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Il confine conteso
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E-book243 pagine3 ore

Il confine conteso

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Info su questo ebook

Al volgere del 1946, in attesa del giudizio della Corte Internazionale a Benito Mussolini, l’appena nata Repubblica Italiana soffre il sanguinario irredentismo bilaterale al confine con la Jugoslavia. Quando il giovane carabiniere Spizzichino viene trovato ucciso sull’avamposto nelle Alpi Giulie dove era appena stato trasferito con la gravissima accusa di tradimento, tutti si sentono responsabili. È stata una rappresaglia dei partigiani rossi, sentenziano le autorità locali, e l’indagine è già archiviata.
Ma il maresciallo Marzo affonda nel senso di colpa e per sapere chi l’ha ammazzato dovrà penetrare gli infidi miasmi della guerriglia sul confine conteso.
Un giallo costruito sullo sfondo dell’aspra e impari lotta che l’Italia battuta combatté a Parigi con gli Alleati, e di quella ancor più spietata tra le diverse fazioni sul confine istriano, per mantenere il fazzoletto di terra più conteso del mondo.
Dello stesso autore:
nella serie "I Racconti della Riviera":
#1: Doppio omicidio per il Maresciallo Maggio (Italiano, English, Français, Español)
#2: C'è sempre un motivo, Maresciallo Maggio! (prequel) (Italian, English, Español)
#3: Gioco pericoloso, Maresciallo Maggio!
#4: Affari sporchi, Maresciallo Maggio
#5: L'eroe
#6: I corrotti
#7: Comunque colpevole
#8: Difesa illegittima
#9: La vendetta di Hamed
#10: Il tratto finale

nella serie "Trilogia del Ventennio - maresciallo Giovanni Marzo":
#1: Per libere elezioni
#2: Le sezioni mancanti
#3: Il confine conteso

La scelta (romanzo storico)
Qualcuno che ti protegga (romanzo di formazione)
Calciopoli ovvero l'elogio dell'Inconsistenza (graphic-novel)
Di qui a qualche anno (romanzo distopico)
L’assassino invisibile e altri racconti (raccolta)

LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2023
ISBN9798215816134
Il confine conteso

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    Anteprima del libro

    Il confine conteso - Francesco Zampa

    CAPITOLO 1

    No, gli aveva risposto al telefono Bellucci, il segretario del capitano Del Greco, quando Marzo gli aveva detto che avrebbe mandato Turati a ritirare il plico urgente, vieni tu. Il tono era insolitamente sopra le righe, e perentorio, come se a parlare fosse il comandante stesso, e quando un collega maresciallo arrivava a usurparne inconsciamente la statura, la questione era proprio urgente. Ma altre volte Marzo aveva ascoltato gravi convocazioni per motivi che non lo erano affatto, non per lui o per il popolo almeno, quali la visita di un generale romano o di un gerarca che desiderava essere accompagnato a uno stabilimento balneare. Per cui aveva infilato la giacca, aveva salutato Turati, il piantone sull’attenti nel piccolo ingresso, ed era sceso alla rimessa delle bici. Non ricordava mai se a lui fosse stata assegnata la più nuova o la più funzionante. Ne aveva inforcata una a caso e si era avviato sul lungomare a sud. L’aria frizzantina di fine estate sollecitava la pedalata. Molte delle case padronali erano già chiuse, e gli ultimi domestici si affrettavano alle pulizie prima di tornare in città.

    Non era ancora salito sul ponte che calava proprio davanti alla caserma centrale alla Destra del Porto, quando vide in lontananza Bellucci sbracciare alla finestra verso di lui. Marzo accelerò, sopportò il fiatone per i cento metri che ancora mancavano e si infilò nel cortile interno approfittando della sbarra già alta. Lasciò la bici e salì dalla scala interna. Passò davanti all’ufficio di Del Greco, intravide la scrivania vuota ed entrò in quello di Bellucci.

    Questi lo guardò serio, si aggiustò gli occhialetti sul naso e fece il giro dall’altra parte del tavolo pieno di pratiche sospese, schivando mucchi di faldoni ingialliti con il timbro tondo dello Stato ancora in mano. Lo appoggiò sul tampone umido d’inchiostro. Fece una smorfia, si grattò la nuca, si lisciò il mento. Individuò una lettera davanti a lui e sospirò. La rilesse come chi l’aveva già fatto per l’ennesima volta, la girò e la spinse leggermente verso Marzo.

    Il comandante della Stazione di Viserba notò che l’altro aveva abbassato gli occhi un attimo prima di lui. Marzo estrasse gli occhialetti dal taschino e li aprì. «Cos’è?»

    «Fai prima a leggere.» Bellucci si appoggiò all’angolo della scrivania con le braccia conserte.

    Marzo si aggiustò le lenti sul naso. Indugiò ancora per un paio di secondi sullo sguardo dell’altro, mentre una vocina in fondo lo infastidiva. Sollevò il foglio. Mise a fuoco. Era un classico fonogramma:

    DA STAZIONE CARABINIERI TARVISIO

    A STAZIONE VISERBA

    N. 46/52-4 DI PROTOCOLLO 30/9/1946 PUNTO

    PREGO RINTRACCIARE EVENTUALI FAMILIARI CARABINIERE SPIZZICHINO RAFFAELE PER CONSEGNA EFFETTI PERSONALI SPEDITI CON CORRIERE ALT

    ASSICURARE ALT

    FINE COMANDANTE SUPPLENTE BRIGADIERE SMOJE

    Marzo aveva letto troppi messaggi di militari che non sarebbero più rientrati dal fronte per non riconoscere immediatamente di cosa si trattasse. Anche a lui era toccato compilarli più volte. Prego, effetti personali. Nonostante il linguaggio burocratico, compassione e solidarietà per i vivi coinvolti, trapelavano tra le righe. Dunque Spizzichino non ce l’aveva fatta ed era andato ad allungare la lista delle vittime della follia appena conclusa. Marzo lesse un’altra volta e ripose il messaggio sul tavolino.

    «Cos’è successo?»

    Bellucci allargò le braccia e scosse il capo. «L’hanno trovato morto. Non so altro. Mi hanno solo avvisato che avrebbero mandato le sue cose qui perché lassù lui non aveva nessun parente.» Abbassò il capo. «Non sapevano a chi altro rivolgersi. Era solo.»

    Bellucci gli nascose di nuovo lo sguardo, e Marzo questa volta ne fu certo. Bellucci non l’avrebbe mai ammesso né Marzo gliel’avrebbe chiesto, ma entrambi sentirono lo stesso senso di colpa. Era stato Marzo a far sì che Spizzichino fosse stato trasferito dopo la vicenda dell’omicidio di Violetta. Spizzichino gli aveva rivelato piangendo cosa l’avevano costretto a fare, davanti alla Beretta 34 spianata di Marzo, in una notte buia come la pece. In quei convulsi momenti, Marzo aveva capito e si era trattenuto dallo sparare. Durante la sofferta convalescenza, la paura che l’altro potesse tramare ancora contro Claudia gli aveva fatto perdere lucidità. Non voleva essere responsabile di un’altra tragedia personale. Aveva così convinto Del Greco delle pesanti responsabilità del giovane militare e a prendere di conseguenza i più gravi provvedimenti nei suoi confronti. Del Greco aveva istruito una pratica urgentissima di rimozione del grado e di trasferimento per le isole. Ma troppe erano le carenze di personale, e l’avevano assegnato nel nord-est, nel confine conteso e dilaniato dalla guerriglia silenziosa con i partigiani di Tito, in attesa del provvedimento definitivo. Liberatosi dalla paranoia, Marzo aveva più volte pensato a quella notte. Spizzichino aveva agito sotto ricatto nella debolissima ma unica speranza di riabbracciare i suoi genitori vivi e vegeti, le cui esistenze erano state cancellate in tre secondi come quelle di tanti altri ebrei. Un reietto senza scelta, che si illudeva che la Grande Tempesta non avesse travolto anche le fragili vite dei suoi. Una vittima giovane, giovanissima, e magari si era convinto che non ci fosse stato nulla di casuale ma che anzi lui fosse arrivato fin lì proprio per salvarli come, nelle loro ataviche e assurde convinzioni, un rabbino doveva avergli insegnato prima che compisse tredici anni. Non c’era nessuna prova a suo carico, se non una confessione estorta senza fatica. Ora Marzo se ne rendeva conto più che mai. E così l’avevano trasferito, proposto per la degradazione e, in pratica, congedato con ignominia. Ma, almeno questa, se l’era risparmiata. Da quanto si comprendeva nel messaggio, Spizzichino doveva essere morto in servizio.

    «Ci sono ritardi per ogni cosa, figuriamoci per congedare un militare in un momento in cui si fatica ad arruolare e a coprire la metà degli organici. La pratica deve essere istruita dal Distretto Militare prima di andare al Ministero.» Disse Bellucci.

    «Ma lui lo sapeva?»

    «Credo l’avesse saputo. Era stato proposto per una zona punitiva in attesa del provvedimento definitivo, come si scrive sempre. Da qui, di solito si va nelle colonie, in Sicilia, interna intendo, o a Lampedusa. In realtà, appena all’Ufficio Personale a Bologna sanno che c’è qualcuno disponibile, lo mandano all’istante dove si è verificata l’ultima urgenza.»

    Marzo si morse il labbro inferiore fino a farsi male mentre si guardava intorno. «Dove sono questi effetti personali?»

    Bellucci indicò con il mento un angolo dell’ufficio. Marzo si girò. C’era una piccola cassa di legno appoggiata sul lato corto, avvicinata in malo modo alla parete. «L’ha lasciata stamattina il corriere periodico per Roma. È stata spedita quasi un mese fa. Hanno fatto il fonogramma quando pensavano che fosse già arrivata, tante volte ce ne fossimo dimenticati.» Alzò le sopracciglia. «I tempi sono questi.»

    Marzo socchiuse gli occhi, si piegò a fatica, prese la cassa sottobraccio e uscì.

    Turati lo vide entrare con la bici verso la rimessa. Marzo aveva legato la cassetta al portaoggetti sulla ruota posteriore con un paio di giri di spago. Era storta, il legaccio si era allentato e non avrebbe resistito ancora a lungo. Ma ormai era arrivato, pensò. Aprì appena mezza persiana e si affacciò. «Serve aiuto, signor maresciallo?» Disse.

    Marzo scese dalla bici e la spinse nella piccola rimessa. «No.» Disse con tono normale. Slegò la cassa e la prese sottobraccio.

    Turati era arrivato di corsa. «Lasci a me, signor maresciallo.» Marzo gli passò la cassa. «Che cos’è?»

    «Lo vedremo subito.»

    Salirono in ufficio. Marzo tolse tutto quel che c’era sulla scrivania. Turati appoggiò la cassetta al centro. Marzo porse la mano aperta alla sua destra mentre leggeva le scritte impresse a fuoco sul legno.

    MUNIZIONAMENTO CALIBRO 9

    LOTTO 18012/1930 SCADENZA 12/1945

    FABBRICA D’ARMI NARNI

    Non si scartava nulla in seno a un’amministrazione spartana per costituzione, tantomeno un ottimo imballo usato, in tempo di guerra. Si chiese quanto dolore avessero causato quelle cartucce, visto che il fine uso era un concetto quasi sconosciuto in un esercito estremamente impoverito. Sentì qualcosa appoggiarsi sul palmo della mano tesa. Strinse il manico del grosso cacciavite, lo infilò in una fessura appena più larga all’angolo e spinse con energia. Gli sfuggì anche un piccolo fiotto. La punta penetrò. Marzo fece leva con forza e l’asse si sollevò all’improvviso spaccandosi in cima tra qualche scaglia. Ripeté l’operazione fino a togliere tutta la parte superiore. Appoggiò il cacciavite da una parte e scansò le tavolette facendo attenzione ai chiodi scoperti. Entrambi si fermarono a guardare da sopra. Un senso di tristezza li pervase. Una giacca e un pantalone con la doppia banda laterale, lisi e ripiegati, una giberna troppo maltrattata dall’uso, altrimenti qualcun altro l’avrebbe riutilizzata, un paio di stivali consumati sotto e a fianco nelle migliaia di volte che erano stati afferrati per infilarli, un berretto sdrucito, una camicia bianca sgualcita, una busta sigillata con la ceralacca e controfirmata. Marzo ne strappò un lembo. All’interno c’era il portafoglio con una distinta scritta a mano, un paio di banconote da 50 e 100 lire, alcune monete. Allargò la chiusura della giberna, intravide alcune lettere e una fotografia in bianco e nero. La estrasse. Un uomo e una donna, più o meno quarantenni, grossi baffi e capelli scuri, ben vestiti per l’occasione. Lui seduto al centro, lei con la mano sulla spalla. Tra di loro un bimbo sorridente piegato in avanti con le mani appoggiate sulle ginocchia. Sullo sfondo il mobile di un soggiorno e, sopra, una menorah. Il bar-mitzvah di un ragazzino vivace che non presagiva certo che tutti e tre sarebbero stati abrasi dal mondo di lì a pochi anni. Marzo la ripose con cura e ripiegò la chiusura di cuoio deformato quasi accarezzandola.

    Sedette, sospirò, chiuse gli occhi e si massaggiò a lungo la fronte.

    Turati stette un po’ a guardarlo. «Cosa dobbiamo fare, signor maresciallo?»

    «Dovremo trovare i parenti che non ha per restituire loro le cose del nipote che non c’è più.»

    «Ma potremmo chiedere a qualche comunità…»

    «Quali comunità? Per ora non c’è nessuno. Badoglio non si è preso cura di abrogare le leggi razziali neanche dopo il primo arresto di Mussolini, e non si fidano a farsi rivedere.» Scosse la testa. «Non si fiderebbe nessuno.»

    «Ma a Roma…»

    «A Roma non ce n’è più uno.» Marzo prese dei grossi respiri. «Ora lasciami solo.»

    Turati uscì. Marzo rimase a capo chino per lunghi minuti. Aveva mandato a morte un ragazzino spaventato colpevole di voler salvare i genitori deportati. Non era possibile. Lui aveva subito la prepotenza e aveva giurato a sé stesso che non ne avrebbe mai fatta. Ma era così. Fece un sorriso amaro. Una volta un rabbino romano gli aveva detto che non si sa mai come Dio ci induce a fare qualcosa. Ma fare del male per fare del bene? Aveva quasi ironizzato Marzo. Il rabbino non aveva tradito alcuna emozione. Il vasaio picchia di più sui vasi forti per provarli, così Dio mette alla prova i Giusti e non gli Empi. Ma certo. Per loro la vita funzionava in quelle linee trasparenti, e lui non aveva più ironizzato. Belle teorie. Era quasi impossibile condividere quel pensiero ispirato in quel momento. Si alzò, prese le lettere dalla bolgetta e andò alla finestra stringendole fra due dita. La carta frusciò nella piega scomposta. Il mare azzurro e placido sembrava invitarlo a lasciare ogni pensiero negativo. Aprì la finestra e assaporò a fondo la potente e umida brezza autunnale, che portava già in sé avvisaglie del prossimo inverno. Le avrebbe lette più tardi, non appena l’angoscia che lo stava mordendo al petto si fosse attenuata. Ormai era andata, e poteva solo tentare di non fare peggio in futuro.

    La telefonata di Del Greco lo colse ancora alla scrivania. Controllò l’orologio, erano passate due ore senza che se ne fosse accorto.

    «Non ci siamo visti questa mattina. Ero impegnato dal Prefetto a Forlì.» Tossì, e Marzo avvertì una forzatura. «Bellucci le ha consegnato la cassa di Spizzichino.»

    «È qui davanti a me.»

    «Lei crede che lui abbia avuto qualcuno qui in zona…»

    «Ci stavo pensando proprio ora. Non lo so, ma proverò a cercare.»

    Del Greco tossì di nuovo. «Manderò qualcuno a riprenderla.»

    «Ma… perché…?»

    «Il colonnello mi ha chiesto di occuparmene personalmente. È pur sempre una vittima di guerra. Bellucci non poteva saperlo questa mattina. Ma lei può cercare lo stesso qualche congiunto in zona, e avvisarmi con prontezza dei risultati. Mi assenterò per due o tre giorni, devo andare a Roma. Ci sentiamo al mio ritorno.»

    Riagganciò. Forse anche Del Greco aveva qualche rimorso. Avrebbe potuto fare diversamente? Con il senno del poi, in mille altri modi. Ma gli ufficiali sono lì a fare quel che c’è da fare, con molto meno margine di un maresciallo di periferia. La cassetta era davanti a lui, con l’asse appoggiata di lato e le poche cose del povero Spizzichino appena scomposte e in bella mostra. Quasi non fossero oggetti inanimati, sembravano suggestionarlo di aver recato, come messaggeri, le notizie importanti che tutti attendevano.

    Salì nella camera di Spizzichino e ispezionò per l’ennesima volta il posto letto del ragazzo. Era rimasto intatto da quando lui se n’era andato. Controllare con una motivazione diversa aveva un senso, perché avrebbe potuto notare qualcosa altrimenti insignificante. La cameretta era desolatamente spoglia. Un materasso di crine ripiegato a fatica in due sulla rete metallica attraverso la quale si scorgevano le pianelle rosse consumate, un armadietto vuoto, un comodino. Aprì il cassetto del comodino, poi lo sportellino sottostante, erano vuoti come lo erano prima. In uno scrupolo quasi ridicolo, si piegò in ginocchio e guardò sotto il letto, sperando che La Picella, il suo vecchio comandante e mentore in gioventù, non potesse osservarlo da lassù dove si trovava. Sedette sul bordo della rete cigolante e appoggiò la testa fra le mani, in una smorfia. Il letto zoppicò. Notò che mancava un piedino di gomma. Sollevò le sopracciglia, c’era casomai da stupirsi che ci fossero gli altri tre. Guardò meglio, e vide che era all’angolo della stanza. Con una curiosità improvvisa, si alzò di nuovo in piedi e sollevò la rete per la zampa cava. Piegò la testa per guardare dentro e ci infilò il dito. Cosa poteva esserci neanche lo immaginava, e infatti non c’era nulla.

    Camminando per il lungomare, scartò subito l’idea di andare a chiedere a Ottavio Bianchi, il preside della neonata scuola. Era informato su tutto e tutti, e anche una persona onesta, ma aveva un ruolo ambiguo perché era troppo compreso nella Resistenza. L’avrebbe eventualmente ripreso in considerazione in un secondo momento. Claudia poteva essere la persona adatta, al centro della vita di paese e anche dei pettegolezzi ai quali un militare non era sottratto. Nonostante i tanti obblighi monastici derivanti dalla divisa, Spizzichino era giovane e poteva aver avuto confidenza con diverse persone. Il problema era che il bel rapporto tra Claudia e Marzo si era dissolto con il brutale richiamo alla realtà delle lunghe degenze che entrambi avevano avuto, separati l’uno dall’altra. Non era stata tanto la differenza d’età, come poteva balzare all’occhio. I pericoli corsi durante e dopo la ricerca del memoriale di Cesare Rossi, si erano incuneati tra di loro nonostante l’intenzione sincera di trovarsi. Lui era stato in coma, lei non se l’era passata molto meglio. Entrambi avevano avuto convalescenze laboriose durante le quali avevano pensato e ripensato a qualsiasi cosa fosse venuta ad unirli. E poi c’era il senso di colpa di Marzo, che non riusciva mai a separare le sue scelte dalle conseguenze imprevedibili, a maggior ragione quando queste erano così brutte. Si chiama vita, non faceva che ripetergli Claudia, non sei il padrone del flusso. Ma lui non riusciva a separarsi dal dilemma che si creava ogni volta. Non agire e rammaricarsene; farlo, e pentirsi di quel che arrivava. E, con la faccenda di Spizzichino, la storia si sarebbe ripetuta, ne era già sicuro. Ma non poteva rinunciare, di questo era ancor più consapevole, e rinviò ancora il ragionamento infinito.

    Claudia aveva presto ripreso la sua vita alla Casa Comune. Riorganizzare la scuola in classi miste, e scrivere qualche pezzo di cronaca ogni volta che capitava qualcosa o che il direttore del Carlino glielo chiedeva. Più che altro, si trattava di testimonianze sull’Italia che rinasceva. Marzo si fermò sulla soglia. Vederla in piena attività lo sollevava.

    «Allora,» disse Claudia rivolta a un ragazzo, indicando una pila di testi davanti a lei, «questi portali laggiù.» Stese il suo braccio sottile verso la libreria all’angolo. «Poi torna e parliamo delle lezioni. Sai, devi pensare che i ragazzi si distraggono facilmente, specie se c’è qualcuna carina. Quindi devi mettere i maschi davanti e le ragazze in fondo. E poi mettili pure nei banchi misti, se c’è differenza d’età, altrimenti è meglio di no.» Ci pensò un secondo. «Forse è meglio che valutiamo di volta in volta, appena ci portano l’elenco degli iscritti. L’importante è che cominciamo. Dobbiamo iniziare le lezioni, non importa se non abbiamo tutto quel che occorre e che non siamo al completo. Non lo saremo mai, mancherà sempre qualcosa; nel nostro caso, tutto, e dobbiamo fare e agire con quel che abbiamo.» Il ragazzo sollevò i libri e si allontanò un po’ perplesso. Claudia si abbassò su un vassoio e controllò una a una alcune lettere appoggiate lì sopra. «Questa la facciamo leggere a Ottavio, questa è per me, questa la leggo dopo…» Appoggiava i fogli in posti diversi. «Ah!» Si diede un colpetto sulla fronte. «Mi devi ricordare di…» Si voltò, vide Marzo e si rabbuiò appena.

    «Ciao, Claudia.»

    «Ciao. Come va? Non vi insegnano ad avvisare prima di andare da qualcuno? Così, solo per non farlo trovare male o, nel caso si tratti di una signora o di una… ragazza, magari per permetterle di rendersi presentabile, o solo per farle preparare, che so, un argomento di conversazione e cose del genere. Ah, ma certo che no! Voi dovete sempre sorprendere tutti perché avete sempre un obbiettivo superiore, salvare qualche vita, arrestare delinquenti incalliti e pericolosi. Come ho fatto a non ricordarmelo, eh sì che…»

    Marzo si avvicinò e appoggiò la sua grossa mano su quella di lei. «L’ho appena deciso e non ho avuto tempo di pensare troppo. Non era questo che mi rimproveravi?» Lei lo guardò per un secondo, poi abbassò lo sguardo e rinunciò a replicare. Tirò indietro la mano con delicatezza, e Marzo ritrasse anche la sua. «È successa una brutta cosa.»

    Claudia si stropicciò gli occhi. «Sono venuta stamattina presto. C’è tanto da fare e non si arriva mai.» Marzo ebbe l’impressione che il gesto le fosse servito per liberarsi di un certo imbarazzo visibile. Appena finito, lei lo guardò. «Cos’altro c’è?»

    «Non ti ricordavo così cinica.»

    Sbuffò. «È che se ti vedo qui davanti, vuol dire che almeno tu stai bene, e altre notizie di disgrazie qui a Viserba non ne ho.» Fece un gesto in aria. «Ma voi uomini non capite niente, su. Bisogna spiegarvi tutto, e neanche così c’è tanta speranza.»

    Marzo le disse sommariamente di Spizzichino e della necessità di trovare qualche parente o conoscente per dare la brutta notizia e consegnare

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