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Le sezioni mancanti
Le sezioni mancanti
Le sezioni mancanti
E-book243 pagine3 ore

Le sezioni mancanti

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Info su questo ebook

Nonostante l'esito chiaro del referendum, a metà giugno del 1946, l'Italia non è ancora una Repubblica e sull'orlo di una guerra civile. Con Benito Mussolini prigioniero degli Alleati nel carcere militare di Peschiera del Garda e il Re insofferente allo spoglio, i vincitori in pectore temono di perdere il vantaggio sancito. Il maresciallo Giovanni Marzo è ancora sofferente e non può tornare con Claudia per non esporla di nuovo a pericoli mortali. Quando il custode del cimitero trova altri due corpi trucidati davanti alla porta dell'obitorio, uno dei quali è del suo vecchio aguzzino, Marzo pensa che si tratti della feroce epurazione post-bellica. Ma non crede ai suoi occhi nel vedere l'altro, e inizia frastornato l'indagine attraverso i percorsi ancora sotterranei e sanguinosi dei resistenti, per i quali l'assassinio è solo il particolare necessario per un incredibile disegno.

LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2022
ISBN9781005352356
Le sezioni mancanti

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    Le sezioni mancanti - Francesco Zampa

    CAPITOLO 1

    Il segretario particolare Massimo Caprara sporse leggermente la testa fuori dal portone. Alzò lo sguardo corrucciato verso il cielo. Era coperto, ma non sembrava minacciasse pioggia. L’umidità appiccicava il colletto della camicia. Ci infilò due dita e le passò da entrambe le parti. Era il 10 giugno, la guerra era finita da un anno, e poco importava se la bella stagione mostrava ancora qualche mal di pancia. Un paio di auto scure con la targa del Ministero della Giustizia erano in sosta, ma gli autisti non si vedevano. Molte erano le cose da riorganizzare, pensò. Si concentrò. Il Ministro Palmiro Togliatti gli aveva consegnato la lettera con un’occhiata severa. Mi raccomando. Aveva capito perfettamente. Teneva la busta stretta con la mano infilata nella tasca. Per sicurezza, la allargò appena e sbirciò di nuovo il destinatario. L’inchiostro verde era poco leggibile in penombra ma lo conosceva a memoria per averlo letto e riletto non appena uscito dall’ufficio del ministro. Al presidente della Suprema Corte di Cassazione Giuseppe Pagano. Si scosse, non c’era tempo da perdere. Aveva poco meno di venticinque anni, a piedi da Palazzo Piacentini a Montecitorio avrebbe impiegato meno di dieci minuti. Controllò l’ora, aveva un buon margine. Attraversò la strada a grandi falcate. Mentre percorreva a passo veloce via di Torre Argentina, si chiese più volte che cosa poteva aver scritto il Guardasigilli di così importante e urgente da doverlo recapitare subito, proprio mentre tutto era pronto per l’annuncio che l’Italia attendeva. Un sospetto l’aveva adombrato ma, per quanta immaginazione e mestiere potesse aver avuto, Caprara non poteva sapere che le poche parole nel riservatissimo foglio avrebbero potuto incendiare la paglia secca della guerra civile. Allungò il passo, e presto sbucò in piazza del Parlamento. Passò di lato per evitare i cittadini comuni che la affollavano emozionati da ore. Prima dell’ingresso, schivò gruppetti di giornalisti nel timore che qualcuno potesse riconoscerlo. Alzò le braccia con la lettera in una mano e il documento di membro del Governo nell’altra. Anche gli uscieri si scansarono ed entrò.

    Varcò la soglia dell’affollata Sala della Lupa. Magistrati, governo, giornalisti, soli o riuniti a gruppetti ciascuno attorno al proprio mentore o a un estemporaneo compagno, controllavano gli orologi al polso, i più giovani, o al panciotto, i più anziani, pronunciando scarne parole per le quali non attendevano conferma, gettando sguardi continui dall’ingresso alla testata occupata dai relatori come se, da un momento all’altro, attendessero una scontata irruzione di squadristi o di notizie improvvise e per questo nefaste. Non arrivando l’una né le altre, accumulavano nervosismo e impazienza in attesa che Pagano prendesse finalmente la parola.

    Ma il giudice supremo attendeva le diciotto, come aveva preannunciato, seduto al centro del tavolo orizzontale, avvolto in una calma olimpica, non concedendo neanche la minima espressione alla folla inquieta. Il momento era solenne e qualsiasi gesto avrebbe potuto dare spazio a congetture e illazioni delle quali non c’era affatto bisogno. Scambiava brevi parole e occhiate con il procuratore generale Pilotti e, di volta in volta, con qualcuno tra giudici, consiglieri e presidenti di sezione.

    Caprara si fece largo a fatica tra i presenti. Solo il presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, Alcide De Gasperi, notò il faticoso impegno di Caprara nel giungere a Pagano proprio un minuto prima che questi stesse per prendere la parola. De Gasperi si allarmò e chiese a qualcuno tra i più vicini dei suoi, troppo presi dai timori per accorgersi che quello che scongiuravano stava accadendo proprio davanti a loro. Ma l’austero segretario della Democrazia Cristiana si concentrò a tal punto che, uno dopo l’altro, gran parte dei presenti lo imitò.

    Caprara si avvicinò a Pagano e gli sussurrò qualcosa a un orecchio mentre gli consegnava la busta vergata da Togliatti.

    Pagano la prese, la guardò. Riconobbe prima il tipico colore dell’inchiostro e poi la calligrafia. Accennò un sorriso brevissimo a Caprara e questi si allontanò subito, ormai privo di qualsiasi interesse per tutti i presenti. Pagano la aprì, estrasse il foglio e lesse con attenzione. Dal movimento degli occhi si capì che la rilesse subito un’altra volta, e poi una terza. La ripose e la infilò nella sua agenda appoggiata su un mazzetto di altri fogli, quindi contrasse lo sguardo avanti a sé in un momento di profonda concentrazione. Dopo un paio di minuti riprese la lettera, la guardò e la poggiò a lato, quindi si alzò in piedi. Si aggiustò la toga e disse qualche parola introduttiva di circostanza con un filo di voce. Prese un sorso d’acqua dal bicchiere davanti a lui. Il brusio nella sala calò in pochi istanti e divenne presto silenzio glaciale. Pagano scansò i fogli davanti a lui e scelse con cura quello che aveva preparato fin dalla mattina. Si girò appena di lato. I due ragionieri Ciccarelli e Fracassi erano pronti alle somme, il primo per la Repubblica e l’altro per la Monarchia. E così, Pagano iniziò.

    Tutte le orecchie si tesero a captare la flebile voce del Presidente nel momento solenne e storico in cui pronunciò le due fatidiche cifre. Solo quello interessava, il resto era tutto contorno.

    «…dodicimila…» Ciccarelli tossì. Non poté fare a meno di alzare l’indice verso il foglietto, allargando a dismisura le orbite. Pagano mise a fuoco e schiarì la voce. «…dodici milioni, centottantaduemila e ottocentocinquantacinque per la Repubblica.» Si toccò gli occhialetti, piegò appena la testa all’indietro e mise di nuovo a fuoco. «…dieci milioni…» Il brusio si alzò di nuovo, e per metà parve di sollievo, e per l’altra di rammarico.

    «Silenzio! Silenzio per favore.» I commessi paonazzi in volto e stretti nella marsina, si adoperarono severi per far calmare i presenti. Ma l’eccitazione di una parte e la delusione nell’altra erano già diffusi.

    Pagano continuò. «…dieci milioni, trecentosessantaduemila e settecentonove per la Monarchia.»

    Urla si levarono dal fondo dell’aula. I giornalisti corsero a cercare un telefono libero infilandosi nelle aule deserte. De Gasperi, sudato, stringeva a caso alcune mani protese tra una selva di altre. Alcuni altri si appartarono confabulando e tentando di nascondere sguardi rammaricati e rancorosi.

    Pagano riprese non appena il rumore lo consentì, pronunciando, o omettendo di farlo, la cosa forse più importante, che ai più sfuggì per il frastuono ma che fu ben evidenziata nelle occhiute analisi che subito iniziarono. «…la Corte emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, proteste, reclami presentati agli uffici delle singole sezioni… integrerà il risultato con i dati delle sezioni mancanti, e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti, dei voti nulli e dei voti attribuiti.»

    De Gasperi colse subito, e prima degli altri, la sfumatura, forse perché preparato a che qualche imprevisto ci dovesse per forza essere. Impallidì e contrasse il viso per l’evidente disappunto.

    Il Ministro dell’Interno Giuseppe Romita smise di sorridere e gli si avvicinò. «Cosa c’è, presidente?»

    De Gasperi scosse la testa. «Non l’ha detto.»

    «Che cosa? Ha detto i voti, sono quasi due milioni in più, cosa c’è da contestare…»

    «…Pilotti…» De Gasperi si stringeva le tempie con gli occhi chiusi. La tensione dei giorni precedenti si era accumulata ed era sempre più difficile smaltirla. In realtà, erano stati anni di cambiamenti epocali che poco o nulla avevano concesso al riposo o alla rilassatezza. «…Pilotti avrebbe dovuto fare la proclamazione. Invece non l’ha fatta. Non ha proclamato la Repubblica.»

    «…ma la Monarchia è battuta, due milioni di italiani…» Disse Romita.

    De Gasperi riaprì gli occhi. «Non è battuta.» Disse. Serrò la bocca, ma non riuscì a trattenere che per pochi secondi le parole. «Non siamo più una monarchia, ma non siamo ancora una repubblica.»

    Sul volto di Romita apparve la stessa espressione attonita del Presidente del Consiglio. Con uno scatto, De Gasperi uscì dalla Sala della Lupa, seguito subito dai ministri. Romita superò il momento di inebetimento e si accodò un po’ più indietro degli altri.

    Un commesso era in attesa sul ballatoio in piedi, accanto a un tavolo sul quale erano appoggiati due tricolori, uno con il vessillo della Monarchia mentre l’altro ne era privo. Sul davanzale della grande finestra aperta, la corda per il pennone era pronta per agganciare e gonfiare all’aria, finalmente, il vessillo eletto dal referendum, sulla folla in attesa fuori. L’uomo vide i ministri sfilare frettolosi uno dopo l’altro verso le scale.

    «Quale devo stendere?» Chiese titubante all’ultimo del manipolo.

    Romita lo guardò perplesso. «Non lo sappiamo.» Disse.

    CAPITOLO 2

    I medici gli avevano ripetuto a lungo che era guarito, che poteva lasciare l’ospedale. La ferita era ormai rimarginata e sarebbe bastata un po’ di prudenza, ma era necessario riprendere a vivere. Basta nascondersi dalla vita, gli aveva detto infine Claudia, io sono andata avanti, ho trovato altre cose, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, non puoi essere così egoista. Poi Benedetta gli aveva parlato, la lacrima calda delle sue parole aveva intaccato il blocco di ghiaccio che lo pietrificava, e l’aveva costretto a muoversi.

    Era uscito, aveva ripreso il suo posto a Viserba, protetto dalla fiducia di Del Greco. Spizzichino non c’era già più, trasferito da qualche parte in Friuli, e la Forza presente era costituita solo lui e Turati. Era impossibile rimpiazzare qualcuno in quel momento. In ufficio, si era guardato intorno come fa qualcuno che non sa dove si trova, né qual è il suo compito lì. Il mare, aveva voluto cercare la sua quiete nel mare, e invece aveva trovato un delitto, e la colpa scansata del passato era riemersa ingigantita. Si era chiesto se non fosse stato egoista come gli aveva detto Claudia, ma come si fa a non pensare a sé, anche quando si pensa agli altri? Avrebbe dovuto lasciarsi andare, e invece l’aveva evitata. Non c’era stata pace, non c’era mai stata in realtà, se non per un breve attimo. Non è questa la vita, un attimo di felicità su cui basare il resto degli anni? Quante volte l’aveva sentito dire, e quanti non avevano avuto neanche quell’attimo di tregua? Se fosse stato a causa sua o del destino, non l’aveva ancora intuito. Però aveva dovuto rinviare l’eventuale risposta, quando Turati aveva spalancato la porta con una spinta e, con voce tremolante, gli aveva detto. Un altro cadavere, signor maresciallo, anzi due.

    All’inizio Marzo non aveva compreso, ma come avrebbe potuto?, il motivo per cui il ragazzo aveva scandito il numero dei cadaveri. Però il dubbio inquieto che non fosse casuale gli era rimasto dentro. Forse non erano insieme? Forse ne aveva avuta notizia una dopo l’altra? Ma Turati era sceso subito alla rimessa delle bici, e Marzo non aveva potuto chiedergli altro. Distratto dalla fatica e dall’indolenzimento della ferita, Marzo ne aveva scrutato il volto attonito, nonostante gli fosse sembrato che lui si mantenesse sempre dieci metri avanti, accelerando, quando fosse occorso per stare alla larga, per tutti i quindici minuti necessari ad arrivare a pedali al piazzale dell’obitorio. Turati non si era mai girato verso di lui né aveva più detto una parola, inebetito o atterrito, avrebbe detto meglio Marzo, fino a rimanere in disparte non appena giunti.

    Marzo aveva appoggiato la bici al primo albero, subito dopo quella di Turati. Questi gli aveva di nuovo camminato avanti di un paio di metri, e ogni tanto si era girato a verificare che lui lo stesse ancora seguendo. Avevano ritrovato i corpi ai bordi del piazzale imbrecciato, solo uno coperto da un lenzuolo bianco. Del Greco l’aveva guardato con espressione contrita, si era tolto la pipa dalla bocca e gli si era fatto incontro tra due dei suoi, appena aprendo la mano in fuori, con la premura con cui si accoglie un ospite atteso e di riguardo. Marzo aveva gettato l’occhio, e aveva visto il cadavere più vicino, un uomo di piccola statura in una posizione contorta, le gambe innaturalmente incrociate, un braccio piegato all’indietro, l’altro sotto il petto, il volto deturpato da una vistosa macchia di sangue rappreso. Aveva visto l’occhio sbarrato sotto la palpebra bloccata a metà, la bocca aperta, la vanità del vivere nella spietata rigidità della morte. Nonostante tutto, aveva riconosciuto il delegato Florenzi. Poi Marzo si era rivolto all’altro corpo, sotto un lenzuolo disteso, con l’insistente rovello sull’annuncio di Turati sempre presente. Una sagoma minuta. Ci avrebbe parlato più tardi, forse. Del Greco l’aveva preso per un braccio, Marzo si era girato per un secondo, e poi la sua attenzione era stata catturata da Turati piegato sulle gambe con in mano un angolo sollevato del drappo bianco. Del Greco aveva accennato, e il ragazzo aveva tirato in su alzandosi. Marzo aveva sentito una fitta al petto o al rene ferito, non aveva compreso bene neanche dopo dove era passata, quando faceva mente locale e il ricordo di quel dolore gli ritornava identico all’originale. La ragazza aveva il volto ingiuriato di lividi fino a sfigurarla, colpita più volte come nel peggior giudizio biblico. Il vestito a roselline e i capelli neri erano dappertutto macchiati di sangue. È Claudia, aveva sentito come un sussurro, e poi non si era ricordato se qualcuno l’avesse detto o fosse stato lui a immaginarlo. Marzo aveva sentito il capo vorticare per qualche secondo e le gambe tremare come non aveva mai provato. Aveva cercato l’appoggio del capitano vicino a lui muovendo un braccio per aria. Dunque è così che si sente chi sta per svenire, gli era venuto in mente. Turati aveva lasciato cadere il lenzuolo ed era accorso. Del Greco l’aveva trattenuto, sostenuto da un lato e aveva mosso la mano. Non è necessario che la riconosca, aveva detto. Insieme l’avevano accompagnato fino all’auto dell’ufficiale ed erano tornati indietro. Marzo aveva provato ad aprire lo sportello mentre si stavano allontanando, ma i muscoli erano stati privi di forza. Si era girato solo per vedere dal lunotto gli addetti che caricavano i corpi sulle barelle.

    Erano rientrati a Villa Gubellini. Marzo si era seduto silenzioso nella sua poltroncina, lo sguardo fisso avanti a sé. Del Greco aveva estratto dal taschino la sua pipa in radica rossa e l’aveva appoggiata sulla scrivania, poi aveva preparato con cura il tabacco estraendolo da un sacchettino di stoffa nera. Infine l’aveva accesa e aveva aspirato, aveva controllato la combustione, e aveva di nuovo aspirato, assaporando infine ampie boccate.

    «Sono desolato.» Strinse le labbra e annuì in un’espressione di impotenza. «Profondamente desolato. È…» Tossì. «…era una cara ragazza e ho potuto conoscerla bene nel periodo in cui lei era ricoverato.» Disse il capitano. Marzo non distolse la sua fissità. «Li ha trovati il custode del cimitero, questa mattina e, nel dubbio, ha avvisato sia voi che noi alla Destra del Porto, invece che venire al comando qui a Viserba. Sono potuto intervenire personalmente.» Alzò le sopracciglia. «Il Questore di Forlì mi ha chiamato. Non ci sarà nessuna interferenza. Ovviamente agiranno per conto loro, è logico, ma credo si limitino a un’indagine interna per verificare le infedeltà.»

    Marzo si massaggiò le tempie mentre respirava profondamente, gli occhi chiusi e la testa appena piegata in avanti.

    «Che cosa sappiamo?» Disse in un filo di voce.

    «Florenzi era sotto inchiesta per l’omicidio di Violetta della Collina e molte altre questioni. L’inchiesta va avanti a fatica. Il giudice istruttore deve andarci con la massima sicurezza perché il delegato gode… godeva, scusi, di altissime protezioni.» Controllò la pipa. «Diciamo che non sono state sufficienti, oppure era il caso di toglierlo di mezzo perché divenuto troppo scomodo per tutti. Il custode del cimitero è uscito questa mattina molto presto per la campagna e i corpi non c’erano. È stato lì intorno, andava alla lepre, ha detto. Quando è tornato li ha visti a bordo del greppo, così come li abbiamo trovati noi.»

    «Non ha sentito nulla?»

    «Forse il rombo di un motore, ma non ha saputo dire altro.»

    «È una zona di campagna, se si sente un’auto passare, ci si fa caso subito...»

    «So cosa sta pensando.»

    «Cos’altro le viene in mente? La bastonatura a morte e l’abbandono del cadavere all’obitorio sono firme inequivocabili.»

    «Non abbiamo avuto così tanti casi, non in questa zona.»

    «Dovremmo forse rivedere con maggiore attenzione ogni caso di scomparsa nella zona per poterlo affermare appieno.» Marzo si appoggiò sulla scrivania con i gomiti e si massaggiò a fondo la faccia.

    Del Greco si alzò. «Mi guardi, maresciallo.» Marzo alzò la testa. «Non c’è altro, al momento. Ce ne stiamo occupando, non mi sembra il caso che lei…»

    «Non ho altro da fare, e forse è la maniera migliore per proseguire la mia convalescenza.»

    Del Greco lo guardò. «Ne è sicuro? Forse la cosa è troppo personale e non vorrei che…»

    «È personale per me quanto lo è per lei.»

    Il capitano sospirò. «Sta bene.» Calzò il berretto. Sulla soglia si fermò. «Un’ultima cosa. I parenti hanno chiesto il funerale in forma privata.» Marzo serrò mascella e sopracciglia. «Non vogliono vedere nessuno intorno. Sono arrabbiati, anche con noi.» Uscì.

    Marzo si rigirò nella sua sedia e poi andò alla finestra, continuando a massaggiarsi le tempie. Un insistente senso di nausea lo prese dal fondo dello stomaco. Era vero che non fosse il caso di occuparsene, e che fosse troppo coinvolto. Claudia gli aveva dato un momento di serenità e lui non si era lasciato andare per il timore di causare del male anche a lei, come era convinto fosse stato con Violetta. Appoggiò la faccia sulle mani, la massaggiò con le dita. O forse non era stato il caso prima, e ormai non l’avrebbe più saputo. Ma come faceva a lasciar perdere?

    «Turati.»

    Il ragazzo si affacciò un po’ trafelato. «Ho portato le due bici, signor maresciallo, sono appena arrivato.» Posò una piccola busta di carta sopra lo scaffale dei codici. «Ci sono gli effetti personali del delegato, non li ha chiesti ancora nessuno. Credo che vivesse solo. Dica pure, signor maresciallo.»

    «Abbiamo segnalazione di persone scomparse negli ultimi dieci mesi?»

    «In realtà ce ne sono molte, signor maresciallo. il fatto è che non sappiamo se siano dovute ai bombardamenti, a fughe, ad arresti. E sicuramente ne mancano tantissime, perché non tutti si sono affrettati a denunciare chi manca da casa loro. Molti semplicemente aspettano, o sono disillusi sul fatto che possano ritornare.»

    Marzo rifletté. La Picella era stato sempre molto chiaro. Questo è un lavoro difficile, diceva, se vuoi farlo bene non devi esporti. Oh, sì, devi agire, ci mancherebbe, non dimenticare che ti pagano per questo. Ma non devi mai farlo per motivi personali, fosse solo per desiderio di affermazione o peggio per far carriera. Finché fai quello che devi, e solo quello, e sei rispettoso di tutti, anche il peggior delinquente se ne accorgerà e non avrà nulla a che dire sul tuo operato.

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