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Trilogia del Maresciallo Giovanni Marzo
Trilogia del Maresciallo Giovanni Marzo
Trilogia del Maresciallo Giovanni Marzo
E-book734 pagine11 ore

Trilogia del Maresciallo Giovanni Marzo

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Info su questo ebook

PER LIBERE ELEZIONI (I)
Alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, Benito Mussolini attende il suo destino nel carcere militare di Peschiera del Garda, mentre alcuni dei suoi, sopravvissuti all’epurazione, confidano nel rilancio della seconda ondata. Tutta l’Italia vive un fragile equilibrio politico, presagio di un ritorno all’autoritarismo, con le parti che si fronteggiano insidiose e infide, restie a qualunque iniziativa, nel timore delle conseguenze del responso elettorale.
In questo clima sospeso, il maresciallo di prima classe Giovanni Marzo arriva a Viserba segnato da esperienze a Roma e nell'Africa Orientale, e incappa subito in un caso di omicidio. In un campo arato, un fattore trova il cadavere di una bella sconosciuta cinquantenne dai tratti fini, gli abiti eleganti e un anello con il fascio littorio. Marzo è molto colpito e inizia l'indagine con metodo finché il delegato di Pubblica Sicurezza Florenzi, avvezzo ai sistemi del passato regime, gli toglie il caso.
Ma il maresciallo Marzo ha notato qualcosa che non può trascurare, e ha tutta l’intenzione di scoprire gli assassini.
LE SEZIONI MANCANTI (II)
Nonostante l'esito chiaro del referendum, a metà giugno del 1946, l'Italia non è ancora una Repubblica e sull'orlo di una guerra civile. Con Benito Mussolini prigioniero degli Alleati nel carcere militare di Peschiera del Garda e il Re insofferente allo spoglio, i vincitori in pectore temono di perdere il vantaggio sancito. Il maresciallo Giovanni Marzo non è ancora guarito dalle ferite e non può tornare con Claudia per non esporla di nuovo a pericoli mortali. Quando il custode del cimitero trova altri due corpi trucidati davanti alla porta dell'obitorio, uno dei quali è del suo vecchio aguzzino, Marzo pensa che si tratti della feroce epurazione post-bellica. Ma non crede ai suoi occhi nel vedere l'altro, e inizia frastornato l'indagine attraverso i percorsi ancora sotterranei e sanguinosi dei resistenti, per i quali l'assassinio è solo il particolare necessario per un incredibile disegno.
IL CONFINE CONTESO (III)
Al volgere del 1946, in attesa del giudizio della Corte Internazionale a Benito Mussolini, l’appena nata Repubblica Italiana soffre il sanguinario irredentismo bilaterale al confine con la Jugoslavia. Quando il giovane carabiniere Spizzichino viene trovato ucciso sull’avamposto nelle Alpi Giulie dove era appena stato trasferito con la gravissima accusa di tradimento, tutti si sentono responsabili. È stata una rappresaglia dei partigiani rossi, sentenziano le autorità locali, e l’indagine è già archiviata.
Ma il maresciallo Marzo affonda nel senso di colpa e per sapere chi l’ha ammazzato dovrà penetrare gli infidi miasmi della guerriglia sul confine conteso.
Un giallo costruito sullo sfondo dell’aspra e impari lotta che l’Italia battuta combatté a Parigi con gli Alleati, e di quella ancor più spietata tra le diverse fazioni sul confine istriano, per mantenere il fazzoletto di terra più conteso del mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2023
ISBN9798215985533
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    Anteprima del libro

    Trilogia del Maresciallo Giovanni Marzo - Francesco Zampa

    COPERTINA

    È una storia di pura invenzione.

    I personaggi sono frutto della fantasia dell’autore.

    Per libere elezioni

    Copyright © 2022 Francesco Zampa

    francesco.zampa@hotmail.com

    www.ilmaresciallomaggio.blogspot.com

    In copertina: Fascio abbattuto, di Francesco Gaggia

    a Cinzia

    Mio ordine è preciso: tutte le formazioni squadristiche saranno sciolte a qualunque costo dico a qualunque costo. (telegramma di Benito Mussolini a Roberto Farinacci, 13 ottobre 1925)

    COPERTINA

    CAPITOLO 1

    Il maresciallo Giovanni Marzo appoggiò la mano destra sul ginocchio piegato e spinse. Qualche giuntura scricchiolò, e lui si rimise in piedi. Pesava troppo anche per la sua notevole statura. Era stato diversi minuti nella scomoda posizione e il gonfiore che già aveva di solito per la cattiva circolazione sanguigna, si era accentuato. Continuò a osservare il cadavere adagiato mentre attendeva che l’insistente giramento di testa che gli era venuto, si attenuasse. Il corpo di una donna magra, dell’età apparente di non più di cinquant’anni, era sdraiato fra grosse zolle, alcune scansate come a formare un rudimentale sarcofago aperto, in una posa scomposta. A pochi metri, un albero bruciato da un fulmine rendeva ancor più sinistro il quadro. Lineamenti fini; bella, avrebbe detto in altre circostanze. Indossava un vestito nero di ottima fattura spiegazzato, e lacerato nella parte più bassa. La smorfia pietrificata della bocca e la fissità vacua degli occhi semiaperti erano rimasti ben visibili tra i lunghi capelli neri spettinati a coprirle parte del volto pallido e tumefatto.

    «Va tutto bene, signor maresciallo?» Raffaele Spizzichino, il giovane carabiniere scelto, si animò dalla rigida posizione che aveva assunto, e scattò in avanti mentre si aggiustava il berretto.

    Sbiancato in volto, Marzo lo guardò silenzioso per qualche secondo. «Sì, sì, grazie.» Piano piano riprese colore. «Cosa sappiamo?»

    Spizzichino era arrivato a Viserba poco prima di Marzo stesso. «Nulla, signor maresciallo.» Indicò con il pollice alle sue spalle. «L’ha trovata quel signore lì ed è venuto a chiamarci.»

    Marzo si voltò. Qualche metro più indietro, un uomo sulla sessantina, la pelle rugata cotta dal sole, tentava di infilare una pala tra il volante e il sedile di un vecchio trattore gommato, senza riuscirci. Quando si accorse di essere osservato, la lasciò a terra e li guardò a sua volta. Stringeva un largo cappello di paglia tra le mani in un atteggiamento mesto di attesa. Marzo si avvicinò.

    «Lei è…?»

    L’uomo indossava una giacca di flanella sdrucita con le toppe ai gomiti. I pantaloni scuri terminavano nell’orlo consumato su due vecchie scarpe di cuoio marrone. Fece un passo avanti e piegò appena il capo. Inciampò su una grossa zolla e per un secondo perse l’equilibrio.

    «Semprini, signor maresciallo. Adelmo Semprini. Sono il contadino qui» indicò il campo lavorato su cui giaceva il cadavere, «e nell’altro accanto.» Spostò l’indice su un terreno incolto ancora più vasto oltre una siepe a confine. «Lavoro alla fattoria Oliveto, dei signori Oliveto di Orsoleto, signor maresciallo. Devo preparare per la semina.»

    «…e…?»

    «Passavo con il trattore. Ho visto qualcosa di scuro, mi sembrava un cane morto. Ma era in mezzo al campo, signor maresciallo, e si vedeva che non era un cane.» L’uomo parlava con voce tremolante. «Voglio dire, una cosa scura in mezzo a un campo che avevo dissodato ieri. Poteva essere solo un animale, un cane, anche se non ne aveva l’aspetto da lontano.»

    «A che ora è successo?»

    «Sono uscito questa mattina presto, alle sei, più o meno. Dalla fattoria a qui ci vuole un’ora circa. Ho anche lavorato un po’ prima di accorgermi.»

    Marzo lo guardò. «Un’ora?»

    «Sì, signor maresciallo. Prima devo passare dall’altra parte,» indicò di nuovo l’appezzamento più lontano, «poi vengo quaggiù.»

    «E perché?»

    L’uomo sbatté le palpebre sempre più veloce, e cominciò a balbettare. «Ve-vedo se devo ri-ripassare qualcosa dal giorno prima, signor maresciallo. Metto la nafta se oc-core al magazzino in fondo, riempio i se-serbatoi dell’acqua.»

    Marzo si toccò il colletto della camicia. Era tirato ma non poteva allentare il nodo della cravatta neanche ora che il caldo si cominciava a sentire. Fece una smorfia e un piccolo sbuffo.

    «E li ha controllati?»

    «Ho ri-ripassato la prima tavola, ma ho fa-fatto presto. P-poi s-sono venuto qui.»

    Marzo attese che Semprini respirasse a fondo e si calmasse. «Niente carburante?»

    «Ce n’era abbastanza.»

    Marzo fece un cenno al carabiniere.

    «Vai,» disse questi facendo ampi gesti con le braccia a Semprini, «vai, non sei contento? Hai sentito cosa ha detto il signor maresciallo? Vai, vai.»

    Semprini li guardò, uno per volta. Fece un passo indietro, spinse il berretto a fondo e tornò al trattore.

    Lo guardarono allontanarsi. Marzo si lisciò i grossi baffi e tornò sulla donna. Il collo eburneo mostrava segni di strangolamento, alcune ditate erano evidenti. Come se fosse viva, con una carezza Marzo le sollevò la mano destra e notò segni rossastri anche sul polso. Sentì il freddo delle dita e la appoggiò. Con la stessa delicatezza, infilò il suo grosso palmo sotto quello della sinistra di lei, e lo ruotò. Aveva uno spesso anello d’oro all’anulare. Sopra, a ornamento, c’era un inconfondibile fascio littorio stilizzato. Il monile era sporco di terra nella parte inferiore. Marzo acuì la vista e con il pollice scansò la terra secca senza riuscire a pulire del tutto. C’era sotto ancora un’iscrizione, o un simbolo. Dietro di lui, riconobbe il rumore della camionetta della Pubblica Sicurezza, su di giri fino all’ultimo. Adagiò la mano e si alzò di nuovo come poco prima, ma con ancor più fatica.

    «Buongiorno, maresciallo.» Il delegato di Pubblica Sicurezza Mario Florenzi scese con un balzo dall’auto scura un attimo prima che il mezzo si fermasse. Si avvicinò a Marzo mentre guardava fisso il cadavere. L’autista e l’assistente lo seguirono.

    Il vice commissario, l’aggiunto o delegato, come lo chiamavano, Florenzi aveva assunto la carica a Forlì durante la guerra. L’avevano mandato a Rimini poco prima dell’Armistizio, dicevano per una lontana parentela con il Duce, della quale prima si vantava e ora rinnegava. Ma, fino all’8 settembre 1943, Mussolini aveva avuto un numero sempre crescente di parenti e amici in Romagna. Per una consuetudine non scritta, la Polizia si occupava di ordine pubblico e crimini politici, e i carabinieri di fatti ordinari. Per i delitti più gravi, o quando l’ordine sociale poteva essere particolarmente turbato, interveniva comunque un delegato.

    «Buongiorno.» disse Marzo. «Volevo dire…»

    Florenzi lo guardò negli occhi. Marzo contraccambiò, immobile. «I carabinieri facciano quel che devono fare, senza pensare a squagliarsela. Questo è affare nostro.»

    Quando l’altro distolse lo sguardo, Marzo fece un passo indietro.

    Florenzi gli passò davanti. Era più basso e neanche cinquantenne ma, per un eccesso di pancia e i capelli radi, dimostrava più di quell’età. Lo guardò di nuovo per un attimo. «Ce ne occupiamo noi, ora.»

    Il delegato piegò la schiena come se avesse un tutore rigido, e appoggiò le braccia distese sulle ginocchia. Senza voltarsi, alzò la mano destra e mosse l’indice come se fosse un uncino. L’assistente, un uomo robusto, dalle grosse mani e dal collo taurino stretto da una cravatta e sul colletto della camicia di una taglia insufficiente, strinse la bocca e passò anche lui davanti a Marzo.

    Florenzi gli indicò l’anulare della donna. «Cos’è?»

    L’assistente si avvicinò, strizzò gli occhi. Con una mano sollevò quella della donna, prese l’anello tra pollice e indice e tirò. La pelle irrigidita rendeva più difficile l’operazione e il braccio ebbe un sussulto scomposto. L’assistente serrò la bocca, strinse ancor più le dita e tentò di nuovo a forti strattoni. Anche la spalla e la testa della poveretta ebbero un fremito. Al tentativo successivo, il corpo fece un piccolo balzo, ma l’anello non si mosse. L’uomo spostò una gamba poi l’altra, si tirò leggermente i pantaloni in su all’altezza delle ginocchia e si piegò in avanti. Afferrò il polso della donna come si fa con quello di un bambino capriccioso, arpionò l’anello tra le cinque dita dell’altra mano e tirò con forza spropositata. La donna si sollevò, lui le appoggiò il ginocchio sulla spalla e la tenne a giù. Tirò ancora, finché l’anello uscì. Il braccio della donna cadde semirigido. L’assistente guardò distratto il monile e lo passò al superiore.

    Questi ebbe una smorfia di disappunto. «Scansati.» Disse. Prese l’anello, l’osservò sommariamente dentro e fuori e se lo infilò in tasca.

    Giunse un’altra camionetta con quattro poliziotti. Tre di loro, appena scesi, con ampia gestualità fecero allontanare Marzo e Spizzichino ancor di più. Il quarto calzava guanti, aveva una valigetta in mano e andò subito verso il delegato. Anche il delegato e l’assistente fecero un passo indietro, il primo con le mani infilate nelle tasche della giacca e l’altro con le braccia dietro la schiena. Il poliziotto appoggiò la valigia a terra, la sdraiò e cercò un punto dove fosse abbastanza orizzontale. La aprì, tirò fuori una macchina fotografica e si mise ad avvitare alcuni accessori.

    Marzo diede un’ultima occhiata e si allontanò con grossi e lenti passi. Spizzichino era ancora concentrato sulla donna. Si voltò con qualche secondo di ritardo e corse dietro al comandante.

    Camminarono fino alla grossa quercia dove avevano appoggiato le biciclette nere in dotazione. Una era molto ben funzionante nonostante avesse qualche anno, l’altra era nuova ma sembrava più fragile per le aumentate misure di Marzo. Nel dubbio di prendere quella sbagliata, o più gradita dall’altro, Spizzichino attese per vedere quale avrebbe scelto. Marzo andò diretto alla più vicina e la inforcò. Il sellino scricchiolò sotto il suo peso, i raggi flessero appena, i copertoni si appiattirono a contatto con la strada. Marzo appoggiò il piede, diede la prima spinta e la bici partì sicura e spedita.

    Spizzichino aveva già assistito ad avvii in apparenza incerti, ma rimaneva lo stesso attento nel tentativo di cogliere l’attimo in cui la sensazione istintiva di precarietà veniva smentita dall’abilità di Marzo. Non ci riuscì neanche stavolta, scosse la testa stringendo le labbra e salì sull’altra bici. Si aggiustò il moschetto a tracolla e pedalò in scia.

    Appoggiarono le bici al muro esterno di Villa Gubellini, la graziosa villetta liberty sede della caserma di Viserba. Spizzichino si affrettò ad aprire lo sportellone di legno sul retro per rimettere entrambe nei locali a pianterreno. Marzo salì i gradini della scala esterna e, come al solito, cominciò ad ansimare quando era a metà. Sopra al portone campeggiava l’insegna dei carabinieri reali a coprire il fregio liberty dell’architrave. Marzo non lo guardava più da tempo, rientrando, ma più distoglieva lo sguardo, più aveva presente la forzatura dell’accostare i fasci littori allo stemma storico. Che poi, da altre parti ne avevano messo solo uno: ma forse in Romagna si voleva abbondare per la vicinanza alla casa del Duce. Si consolava pensando che molto presto quella coppia sarebbe svanita, perché il fascismo era ormai vivo solo sulla carta. E forse sarebbe stato meglio togliere tutto lo scudo e metterlo in cantina, perché anche la monarchia poteva avere i giorni contati. Qualcuno lo avrebbe forse tirato fuori dopo trenta o quarant’anni, se sarebbero stati sufficienti a dimenticare abbastanza di tutto quel che era successo, per metterlo in un museo di provincia o nella sala riservata di un circolo di nostalgici.

    Gli uffici della caserma erano al primo piano. Per una scala interna si accedeva al secondo, dov’era l’alloggio del comandante.

    Il piantone, l’appuntato Teo Turati, era seduto con il Resto del Carlino aperto davanti a sé. Con la fronte aggrottata, era molto preso dalla lettura. Appena si accorse di Marzo chiuse il giornale e scattò in piedi tenendo il berretto calzato. «Comandi, signor maresciallo.»

    Marzo sbirciò il quotidiano e andò diretto nel suo ufficio. Un’altra copia intonsa era sulla sua scrivania. Appoggiò il berretto sulla piccola libreria di legno, si tolse la giacca di autarchico orbace a piccoli strattoni e la appese all’attaccapanni dietro la porta. Infilò l’indice sul nodo della cravatta che però, a causa del sudore, non voleva saperne di allentarsi. Alla fine ci riuscì. Si sbottonò il colletto umido della camicia caki e lo allargò passando il dito all’interno. Andò alla finestra e aumentò leggermente la fessura tra le persiane per far trapelare più luce. La penombra era necessaria perché ormai, dopo il lungo inverno e le nevicate, il sole quasi estivo già picchiava come avrebbe fatto per tutta l’estate. Si arrotolò le maniche con la stessa fatica di poco prima. Versò un po’ d’acqua fresca dalla brocca sulla bacinella, si sciacquò il viso e sedette alla sua scrivania con uno sbuffo. Allargò il giornale in modo da vedere per intero la prima pagina.

    Il titolo principale campeggiava a sette colonne come al solito:

    SI AVVICINA IL REFERENDUM

    L’ITALIA DECIDE LA COSTITUENTE

    Non c’erano novità, ma erano mesi che i quotidiani titolavano come se ce ne fossero. I riminesi che si erano rifugiati a San Marino dopo i bombardamenti dell’anno prima erano ormai tutti rientrati. La gente aveva bisogno di lasciarsi dietro i troppi orrori vissuti. Il 2 Giugno 1946 era atteso come una linea spartiacque dopo la quale iniziare di nuovo a vivere. Vedrete, ci penserà Lui, sentiva dire ogni tanto Marzo mentre passava in bici sul lungomare a vedere quel che succedeva qua e là. Allora si girava a guardarlo, e quello non parlava più. Andò avanti:

    DAL FEUDO CREMONESE FARINACCI INNEGGIA ALLA VITTORIA DEI REPUBBLICANI

    Anche questa era l’ennesima eco. Roberto Farinacci era stato uno dei tanti estemporanei delfini del Duce, finché questi non l’aveva sospettato di aver tentato di farlo fuori. Il Duce non aveva delfini, e divorava chi sognava di esserlo. Però Farinacci aveva avuto l’intuizione formidabile di tornare a casa mentre tutti lo pensavano in fuga da qualche parte. Si era procurato tre furgoni, aveva speso la gran parte di quel che aveva per acquistare viveri e medicinali sul mercato nero, ed era arrivato dalle sue parti dove aveva distribuito tutto in pochi giorni, prima di consegnarsi al podestà del suo paese, che lui aveva fatto eleggere, il quale lo aveva accompagnato dai carabinieri. L’avevano arrestato e messo in cella di sicurezza, ma la gente si era adunata fuori in una protesta silenziosa. Non erano squadristi, erano contadini ai quali lui aveva sempre fatto del bene, come ripeteva a tutti. Questo bastò a contenere l’impatto, a diluire la rabbia dei più, ad attendere l’arrivo degli inglesi che lo tennero al sicuro finché la situazione fu più chiara. Lui era stato il segretario del PNF, aveva difeso gli assassini di Matteotti al processo e, indirettamente, Mussolini stesso, ma non c’erano accuse specifiche e, anzi, aveva rappresentato spesso l’opposizione interna. Si era dato da fare, dissero, e non era scappato. Oh, sì, c’era stato il grande rivale Cesare Rossi, e la sfiducia pubblica di Mussolini era diventata, a quel punto, un merito. Le Leggi Razziali non erano state opera sua, si giustificava, il suo era stato antisemitismo di facciata. Lui era sempre stato contrario ad Adolf Hitler e all’entrata in guerra, e per questo il Duce lo aveva allontanato. Ecco, ecco, aveva detto, è stata tutta colpa del Duce. Così, presi com’erano tutti a fondare la nuova Italia, l’avevano accantonato, protetto dai suoi, in apparenza innocuo, e lui aveva continuato a darsi da fare, lanciando sfide al Re vigliacco e traditore della Patria, lui che era stato ministro a Salò e che ora inneggiava a tutto fiato alla nascente Repubblica. Marzo scosse il capo. La notizia vera era un trafiletto a fondo pagina:

    MUSSOLINI SARÁ INTERROGATO

    MARTEDÌ 6 GIUGNO

    Con cronometria politica troppo efficace per non essere casuale, l’escussione del teste numero uno, il colpevole di tutte le disgrazie subite, sarebbe avvenuta a spoglio ormai avvenuto e, verosimilmente, con il primo vagito del Nuovo Stato, a sottoscrivere il simbolico punto di impossibile ritorno.

    Benito Amilcare Andrea Mussolini era in galera da più di un anno. I partigiani Bill e Biondino lo avevano arrestato a Dongo. Barricati nel rifugio montano di Bonzanigo, lo scrupoloso capitano Neri e la combattente Gianna della Brigata Garibaldi avevano resistito due ore alle pressanti richieste del comandante Valerio e dei suoi, giunti da Milano con il perentorio ordine di esecuzione. Gli americani erano intervenuti in forze e l’avevano strappato ai riluttanti partigiani, ancora travestito da soldato tedesco, in esecuzione alla ineludibile clausola dell’armistizio di Malta tra Eisenhower e il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, per la quale Benito Mussolini sarebbe stato consegnato alle Forze delle Nazioni Unite. Un aereo in attesa a Bresso l’aveva subito prelevato. Nessuno credeva più al ritorno del dittatore dopo il disastro, i lutti, gli eccidi, le tragedie. Neanche i suoi ormai pochi estimatori romagnoli. A chi interessava più un condottiero dimesso e silenzioso, chiuso nella sua cella a Peschiera del Garda, avvolto, dicevano i pochi che l’avevano visto, in un mutismo orgoglioso eppure espiatorio. Un uomo stanco, sfiduciato, l’ombra scolorita del condottiero che aveva voluto impersonare. Un uomo finito. Nell’angusta cella posta nell’intera ala a lui solo riservata, il Duce del fascismo passeggiava avanti e indietro, leggeva, scriveva e accartocciava subito dopo i fogli appena vergati, guardava con occhi neri fissi e spalancati lo stesso ristretto paesaggio lacustre mutato solo dalle stagioni, e diviso in quattro piccole immagini contigue da due solide sbarre di ferro incrociate. Ogni tanto, con la mano ormai stanca, ne afferrava una con l’antica determinazione. Ma quel metallo temprato era troppo freddo e solido per non risvegliarlo alla cruda realtà. Allora, l’ex-duce serrava la mascella e stringeva le labbra. La tentazione di sbattere di nuovo la testa sul muro, come quando fu sorpreso dal fedele e silenzioso capo dei commessi Quinto Navarra, si faceva a quel punto quasi irresistibile. Dopo lunghi secondi, chinava il capo indifeso dai fantasmi mai stanchi che riprendevano a tormentarlo. I miasmi della spietata ulcera duodenale che lo affliggeva da decenni si rifacevano insopportabili, e più scacciava il pensiero, più sapeva quanto questa fosse la nemesi di quel maledetto 10 giugno del 1924, quando tutto sembrava aver avuto inizio, e invece era già la fine. Solo a quel punto il tenente Stetson, addetto allo spioncino, parlava senza distogliere lo sguardo neanche per un secondo. Il prigioniero ha afferrato la sbarra, ha tirato con forza, si è seduto. Alle sue spalle Boyville, il sergente scrivano, annotava la nuda cronaca su un grosso brogliaccio. Ore… del… il prigioniero ha afferrato la sbarra, ha tirato, si è seduto. Quindi firmava accanto, si alzava e dava il cambio all’ufficiale nell’osservazione per il tempo necessario a che lui facesse la stessa cosa. Ogni tre ore, un ufficiale superiore ispezionava tutto l’assetto scortato da quattro guardie armate. Tre doppie porte blindate per l’accesso a tre livelli successivi di sicurezza, venivano aperte e chiuse contemporaneamente dall’interno e dall’esterno. A ogni cambio turno tutti gli addetti erano identificati e registrati. Un medico militare era sempre presente e ogni mattina, e a ogni richiesta, controllava la salute del prigioniero di guerra più prezioso di tutti quelli a giudizio in quel momento a Norimberga. Non era possibile nessuna variazione del rigido protocollo da eseguire alla lettera. Quattro compagnie di rangers americani e due di riservisti inglesi e australiani, erano rimaste dislocate nella fortezza asburgica solo per garantire la custodia del Capo decaduto, la zona dichiarata extraterritoriale per impedire, o almeno tenere più lontana possibile, qualsiasi iniziativa del Governo italiano. Gli italiani non lo saprebbero tenere a lungo, ammiccavano fra di loro gli ufficiali alla buvette, e certo l’avevano sentito dire più volte negli Stati Maggiori, anticamere della politica, prima di essere destinati al delicato incarico. Appena fuori dal perimetro, due insediamenti dei carabinieri e della Pubblica Sicurezza vigilavano affinché non succedesse nulla ma, ai più, sembravano un vacuo tentativo del paese sconfitto di riaffermare una sovranità che non c’era più, e chissà se e quando sarebbe tornata. Gli Alleati dicevano di volere un processo come quello che si stava per concludere in Germania, ma non avevano immaginato abbastanza le resistenze che sarebbero giunte dalla burocrazia italiana e soprattutto avevano sottovalutato la complicata vicinanza con il Vaticano. Oltretevere non gradivano processi sommari le cui sentenze capitali, lo sapevano tutti, sarebbero presto giunte per le gerarchie supreme naziste, e temevano inoltre di perdere anche il vantaggio acquisito con il Concordato. Così, in Italia, non solo non era ancora stata nominata una corte, ma non era stato deciso quale sarebbe stata la strada da seguire.

    Marzo, come molti altri, pensava che gli Alleati avessero in realtà preferito rinviare a dopo il referendum per non influenzarne l’esito, già imprevedibile, in maniera altrettanto imprevista. Non si fidano di noi, come al solito. Chiuse il giornale.

    Appesa alla parete di fronte alla sua scrivania, c’era la piantina geografica di Viserba e territorio, stampata dall’Istituto Geografico Militare di Firenze appena prima della campagna africana. Anche qui, due fasci littori trattenevano l’antico stemma, quasi custodi forzati. Appoggiò l’indice sul luogo dove avevano rinvenuto il cadavere della donna. Con un breve movimento, lo strisciò fino all’appezzamento dove Semprini aveva detto di essere andato a fare rifornimento o qualcosa del genere. Quindi andò oltre, con un movimento molto più ampio, fino alla fattoria degli Oliveto, sulla via Emilia. Chiamò Spizzichino, ma Turati venne alla porta.

    «È appena uscito, signor maresciallo, con la bolgetta della posta.»

    Marzo annuì e l’appuntato tornò al suo posto. Uscì dall’ufficio, frugò nello zainetto in dotazione alla bici e ne estrasse un blocchetto per appunti. Adelmo Semprini, fattoria Oliveto, donna bella, circa cinquant’anni o poco meno, ben vestita, capelli neri lisci, probabilmente strozzata, lividi di dita sul collo, occhi semiaperti chiari, altezza un metro e cinquantotto… Come sua abitudine, Marzo aveva parlato e chi era con lui aveva appuntato le parole mano a mano. Esce alle sei, ci mette un’ora. Controllò di nuovo le distanze sulla piantina. Conosceva la zona ma voleva essere il più preciso possibile. Semprini arriva al campo più o meno alle sette, vede il corpo e chiama. Marzo controllò l’orologio sul taschino, era quasi mezzogiorno. Erano rientrati più o meno da mezzora, erano stati lassù un’oretta, prima che arrivasse il delegato. Si grattò la nuca, mosse appena la testa. Pelle bianca, anello col fascio e una scritta sotto. Si passò due dita sugli occhi chiusi. Doveva rifare le lenti, era un po’ che se n’era accorto. Se non avesse rimandato avrebbe avuto meno problemi a leggere.

    Il piantone si alzò di scatto e lo salutò con un cenno della mano.

    Marzo scese le scale e si avviò sul marciapiede per il lungomare. Molte delle numerose ville lungo la strada in terra battuta erano ormai aperte. Le donne di servizio avevano pulito e rimesso a posto camere e cucine, pronte ora ad accogliere le famiglie dei signori per la villeggiatura. Qualcuna aveva ancora le finestre sbarrate e il giardino in abbandono, qualcun’altra era sbarrata con delle locandine del Comitato di Liberazione Nazionale. Alcune erano strappate in più punti ma nessuno era andato a toglierle del tutto. Marzo passò oltre ed entrò nell’oreficeria Veremondi. Il titolare era dietro al bancone, indaffarato come sempre, e lo salutò con la consueta deferenza. Marzo notò che la foto incorniciata dell’uomo con Mussolini in occasione di una sua visita informale a Predappio era sparita. A pensarci bene, era sparito anche un tavolinetto sul quale l’uomo aveva ostentato alcune reliquie del Ventennio.

    Marzo si avvicinò. L’altro controllò di nuovo l’angolo vuoto e poi stiracchiò un sorriso.

    «Mi dica, maresciallo.»

    Marzo abbassò lo sguardo sulla vetrina trasparente proprio sopra al bancone. C’erano una serie di anelli di varie dimensioni incastonati sul velluto di due espositori, ma molte posizioni erano vuote.

    «Dove sono gli anelli mancanti?»

    Veremondi si morse appena il labbro. «Veramente sono tutti qui. C’è stata la guerra e non è stato facile lavorare… tuttora abbiamo difficoltà a reperire novità… i clienti scarseggiano…»

    Marzo lo guardava in silenzio. L’altro inghiottì qualcosa che non aveva. «Mi riferisco ai monili con le iscrizioni del Duce e a tutti quegli accessori lì.»

    L’uomo impallidì e subito dopo le gote gli si fecero rossastre. «Ma… veramente… ne avrò avuto qualcuno anni fa, ma mai…»

    «Vuole che chiuda il negozio e li cerchi da solo?»

    Veremondi sbatté gli occhi, ansimò. Piegò il capo e sforzò la bocca in una smorfia «È che non voglio problemi… ne abbiamo avuti abbastanza… prima c’era un mondo e ora è tutto il contrario, ma noi dobbiamo lavorare, come e più di prima.» Uscì dal bancone, andò alla porta e chiuse a chiave. Tornò indietro e s’infilò nel retrobottega. Marzo sentì i rumori metallici di chiavi che sbattevano fra di loro e del meccanismo di una serratura che ruotava. Il commerciante tornò con una scatola delle scarpe nelle mani. La teneva come un prete tiene la pisside dell’ostia.

    «Li ho dovuti mettere via, chissà come potevano trattarti l’anno scorso se te li trovava qualche esagitato.» Appoggiò la scatola e tolse il coperchio. C’era un piccolo telo di velluto rosso. Lo tolse mostrando così alla vista alcuni anelli per lo più in acciaio.

    Marzo lo guardò. Allungò la mano e avvicinò la scatola verso di lui. Prese gli anelli uno a uno e li esaminò nell’intento di confrontarli mentalmente con quello che la vittima aveva al dito, ma non era un compito facile. Oltre ad averlo osservato per pochi secondi non aveva fatto in tempo a mettere gli occhiali a causa dell’arrivo del delegato. Gli anelli avevano tutti uno o due fasci littori, e sopra, sotto, o in mezzo, campeggiavano una M o la sigla BM. Era un’iconografia troppo generica per poterne ricavare qualcosa senza avere l’altro oggetto.

    «Che cosa può dirmi?»

    «Sono oggetti che si vendevano bene. Regali di nozze, di cresima, di comunione, alle amanti, ai pensionamenti, alle lauree. In ogni occasione, al contrario di ora. Più la fattura è sopraffina, maggiore è… era la vicinanza del possessore con gerarchi importanti.»

    «È ovvio.» Marzo sorrise per un secondo.

    «Può darsi che tornino di moda, ma credo che dovrò attendere qualche decennio per venderli come oggetti d’antiquariato. Non recupererò nulla.»

    «Neanche da questi d’oro?» Marzo ne indicò alcuni a parte.

    «Questi erano più esclusivi.» Li guardò con rammarico. «Potrei fonderli e venderli a qualche dentista, forse, ma per ora non mi conviene.»

    «Ne ha venduti qui in zona?»

    «Certamente, sì. Posso dire di conoscere tutta la produzione. Ma sarà difficile che lei lo veda al dito di qualcuno.»

    Questo lo dici tu. Pensò Marzo.

    Qualcuno bussò alla porta ed entrambi si girarono. Spizzichino aveva le mani intorno al viso. Naso e labbra erano schiacciati sul vetro. Un alone appannato si rinnovava a ogni respiro. Sentirono la voce attutita. «Mi ha cercato signor maresciallo?»

    CAPITOLO 2

    Il maresciallo di prima classe Giovanni Marzo aveva preso servizio a Viserba da appena tre settimane. Nato nel 1897, aveva vissuto tutto l’ascesa di Mussolini, il Ventennio, fino al suo arresto, il 26 aprile del 1943. Il padre, Federico, era stato socialista e fascista della prima ora, ed era stato attivista e podestà nel Pontino. Persa prematuramente la madre, a diciannove anni, Marzo si era arruolato nei Carabinieri Reali. Lo avevano destinato nella Capitale e il 27 ottobre 1922 aveva assistito incredulo all’arrivo della massa eterogenea e indisciplinata degli squadristi. Mentre i quadrumviri De Bono, Balbo, Bianchi e De Vecchi sfilavano indisturbati nelle loro eterogenee uniformi alla testa di migliaia di irregolari, gli ufficiali a cavallo avevano trattenuto i militari schierati a tutela della popolazione, di Roma, del Re. O così gli avevano detto, anche se tutto sembrava una parata, e la gente più incuriosita che spaventata.

    C’era stato un episodio indimenticabile accaduto proprio in una torrida giornata dell’estate del 1924. Durante un servizio di vigilanza al Vittoriano, poco dopo le sette di mattina, Marzo aveva visto una ragazza molto giovane avvicinarsi circospetta ma al tempo stesso con naturalezza a Palazzo Venezia, la sede del governo della rivoluzione fascista voluta da Mussolini perché lui, inaccessibile al denaro ma consapevole del suo ruolo nella Storia, non sarebbe stato uno qualsiasi di passaggio a palazzo Chigi. Così Marzo, approfittando della momentanea assenza del capoposto, che si era nascosto per fumare, si era avvicinato incuriosito fin quasi ai gradini dell’ingresso. La ragazza esitò un momento sulla soglia, appoggiò una mano sull’anta semichiusa e, come se l’avesse sentito, si voltò verso di lui. Per un secondo i loro sguardi si catturarono. In quel momento, l’Alfa Romeo Zagato più famosa d’Italia arrivò improvvisa dalla vicina Villa Torlonia, placando il rombo del suo motore proprio davanti al ragazzo. Un’inconfondibile pelata ne scese. L’uomo calzò subito il berretto e alzò fiero la mascella volitiva. Per la prima e unica volta nella sua vita, Marzo vide Benito Mussolini a non più di due metri di distanza. Il Fondatore del Fasci di Combattimento sussurrò qualcosa a Quinto Navarra, gli ammiccò un sorriso e un pugnetto al mento. Marzo rivide ancora una volta il muto segretario, imperturbabile alle domande incalzanti del gerarca Roberto Farinacci, in attesa lì sotto, perché nessuno poteva salire prima di Lui, e chi lo voleva doveva essere già in attesa al momento del suo arrivo. Poi il Duce si girò verso Marzo, il piglio di nuovo severo, le labbra imbronciate e le sopracciglia strette. Quei due occhi neri e profondi lo scrutarono, come a leggergli dentro ogni sua pecca e intenzione. Il giovane Marzo, impietrito, non resse un secondo il presunto rimprovero dell’idolo d’Italia, e abbassò lo sguardo. Quando lo rialzò, il Duce era sparito nella penombra diffusa dell’androne per salire alla Sala del Mappamondo, pronto a intimorire i Capi di Stato e gli ambasciatori di tutto il pianeta, e ad addomesticare i più riottosi squadristi. Solo in quel momento Marzo si era accorto dell’appuntato Urbani, il collega anziano rimasto al suo posto che, con viso molto preoccupato, lo invitava ad ampie bracciate a tornare subito indietro. Mai più, l’aveva ripreso oscillando il lungo indice nodoso come l’asta di un metronomo. Se era mora e formosetta, hai appena visto Claretta Petacci, gli aveva detto poi il caposervizio mentre sfogliava il bollettino aggiornato dei dissidenti, ricercati e confinati. Ricapiterà, aveva ammiccato. Marzo l’aveva rivista, in effetti, ma solo in qualche foto di quotidiano. Quando furono rientrati, Marzo fu chiamato immediatamente a rapporto e redarguito pesantemente per l’abbandono del posto. Lui aveva sostenuto che si era allontanato non solo all’insaputa di Urbani, ma sfuggendogli contro la sua volontà, descrivendo così l’unico caso in cui l’altro non poteva essere coinvolto. Marzo aveva subito i proverbiali, inevitabili cinque giorni di consegna e il caso fu chiuso. Urbani fu destinato all’Archivio Centrale Operativo e ne fu anche contento, stanco di turni di notte e festivi. Soprattutto, gli fu grato per avergli risparmiato la sua parte di responsabilità perché, romano con moglie e figli, non avrebbe potuto permettersi di partire l’indomani per il valico di Tarvisio o l’Africa orientale.

    Nel frattempo, il padre Federico aveva cominciato a criticare l’ala estrema e lo squadrismo, dissociandosi sempre più spesso. Giovanni aveva assistito impotente alla parabola paterna. Più il padre si era incupito, tantopiù il figlio si era fatto taciturno, assimilando, dell’idealismo del padre, l’ansia di giustizia e il diffidare dai dogmi della propaganda. Ai suoi occhi, il papà non aveva fatto nulla di male, ma per la crema della società dove vivevano era diventato un esempio negativo. Gli stessi che li avevano accolti e adulati, con velocità maggiore li avevano emarginati quando l’onda si era impennata contraria. Federico era passato così dall’entusiasmo di una vita agiata fatta di sorrisi accoglienti e disponibili, a una casa più piccola, ai problemi quotidiani, al lunario da sbarcare. Non ci era voluto molto che il padre si fosse dimesso per accettare un posto come bidello alle scuole elementari. Ogni volta che era tornato a casa, Marzo aveva trovato un genitore piegato e incapace di accettare non le difficoltà pratiche ma il crollo di tutto quello in cui aveva creduto.

    Pochi anni dopo, Marzo fu promosso maresciallo e mandato in Sicilia, quindi in Etiopia. Quando il padre fu morto, lui fu spedito di nuovo a Roma all’indomani della liberazione della città, sguarnita dei suoi colleghi che erano stati deportati dai nazisti o si erano dati alla macchia per non esserlo e, infine a Viserba, dove avevano ricostituito il presidio con tre militari. Marzo aveva fatto un sorriso amaro quando aveva letto la nuova, e ultima, destinazione, perché l’aveva messa in lista tra le preferenze ben prima di andare in Etiopia.

    La questione in quel momento era sapere se Florenzi aveva già identificato la donna. Se così fosse stato, gli uomini del Commissariato avrebbero potuto condurre meglio le indagini con i loro mezzi superiori. Però Marzo non voleva andarglielo a chiedere, perché Florenzi, con l’ostilità che gli aveva dimostrato, sarebbe stato ancor più categorico nel rigettare l’intromissione e gli avrebbe così tolto ogni dubbio residuo sulla possibilità di agire autonomamente. In effetti, si disse, non capiva bene a fondo il motivo di quell’atteggiamento, se non riferito alla spiacevole battuta che il delegato aveva fatto. Nell’ottobre di tre anni prima, i nazisti avevano tentato di deportare tutti i carabinieri della capitale, ma almeno la metà aveva disobbedito all’ordine di rientro, che significava consegnarsi inermi, ed era riuscita a scappare. Forse anche Florenzi era a Roma in quel periodo, forse aveva partecipato anche lui a quell’azione; forse, nel suo retaggio fascista, gli era rimasto ancora qualcosa di cui rivalersi, per esempio una mancata progressione di carriera al Viminale, nel cuore del Governo, invece che in una Questura di periferia come quella di Rimini: e lo faceva così, quando gli capitava, manifestando il suo disprezzo verso quelli che se l’erano cavata in qualche modo, indirettamente aggiungendo la loro opera a quelle di tutti gli altri che avevano contribuito alla fine del regime. Marzo si accarezzò il viso rasato di prima di mattina, sul quale però avvertiva già una minima ricrescita. Il caldo e l’umidità rivierasca, pensò. Occorreva che fosse lui a occuparsi di quella donna.

    Scese la scala esterna e inforcò di nuovo la bicicletta. Turati e Spizzichino lo guardarono sorpresi con le mani che stringevano la ringhiera del balconcino all’ingresso. Prese per il lungomare verso Bellaria. Era un po’ più lunga, ma gli piaceva pedalare anche con il caldo, perché lì c’era sempre una brezza molto piacevole. Tempo qualche settimana e non sarebbe stato più possibile perché la calura di metà giornata sarebbe stata troppo forte anche per lui. Con andatura costante, passò tra qualche cantiere aperto e ristoratori coraggiosi che avevano rimesso in piedi l’attività. Sulla spiaggia spoglia alcune donne passeggiavano con l’ombrellino ben posizionato sopra la testa. Più avanti, quasi sul bagnasciuga, un signore anziano e distinto, accomodato su una sedia di legno e tela con dei grossi braccioli, allungava il collo per leggere il giornale. A causa dei colpi di vento, con la stessa mano aggiustava in continuazione uno sparuto e lungo ciuffo, e tentava di tenere la pagina stesa davanti a sé. Marzo rallentò e appoggiò la bici a uno dei due fasci littori laterali della Fontana della Conchiglia, si tolse il cappello e l’appoggiò sull’altro. Chissà quanto sarebbero durati ancora, pensò. Con le mani a scodella, bevve alcune grosse sorsate e riprese a pedalare. Dal cancello di uno dei diradati villini liberty, una signora con un grembiule si affacciò.

    «Signor maresciallo! Vuol favorire con noi?» Indicava il giardino interno.

    Marzo fece un cenno con la mano e un sorriso. La gente era cordiale e ospitale, e lo era stata anche durante la guerra nonostante tutte le difficoltà. Ora attendeva paziente la pacificazione definitiva con concretezza tutta romagnola, cioè lavorare, vivere, godersi i frutti della terra e del mare. Dal canto suo, Marzo aveva vissuto adagiato nei favori paterni la prima parte della sua vita, per poi trovarsi solo a inventare un’identità e una vita libera dalle convinzioni che avevano tanto deluso il genitore e lasciato conseguenze anche più gravi su di lui. Nessuna delle migliori scuole prospettate, nessun lavoro tra quelli promessi, nessun ingresso gratuito, nulla era più stato come prima dal momento che il padre era decaduto dal ruolo. Molti suoi colleghi erano rimasti al loro posto e avevano conservato i vantaggi nonostante la guerra e la sconfitta del fascismo. Mussolini incombeva come un’ombra allungata e ingigantita. La sua assenza in pubblico ne aumentava la percezione in maniera ancora più sinistra, per alcuni, e fatale per altri. Lui sarebbe tornato, avrebbe sistemato tutto, avrebbe scovato i nemici. Dovrebbero fucilarlo, mandarlo all’esilio, consegnarlo a Stalin. L’attesa indefinita di un processo presente solo nei titoli dei giornali e accuratamente evitato nei discorsi dei politici, il referendum incombente sul quale nessuno osava fare una minima previsione, tutto questo costringeva qualunque parte politica alla prudenza, all’estrema prudenza, alla paralisi. Marzo era uno dei tanti sopravvissuti al fascismo ma, di più, era sopravvissuto all’eredità paterna, disilluso come e più dei protagonisti non dalle cadute degli ideali ma dallo svelamento della grande ipocrisia. Nessuno regala, nessuno fa favori, nessuno sorride. C’era voluta la rivoluzione fascista per fargli perdere l’innocenza.

    Era arrivato sul lungomare degli stabilimenti collettivi dalle essenziali linee architettoniche, simbolo e propaganda del nuovo ordine del regime. Voci di bambini in festa e urla forti e solitarie degli istruttori giungevano dagli imponenti complessi delle Colonie Bolognese e, più in là, di quella Novarese, dove la gioventù vitale sarebbe divenuta orgoglio fascista. Lì sembrava che il tempo e la guerra non fossero passati, e le stagioni si susseguissero uguali. Ma bastava addentrarsi nell’entroterra per trovare macerie e relitti dell’ultima battaglia. Non avevano finito di aggiustare le strade secondarie, ma con la bicicletta era abbastanza agevole trovare scorciatoie grazie ai camminamenti spontanei delle persone. Fece altri due chilometri e si ritrovò alle spalle della tenuta Oliveto. Due grossi trattori rossi erano parcheggiati, un terzo era al lavoro sul campo più largo, al centro del quale c’era la fattoria. Marzo riconobbe Semprini, appoggiò la bici a una grossa quercia e attese che il mezzo terminasse il solco che stava tracciando. A quel punto, l’altro fermò il veicolo, scese e andò a controllare l’aratro. Estrasse una sbarra di ferro dal retro del sedile e cominciò a spingerla perpendicolare tra l’utensile e una ruota, con movimenti sicuri e precisi. Per un secondo, alzò lo sguardo verso Marzo. Quando Marzo ruotò le braccia per farsi notare, l’altro lasciò andare le sue lungo i fianchi, e la sbarra cadde a terra. Si calcò il cappello sulla testa. Fece due passi indietro, risalì sul trattore, poi scese svelto dall’altro lato e cominciò a correre a fatica sulle grosse zolle appena lavorate, con movimenti scomposti e faticosi, dando le spalle a Marzo. Il campo era delimitato da fossati laterali e grosse siepi e aveva un’unica via d’uscita dalla parte dove l’uomo si stava dirigendo, o così era intuibile. Marzo salì di nuovo sulla bicicletta, prese il sentierino laterale in terra battuta fino al fosso estremo. Lasciò la bici a terra, lo saltò con qualche difficoltà e girò l’angolo in fondo proprio nel momento in cui Semprini sbucava dal varco già con il fiatone. Questi, alla vista di Marzo, aumentò ancora l’andatura, ma era troppo stanco e rallentò fino a fermarsi poco dopo, all’ombra di un’altra grossa quercia. Si appoggiò con un braccio disteso al fusto e chinò la testa in avanti. Respirava a grosse boccate e l’aria sembrava non bastargli mai. Marzo arrivò senza troppa fretta. Prese una piccola borraccia dalla bolgetta a fianco. Sollevò appena la stoffa dei pantaloni all’altezza delle ginocchia, si piegò e attese che l’uomo rifiatasse. Svitò il tappo metallico e porse l’acqua all’uomo. Semprini scosse il capo e accennò un gesto con la mano. Marzo diede una sorsata.

    «Allora… Adelmo, giusto?»

    «Sissignore.» Ansimava ad occhi chiusi.

    «…Semprini…»

    «Semprini, sì, signor maresciallo.»

    «Allora, come devo chiamarla, va bene Adelmo?»

    «…Adelmo… sì, va… bene, signor maresciallo.»

    Marzo attese che il respiro di Semprini si facesse regolare. «Allora, perché scappava?»

    «…mi sono… ricordato di una cosa e…»

    Marzo si grattò la guancia con l’indice. «Dalla tenuta Oliveto al campo si arriva in dieci minuti al massimo. Anche passando a mettere il gasolio, ammesso che il trattore ne avesse bisogno, servono al massimo altri dieci minuti. Mettiamoci dieci minuti per tornare indietro, e sono generoso.» L’altro lo guardava mordendosi il labbro. «Credo che, andando a piedi, non ci metterei più di mezzora. Perché non ha chiamato subito?»

    Semprini ruotava la testa a destra e sinistra. «Ma… l’ho detto prima…»

    «Io credo che lei sia arrivato prima. Ma non capisco perché non me lo voglia dire. Se me l’avesse detto, magari non avrei avuto alcun sospetto e ora non saremmo neanche qui.»

    Nonostante l’ombra, Semprini cominciò di nuovo a sudare. «Non dovevo tornarci stamattina, ecco perché. Ieri ho perso tempo e mi mancava ancora da lavorare uno spicchio di campo quassù in cima.» Fece un cenno col capo alle sue spalle. Marzo vide che in effetti c’era un’ultima parte ancora a sodo.

    «È tornato a finire il lavoro, e allora? Cosa c’è che non va?»

    L’uomo strinse la bocca talmente forte che Marzo temette non avrebbe più respirato. «Ho visto un gruppetto di persone che parlavano a bordo del campo, e poi ho visto qualcosa a metà. A questo punto ho pensato che fosse un cane, e che fossero i padroni. Magari era un cane da caccia, o di compagnia di qualche signora.»

    «E non poteva essere?»

    «Erano signori distinti, con abiti scuri. Avevano visi molto preoccupati. Una volta ho visto degli squadristi girare così, quando cercavano qualcuno da bastonare, e ho pensato che sarebbe stato meglio stare alla larga. Ho girato alla stradina prima di arrivare fin dove erano loro, e dove sarei dovuto andare all’inizio. Ho pensato che sarei tornato più tardi o domani, a finire il lavoro.»

    Marzo si incupì. Erano almeno tre anni che da quelle parti non si sentiva più parlare delle azioni degli squadristi. Tutti sapevano che l’ordine non scritto, ed era tale perché nessuno avrebbe ammesso brutalità della sua parte, era di smettere la violenza, sia perché tutti ne erano stanchi e sia perché sarebbe stato deleterio per le elezioni, i cui seggi non era più possibile violare in alcun modo, tantomeno alla vecchia maniera.

    «E perché ha cambiato idea?»

    «Da lontano li ho visti allontanarsi in fretta su una macchina scura. Ho aspettato un po’ e sono tornato indietro a piedi passando dietro alla siepe. Quando ho visto che era una donna morta sono corso via. Ho aspettato un po’, non sapevo cosa fare.» L’uomo parlava con voce tremula. «Però mi hanno sempre insegnato a comportarmi bene, e non mi sembrava bene fare finta di nulla. Ho chiamato dalla fattoria, c’è un telefono con i numeri utili scritti grandi in un cartello lì sopra.»

    Marzo prese il suo blocchetto e controllò gli appunti. Turati riceve la telefonata alle nove circa, un uomo dice di aver trovato un cadavere. Dalle sei alle nove sono tre ore, il tempo di arrivare all’azienda, prendere il mezzo, andare giù, allungare per l’imprevisto, tornare a piedi, guardare, riflettere. Poteva anche essere. Chi erano quegli uomini? Se non erano gli assassini, perché non hanno chiesto aiuto? Forse hanno chiamato loro la Polizia? Forse sapevano che lì non sarebbe tornato nessuno perché il campo era già lavorato, e Semprini li ha sorpresi? Troppe domande alle quali era impossibile rispondere in quel momento.

    «Quanti erano quegli uomini?»

    «Direi due o tre, forse più, non ricordo.»

    «Li saprebbe riconoscere?»

    Ma l’uomo non lo ascoltava più. Aveva abbassato la testa, teneva gli occhi chiusi e aveva il respiro pesante, come a riprendersi da uno sforzo notevole. Il sudore trapelava sotto le ascelle con una gora che si era allargata a vista d’occhio, ben più dopo che l’uomo aveva iniziato a parlare.

    «Torni al suo lavoro, e non faccia parola con nessuno di quel che mi ha appena detto.» Disse Marzo. Ma l’altro era del tutto assorto e Marzo dovette ripetere ciò che aveva appena detto. Infine, Semprini annuì appena con un cenno della testa.

    Marzo risalì sulla bicicletta e tornò indietro per il viottolo in terra battuta che fiancheggiava il campo. Aveva omesso il rituale invito a presentarsi nel caso gli fossero venuti in mente altri particolari, Semprini era già abbastanza in apprensione. Se fosse stato necessario, sarebbe tornato a cercarlo.

    Mentre pedalava verso l’Anagrafe, Marzo considerava che non sarebbe stato agevole identificare la donna. Prima di tutto, se fosse stata un’ospite in villeggiatura, il primo ufficio ad essere informato sarebbe stato proprio quello della Pubblica Sicurezza. Anche se non è detto che fosse stato proprio Florenzi il responsabile, non era certo il caso di rischiare chiedendo. C’era la possibilità, neanche tanto piccola, che la donna fosse una qualunque, e che non fosse affatto nota a nessuno, perché non tutti i villeggianti dovevano rendere nota la loro presenza, o erano seguiti dall’Ovra a loro insaputa, almeno non più. Oh, sì, certi metodi, una volta instaurati, erano duri a morire. La consuetudine diventa legge se ogni tanto non si va a controllarla, anche quando non dovrebbe più esserlo. Nel periodo turbinoso di passaggio che stavano vivendo, fino alla fondazione della nuova repubblica o alla conferma della monarchia, nessuno stava più andando oltre ai suoi doveri, ma neanche al di sotto.

    Il registro anagrafico non era la più brillante delle idee, ma la donna aveva mani curate e bei vestiti. Sia che fosse della zona o che fosse in vacanza, non era una lavoratrice né a servizio di altri. Poi c’era l’anello che, per quanto diffuso fino a due o tre anni prima, indossato ora, denotava una vicinanza ad ambienti di potere, o meglio, alle anticamere di uomini che forse vivevano il momento attuale in penombra ma non per questo avevano perso tutta la loro influenza. Non aveva bagagli né denaro con sé, non poteva essere arrivata da troppo lontano per essere uccisa su un campo arato fuori mano.

    L’impiegato a capo chino sul grosso libro aperto davanti a sé alzò lo sguardo sopra agli occhialetti a mezzaluna calati fin sulla punta del naso. La mano sinistra era appoggiata aperta e l’altra teneva una penna rossa.

    «Buongiorno, comandante.»

    «Buongiorno a lei.» Disse Marzo, un po’ sorpreso. Quando a Roma gli capitava di entrare in un ufficio pubblico, nessuno si distraeva neanche per un secondo da quel che stava facendo, almeno finché Marzo non gli si rivolgeva in maniera inequivocabile. E poi quello era il suo primo incarico da comandante e non era abituato a sentirselo dire né a che gli altri lo sapessero. Ma era un paese, lui era arrivato da poco e la cosa era in fondo normale. «Vorrei sapere se avete un’anagrafe provvisoria, un registro dei villeggianti, qualcosa del genere.»

    L’uomo appoggiò la penna sul brogliaccio. «Veramente lo avevamo, ma è andato un po’ in disuso dopo l’otto settembre.» Alzò le sopracciglia. «C’è chi lo compila ancora, chi no. Non abbiamo più avuto richieste e piano piano abbiamo smesso di aggiornarlo.» Strinse le labbra. «C’è stato anche un bel macello durante i combattimenti l’anno scorso, e qui siamo andati a rilento. È mancato il personale e ci siamo dovuti arrangiare.» L’uomo andò in fondo al bancone di legno, alzò la ribaltina e uscì dal lato del pubblico. Si avvicinò a Marzo, si guardò intorno. «È per la donna morta ammazzata, è vero?»

    Marzo si sorprese di nuovo, poi continuò il ragionamento. Era un paese, si ripeté, tutti sanno tutto di tutti e le notizie volano. Non c’era ragione di irrigidirsi. «Eh, sì. Devo fare delle verifiche…»

    «Non se ne occupa la Pubblica Sicurezza? Il gerarca Florenzi, quello là?»

    «Sì, certo. Ma noi diamo una mano quando ce lo chiedono. Anzi, le devo raccomandare di essere riservato.»

    «Ah, sì, sì, certo. Il fatto è che lo conoscono tutti. Lui non ne parla più ma, fino a tre anni fa, si vantava del fatto di essere stato mandato qui su ordine del Duce. Lo diceva lui.» Parlava con occhi spalancati. «Io non volevo venire, diceva, ma Lui, indicava in alto, ha voluto mettermi qui affinché fossi i suoi occhi e le sue orecchie. Si guardava intorno a controllare che tutti avessero capito bene, come a sfidare eventuali repliche che non c’erano mai.» Fece un sorriso storto. «Ma ora se ne guarda bene.» Sollevò le sopracciglia. «L’hanno lasciato al suo posto, come tanti altri. Si vede che chiacchierava e basta.» Sollevò le spalle. «Così va il mondo.» Sospirò, guardando un punto indefinito a mezz’altezza, assorto in qualche pensiero con le braccia conserte, poi si riprese e andò a un grande scaffale di lato. Cercò con lo sguardo tra volumi di varie dimensione ammassati uno sull’altro, appoggiò la mano sul dorso del più alto e tirò con forza quello appena sotto. Controllò la copertina, tornò indietro, scansò la targhetta da tavolo con scritto Adelmo del Neri Caposervizio e appoggiò il registro sul bancone. Il titolo del volume era Registro villeggianti. Del Neri glielo aprì davanti e si allontanò.

    Marzo si avvicinò al bancone, infilò gli occhiali con la montatura di ferro, se li aggiustò sul naso con l’indice e si mise a leggere sul registro. Le grandi pagine erano divise in colonne con data di arrivo, cognome, nome e data di nascita. Nell’ultima a destra, una casella conteneva la firma del caposervizio che aveva fatto l’iscrizione. Scorrendo le date dalla più recente all’indietro, Marzo notò che da circa un anno c’erano state pochissime nuove registrazioni. Più procedeva e più numerose diventavano. Sembrava che i villeggianti non fossero più arrivati dopo l’otto settembre e probabilmente una diminuzione si era verificata, ma più che altro si intuiva che c’era stato un allentamento delle regole, come Del Neri stesso aveva accennato. Molti villeggianti comunicavano spontaneamente il loro arrivo, come richiesto. Per altri, al posto del visto di controllo, c’era riportata la dicitura su ordine dell’autorità di Pubblica Sicurezza. Marzo conosceva quella vecchia disposizione del Ministero dell’Interno perché anche a Roma era diffusa e abusatissima. L’Autorità informava che alla tal abitazione sarebbero arrivate, o erano già presenti, delle persone per le quali il Comune non avrebbe dovuto accertare l’iscrizione all’anagrafe per motivi di sicurezza nazionale. In teoria si sarebbe dovuto trattare di famiglie di politici troppo esposte agli oppositori, confinati, collaborazionisti in segregazione morbida, ma molto spesso, dietro l’anonimato, si nascondevano amanti o faccendieri dal passato recente troppo torbido per essere lasciati ancora in vista. In una paradossale franchigia, il regime sottraeva al controllo, che voleva ferreo, delle sue leggi, chi non voleva o non poteva, per opportunità politica, esserne sottoposto, proprio per la loro efficacia. Tra quelle registrate negli ultimi due anni c’erano sì delle donne, ma erano madri di famiglia o accompagnatrici, quindi domestiche. Se la vittima fosse stata una di queste, qualcuno l’avrebbe reclamata e non era ancora successo, non che lui sapesse. In molte altre c’era semplicemente la trascrizione Non verificare, accanto alla via e al numero civico. Forse la donna era tra queste. Marzo sfogliò ancora all’indietro il registro. Erano decine di pagine fitte di Non verificare e indirizzo. Chiuse il volume, e lesse il sottotitolo sulla copertina rigida. Dopo la stampigliatura "Al_____, una mano attenta aveva scritto 1938 apponendo un trattino subito dopo; altre, sempre meno precise avevano completato più volte il periodo di riferimento aggiungendo 1943, poi 1944, fino a 1946, tracciando una linea sopra l’anno appena precedente. Marzo andò a controllare lo scaffale da dove il caposervizio aveva estratto il volume. Ce n’erano in vista altri due altrettanto grandi per due quinquenni precedenti. Dietro se ne intravedeva un terzo identico con la data invecchiata ma non abbastanza perché Marzo non distinguesse 1923-1928". Se anche Del Neri non l’avesse detto, era evidente che la norma era caduta in disuso e, quasi sicuramente, almeno i dati più recenti non erano completi. Anche supponendo di spuntare qualcosa di utile da quei tomi, per avere certezze, sarebbe stato necessario andare a confrontarlo con gli archivi della Pubblica Sicurezza, ammesso che loro ne avessero decriptati il che, nei casi più delicati, non era affatto scontato. Inoltre, dovette considerare che quello di Viserba non era l’unico ufficio anagrafe, c’era quello principale e le altre delegazioni nelle altre frazioni, senza poi considerare che la donna poteva anche venire da uno dei comuni vicini o addirittura da più lontano, se chi l’aveva uccisa avesse voluto depistare le indagini. Fece un sospiro. Si grattò la testa e decise di andarsene e ritornare quando avrebbe avuto un’idea migliore su cosa e come ricercare. Poi ripensò alla donna, all’infinito terrore subito nella fuga disperata, a quella pelle delicata e poco più pallida di quando era in vita, a quella bellezza ormai inutile, eppure violata e disprezzata tanto da essere lasciata così, su un campo, come si fa con un cane morto e neanche con questo, quando ha un padrone. Forse Semprini aveva avuto un lapsus perché per lui non era strano trovare cani morti per i campi dove lavorava. E pensò a Florenzi, a come l’aveva schernito riferendosi alla macchia del 7 ottobre 1943, secondo lui, alla razzia, secondo Marzo, quando i carabinieri romani furono tutti deportati dai nazisti. Osservò Del Neri prendere un foglio a destra, timbrarlo e passarlo a sinistra, aggiungendolo a pile diverse che distingueva senza guardare con movimenti precisi e ininterrotti. E ripensò a un altro episodio.

    Durante la sua prima esperienza di stazione a Trastevere, aveva accompagnato il suo comandante, un maresciallo di lungo corso di nome Ettore La Picella, a sequestrare alcuni documenti a casa di un notabile, un certo Bramshill o qualcosa del genere. Facciamo una piccola perquisizione e poi agiamo, aveva detto il comandante. Marzo non sapeva neanche cosa fosse un sequestro, anche se aveva visto i fascisti entrare nelle case e uscirne trascinando fuori gli occupanti, portare via quel che volevano a bracciate e buttando all’aria dalle finestre ogni sorta di oggetti. Forse cercavano qualcosa, forse non l’avevano trovata, ma gli sembrava comunque più difficile riuscirci in quel modo. Si era chiesto anche il significato di piccola riferito a perquisizione, ma non aveva osato chiedere. La Picella aveva sistemato la cartellina che portava sempre con sé sottobraccio e aveva suonato il campanello. Un signore anziano era venuto alla porta. Il maresciallo gli aveva chiesto di mostrare quel certo documento che cercavano e l’uomo, era proprio Bramshill, aveva risposto che non l’aveva. Marzo aveva compreso dopo che questi era uno strozzino, e il documento un pagherò illegale vergato su carta comune. La Picella aveva chiesto strada e l’uomo aveva fatto entrare entrambi. Li aveva condotti fino allo studio. Quindi aveva detto a Marzo di cercare fra le carte lì, nello studio, e aveva ordinato a Bramshill di aprire anche la cassaforte. Questi aveva obbedito senza fiatare. Mentre il giovane Marzo aveva agito, La Picella aveva osservato Bramshill, il quale, a sua volta, aveva assistito imperturbabile. Quando il comandante aveva chiesto un bicchiere d’acqua, l’uomo non aveva perso neanche un secondo per andare a prenderlo e anzi, aveva offerto anche un caffè, tornando dopo dieci minuti con tanto di vassoio. La Picella aveva assaporato il caffè, appoggiato la tazzina e chiesto un altro bicchiere d’acqua, e l’uomo lo aveva servito, ancora senza colpo ferire. Poi La Picella gli aveva detto che avrebbero dato un’occhiata anche alla camera da letto, e lui aveva risposto che non c’era problema e che avrebbe atteso in soggiorno, perché aveva problemi di circolazione e si stava stancando. Quando era venuto il momento di andarsene a mani vuote, proprio sulla soglia di casa, dopo convenevoli, strette di mano e ringraziamenti, La Picella aveva chiesto di andare al bagno, e l’uomo aveva detto che era in disordine. La Picella aveva insistito, dicendo che non c’erano problemi, e che avrebbe fatto subito. Bramshill aveva ribadito che l’acqua non veniva, e il comandante aveva risposto che gli bastava lo specchio per sistemarsi il cappello prima di uscire. La Picella l’aveva guardato fisso mentre l’altro era diventato sempre più bianco, fino a prendere a sudare. A quel punto, La Picella era partito spedito verso il gabinetto, mentre Bramshill l’aveva seguito a meno di un’incollatura con uno scatto improvviso e vitale. Il bagno era minuscolo e disadorno. La Picella aveva ruotato la testa dalla porta in ogni direzione, si era girato di scatto, aveva osservato lo sguardo di Bramshill, poi era entrato. Aveva infilato la mano nello sciacquone, l’unico posto dove era possibile cercare qualcosa. Aveva frugato un po’ dentro, come un bambino che tenta di prendere un pesce rosso, e tirato fuori infine una busta sigillata. Qui avevano trovato il pagherò, insieme a diversi altri e a molto denaro in contanti, dal quale l’uomo aveva fatto molta fatica a separarsi, quasi fosse un distacco fisico. Così, avevano fatto il famoso sequestro. Devi cercare dove pensi che non ci sia nulla, perché non puoi pretendere che ti lascino le prove sul tavolo, gli disse La Picella al ritorno. Avevano camminato per dieci minuti prima di rientrare. In ufficio, il comandante aveva riposto la busta in cassaforte e aveva chiosato ancora. Con gli strozzini è più facile, si sentono male quando ti avvicini al denaro. Così Marzo aveva imparato a trovare quello che si cerca.

    Marzo si voltò di nuovo verso lo scaffale. Tirò con forza i due volumi davanti, li appoggiò a fianco e poi estrasse anche

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