lasciata Cristina dentro la ch iesa, ritornò indietro, gli si avvicinò e gli disse con fermezza, ma senza ira:

    - Vi prego, signore, di lasciarci in pace. Siamo donne sole, e non voglio che la gente sparli di noi...

    Verron arrossì, e fattosi animo rispose:

    - Signora, non voglia il cielo che io vi rechi pregiudizio. Mi chiamo Giovan Battista Verron, sono francese, faccio il guantaio e ho una bottega ben avviata. Amo vostra figlia. Le mie intenzioni sono pure: fatemi sperare che non mi respingerete, ed io sarò felice...

    Isabella si fece triste:

    - Non dubito delle vostre intenzioni, signore: ma io non posso darvi nessuna speranza... Vi esorto a non insistere, potreste recarci, senza volerlo, grandi dolori. Se amate quella povera fanciulla, risparmiateglieli. Addio.

    Rientrò in chiesa, più pallida, più triste; fece inginocchiare Cristina, che, indovinando perché era uscita, l’aspettava trepidando; s’inginocchiò anche lei e disse:

    - Preghiamo, figlia mia.

    Verron era rimasto colpito dalle parole di Isabella che nascondevano qualche mistero; ma non ubbidì, non se ne andò. Si fermò nella piazzuola che s’apriva a fianco della ch iesa e aspettò. Dopo mezz’ora le donne uscirono: e lo videro. Isabella, che era sicura di ritrovarlo, gli volse uno sguardo di rimprovero e di preghiera; Cristina uno sguardo di dolore: ella aveva gli occhi rossi; aveva pianto: dunque sua madre le aveva detto qualche cosa; e se ella ne aveva pianto, era segno che il suo cuore non era rimasto insensibile. Fu per Verron una rivelazione; ed egli se ne sentì felice, come se Cristina gli avesse detto: T’amo.

    Il domani ritornò nella strada del Crocifisso; ma la finestra era chiusa. Aspettò: poco dopo vide uscire di casa un prete, col volto oscurato dall’ira, che si rivelava anche al gesto nervoso col quale tirava i peli ora dei baffi, ora del pizzo. Egli diede una occhiata intorno, fermò, un attimo, gli occhi su Verron, aggrottò le sopracciglia, e si allontanò, picchiando forte con la canna sul selciato.

    Chi è costui? – si domandò il giovane: – Che cosa è andato a fare dalle donne?.

    E gli sovvennero alla memoria le parole di Isabella. Era dunque quella l’oscura minaccia dei grandi dolori? Un istinto generoso gli accrebbe il cuore, gli fece credere di esser chiamato a difendere quelle donne da un nemico, che forse era quel prete. Non si domandò quali rapporti corressero fra costui e le donne; e parendogli di non dover indugiare a dar loro coraggio, senz’altro tirò il cordoncino del saliscendi, aprì la porta e salì la scaletta.

    Quando le due donne, che stavano in un angolo abbracciate e piangenti, lo videro entrare, mandarono un grido di sorpresa e di spavento. Ma Verron era così esaltato dalla sua parte di protettore, che, accompagnando le parole con un gesto rassicurante, disse:

    - Signora, ho visto uscire di qui un uomo con un viso malvagio: ho indovinato che è di lui che avete paura; ebbene io son qui per difendervi; e nessuno oserà toccarvi, se non dopo di avermi ucciso!...

    - Disgraziato! – gridò Isabella, congiunge ndo le mani; – voi ci perderete, e perderete voi stesso!... Partite, ve ne supplico!... E non vi fate più vedere...

    Verron non si arrese, benché l’aspetto doloroso di Isabella lo commovesse. Sul volto di Cristina egli lesse un desiderio diverso da quello della madre; nei suoi occhi smarriti e sgomenti balenava una luce: un raggio di sole sopra un cespo di rose spiegato al vento.

    - Perché, – disse, – respingete un cuore pronto a qualunque sacrifizio? di che temete? Qualunque sia il pericolo che vi minaccia, io saprò difendervi: ve l’ho promesso... Rassicuratevi.

    - No, no, no! – ripeteva disperatamente Isabella: – andatevene!... Non pensate più a noi!... Non vi fate più vedere!... Oh Dio! Dio!... Perché ci abbandonate?

    - Ma Dio non vi abbandona, se vi offre un aiuto...

    Il dolore di Isabella spaventò Cristina. Ella abbracciò la madre, come per confortarla, ma intanto volgeva uno sguardo di riconoscenza a quel salvatore giovane e bello, che le appariva così cavalleresco ed eroico.

    - Diglielo anche tu che se ne vada, che ci lasci! – mormorò Isabella alla figlia.

    - Oh, mamma! – gemette la fanciulla; pure cedette, e disse a Verron, col viso di porpora, con voce tremante: – Avete sentito, signore?

    Ma c’era nel tono e nel tremore della voce, nella espressione dello sguardo il dolore che quelle parole le costavano: un dolore che le impediva di aggiungere altro, che le gonfiò il petto, che scoppiò a un tratto in singhiozzi. Ella nascose il volto sul seno della madre, che con angoscia, voltasi a Verron, disse:

    - Voi avete attirato la sventura su questa povera innocente!...

    Giovan Battista Verron s’inginocchiò, come per implorare perdono; ma Isabella gli fece cenno di andarsene.

    - Partite, signore... non vedete che soffriamo?

    Questa volta Verron non seppe opporsi: chinò il capo e disse:

    - Partirò: ma veglierò su voi.

    Quando se ne fu andato Isabella stringendosi al petto la figlia, le domandò dolorosamente:

    - Tu l’ami dunque? l’ami?

    - Oh madre! non lo so, ma qui dentro, qui dentro, lo vedo sempre!

    Si picchiò la fronte, arrossendo; Isabella sospirò:

    - Che Dio ci aiuti!...

    Il domani verso il tramonto Verron si recò nella strada del Crocifisso; ma con suo stupore vide le finestre chiuse con gli scuretti; erano uscite? A quell’ora, di solito, erano sempre in casa, che significavano quegli scuri serrati? Dopo un poco, per trarsi dall’incertezza noiosa che lo tormentava, si avvicinò a una donna che filava dinanzi a una porta accanto.

    - Brava donna, – disse – son forse fuori di casa le signore di quassù?

    - Sono andate via...

    - Cioè?

    - Non capite? Non abitano più qui; hanno sloggiato stamane.

    - Sloggiato?... E dove sono andate?

    - E chi lo sa?

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