Il codice del futuro: La carta europea dei diritti digitali e il senso dell’innovazione
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“Il nostro obiettivo è di promuovere un modello europeo per la trasformazione digitale, che metta al centro le persone, sia basato sui valori europei e sui diritti fondamentali dell’UE, riaffermi i diritti umani universali e apporti benefici a tutte le persone, alle imprese e alla società nel suo complesso.”
Dalla premessa della Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale
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Anteprima del libro
Il codice del futuro - Roberto Viola
Capitolo 1
Obiettivi
«Le persone sono al centro della trasformazione digitale nell’Unione europea. La tecnologia dovrebbe essere al servizio e andare a beneficio di tutte le persone che vivono nell’UE, mettendole nelle condizioni di perseguire le loro aspirazioni, in tutta sicurezza e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali»¹
Cento giorni molto lunghi
«Nei primi 100 giorni del mio mandato, presenterò una proposta legislativa per un approccio europeo coordinato alle implicazioni umane ed etiche dell’intelligenza artificiale»². Nel luglio del 2019, Ursula von der Leyen, candidata alla presidenza della Commissione europea, ha sorpreso chiunque si occupasse di policy digitale lanciando una promessa impegnativa. Una legge sull’intelligenza artificiale? Perché? Perché così in fretta? Da dove veniva l’idea? Quali erano le probabilità di riuscita? E a chi poteva interessare, oltre agli addetti ai lavori? Chi l’avrebbe appoggiata? Con chi avrebbe dovuto combattere? Alcune di queste domande devono ancora trovare una risposta finale. Ma il contesto strategico è ormai chiaro.
Decenni di sviluppi digitali erano arrivati a generare un insieme di rischi ormai importante tanto quanto le opportunità. E le condizioni congiunturali stavano maturando per motivare e consentire una forte azione riformatrice. La scommessa fondamentale era quella di poter ritrovare un senso nello sviluppo delle tecnologie digitali che da qualche tempo sembrava perduto. I fatti successivi a quel luglio del 2019 avrebbero accelerato tutto.
Ursula von der Leyen non era ancora presidente. Lavorava in una stanzetta di un palazzo della Commissione in attesa di entrare in carica alla fine dell’anno. Stava preparando una strategia che avrebbe tenuto impegnata la sua Commissione e probabilmente dato una direzione anche alle successive. La transizione ecologica doveva essere abilitata dalla transizione digitale, per poter realizzare una transizione sociale. La dimensione digitale era il punto d’appoggio che avrebbe dovuto permettere di affrontare, innovando, le enormi sfide che attendevano gli europei di fronte all’emergenza climatica e alla crescente ineguaglianza sociale. Ma quando Ursula von der Leyen e la sua Commissione si insediarono, nessuno avrebbe potuto prevedere che cosa sarebbe successo da lì a qualche settimana.
Traumi, turbolenze e decisioni
La pandemia ha travolto ogni programma. Nel marzo del 2020, l’Europa è stata colta di sorpresa. Sulle prime ha avuto una reazione smarrita: non si trovavano le mascherine, non c’erano i respiratori, i diversi Paesi adottavano i lockdown in ordine sparso. Il primo Paese a decidere la chiusura totale era stata l’Italia. In previsione di quella misura, il ministro Stefano Patuanelli ha chiamato il commissario Thierry Breton. Di fronte a quella notizia, il commissario convoca i suoi più stretti collaboratori e crea un’unità di crisi: perché era urgente lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro per aumentare la produzione di mascherine, per sostenere le reti digitali e per arrivare a riaprire al più presto.
Solo dopo diversi mesi si è vista la luce. C’erano tensioni sulla distribuzione dei vaccini, ma la strada che portava fuori dalla crisi era chiara a tutti. Ci si doveva preparare a realizzare una campagna vaccinale capillare. E, intanto, sostenere la tecnologia digitale che si era dimostrata essenziale per la tenuta del sistema. Per consentire il commercio, per facilitare la continuità del lavoro, per organizzare i servizi della pubblica amministrazione, la rete digitale era stata l’àncora di salvezza. La crescita della sua importanza era sotto gli occhi di tutti. Persino la gestione degli spostamenti fisici funzionava in base a una realizzazione straordinaria del mondo informatico che in pochissime settimane era stato in grado di produrre il certificato Covid europeo, che informava sullo stato di salute e sulle vaccinazioni di ciascuno in un formato standard che poteva essere riconosciuto in tutta l’Unione.
Un altro evento straordinario è stato la risposta economica alla pandemia, il Piano di Rilancio e Resilienza (PRR)³. Per la prima volta nella storia l’Europa si finanzia attraverso un debito comune per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, guardando verso il futuro: la trasformazione verde e digitale della nostra società. La Commissione in quel contesto ha deciso di destinare al digitale il 20% delle risorse previste per il sostegno all’economia e alla società europea che affrontava la crisi dovuta ai lockdown. Una decisone senza precedenti, enorme. Mai come in quel momento si era arrivati a comprendere la forza trasformativa del digitale. Nessuno più poteva considerare internet come una tecnologia sovrastrutturale: tutti la vedevano finalmente come una condizione per il funzionamento della società. L’economia e la società hanno comunque retto, nonostante la devastante pandemia, perché stavolta c’era il digitale. La tecnologia andava presa sul serio.
Ma c’era dell’altro. Un evento sconvolgente, mai successo in 300 anni di storia, doveva rendere ancora più chiara la crescente importanza del digitale. Il 6 gennaio del 2021, un nutrito gruppo di persone accalorate e vestite nei modi più fantasiosi hanno assaltato il Congresso degli Stati Uniti. Un abbozzo di rivolta contro le istituzioni centrali della grande democrazia americana era stato organizzato via internet, in un contesto dove un presidente degli Stati Uniti comunicava tramite i social network, e messo in atto da persone radicalizzate dalle informazioni che trovavano sul web. Questo evento ha spazzato via ogni dubbio: una riforma profonda delle regole dell’internet non era più impensabile, era necessaria. La società doveva essere preservata da un evento del genere.
Il che dava ragione all’Europa. Giusto poche settimane prima, a fine dicembre 2020, la Commissione europea aveva presentato la sua proposta rivoluzionaria di regolamentazione del digitale: Digital Services Act (DSA)⁴ e Digital Markets Act (DMA)⁵. E proprio in quel momento, dopo l’assalto del 6 gennaio, le Big Tech hanno preso la decisione di escludere il presidente degli Stati Uniti dall’uso dei loro social network: una scelta senza precedenti. Che conferma l’assunto che aveva condotto la Commissione sulla strada dell’innovazione normativa su internet: le Big Tech non potevano chiamarsi fuori, dovevano assumersi le loro responsabilità su quanto circolava in rete e di fatto lo ammettevano. Era maturo il momento per realizzare una forte regolamentazione del Big Tech, non solo quelle degli Stati Uniti ma di tutte quelle che operano in Europa.
E forse occorreva addirittura qualcosa di più. Tutti vedevano che internet era importante, nel bene e nel male. Poteva salvare le popolazioni nel momento della pandemia. Poteva distruggere le democrazie nel momento dei passaggi elettorali più controversi. Insomma, i nuovi investimenti nel digitale e i nuovi interventi normativi relativi al digitale erano necessari. Ma non sufficienti.
Prospettive da ridisegnare
Per scoprire che cosa servisse davvero, occorreva un’interpretazione del futuro di internet più articolata. E quindi valeva la pena di ripensare alle dinamiche storiche che avevano portato il digitale a essere quello che era diventato. La congiuntura permetteva e richiedeva di intervenire con nuove regole. Ma per decidere come fare quelle regole occorreva avere una prospettiva strategica.
In effetti, non si poteva non vedere che l’internet originaria aveva aperto molte possibilità, sulle quali si erano stratificate significative limitazioni. Progetto originariamente militare, internet era una struttura pensata per resistere a qualsiasi attacco. Il protocollo internet era però stato trasformato nella piattaforma che regge il World Wide Web, creato al CERN per favorire la collaborazione tra gli scienziati. Questi principi fondativi si sono dimostrati generativi. Fin dai primi anni hanno attivato progettualità diversissime, orientate alla solidarietà della ricerca e alla liberazione dell’informazione, all’innovazione sociale e alla creatività digitale, alla ribellione politica e, quando l’originario tabù che lo vietava fu superato, anche allo sfruttamento commerciale. Proprio quest’ultima dimensione divenne presto preponderante.
Due forze fondamentali, emerse alla metà degli anni Novanta, sospingevano la rete verso il suo futuro dirompente.
Innanzitutto, l’effetto di rete, la cosiddetta legge di Metcalfe
⁶: un’evidenza ormai data quasi per scontata, che afferma che il valore di una rete cresce esponenzialmente con la crescita del numero dei suoi utenti.
In secondo luogo, la protezione dalla responsabilità imprenditoriale per le piattaforme digitali rispetto alle illegalità commesse dai propri utenti, definita originariamente nella sezione 230 del Communications Decency Act⁷ del 1996 degli Stati Uniti. L’Europa ha condiviso l’approccio, ma l’ha reso più sofisticato nella direttiva sul commercio elettronico del 2000⁸, condizionando l’esenzione di responsabilità alla mancanza di conoscenza: la responsabilità delle piattaforme ritorna completa dove c’è conoscenza dell’illegalità commessa.
Queste due spinte diedero un impulso straordinario alla crescita delle aziende internettiane vincenti e alla crescita dell’economia digitale, ormai più grande di quella fisica. L’effetto di rete consentiva una crescita del fatturato molto più veloce della crescita dei costi: quando quella dinamica si innescava, la profittabilità dei business accelerava. Il che era alimentato dall’irresponsabilità che, ovviamente, abbassa i costi: consente di approfittare del lavoro degli altri, di ottimizzare gli aspetti fiscali e anche, l’abbiamo visto quotidianamente, di amplificare automaticamente i contenuti che attraggono di più, anche quelli più tossici.
La politica degli anni Novanta e dei primi tre lustri del nuovo millennio vedeva con enorme favore la crescita del digitale, che abbatteva i vecchi potentati e smantellava i sistemi di controllo autoritari. Lo stesso presidente Barack Obama faceva del digitale una sua bandiera. E quando nel 2011, a partire dalla Tunisia, si avviarono i processi che portarono alle primavere arabe, anche per una grande incomprensione di quello che avveniva nel Maghreb, gli occidentali pensarono che internet fosse davvero la macchina della liberazione, fondata sui social media.
Un movimento intellettuale vagamente acritico ha finito col vagheggiare una sorta di personificazione delle grandi aziende, che diventavano salvatrici dell’umanità convincendo tutti che il loro scopo non fosse quello di far soldi, ma che esistessero solo per migliorare il mondo.
Di certo, i giganti digitali hanno distrutto le vecchie rendite di posizione, creato innovazione e nuovi servizi, ma hanno involontariamente colpito anche l’erba buona. L’algoritmo con obiettivo di fare soldi ha amplificato la spazzatura e ha generato distorsioni culturali e sofferenze sociali con pochi precedenti. Appena l’algoritmo di raccomandazione coglieva una concentrazione di attenzione, interveniva per moltiplicarla ancora di più. E pazienza se si trattava di messaggi di odio, di teorie complottiste, di disinformazione. Anzi, più controverso e polarizzante il messaggio, più l’attenzione ne veniva catturata. Non c’è voluto molto perché chi aveva grandi interessi politici o economici e piccoli scrupoli, cominciasse a utilizzare questa logica e i sistemi fondati su di essa per manipolare l’attenzione. Il sistema dell’informazione ne uscì trasformato. In