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Tre cadaveri
Tre cadaveri
Tre cadaveri
E-book437 pagine6 ore

Tre cadaveri

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Info su questo ebook

Una lettura scorrevole e appassionante 

Il nuovo talento del thriller italiano

Tre donne assassinate.
Tre corpi orribilmente profanati.
Chi è il serial killer di Genova?

Una serie di omicidi sconvolge la città di Genova. Tre donne sono ritrovate morte, e ogni scena del delitto è un’efferata rappresentazione. Si tratta di un serial killer o di una setta di invasati? L’ispettore capo Manzi viene incaricato di condurre le indagini insieme alla sua squadra, e decide di chiedere aiuto a Goffredo Spada, un ex poliziotto, a suo dire l’unico ad avere le competenze per trovare l’assassino. Spada, però, non è per niente collaborativo e dimostra cinismo e totale sfiducia nelle istituzioni. C’è qualcosa nel suo passato che lo tormenta. Ma la polizia non è l’unica a muoversi sulle tracce dell’assassino. Orietta Costa, una giornalista di cronaca del «Secolo XIX», intende venire a capo del mistero, e firmare lo scoop dell’anno. Man mano che il tempo passa, però, gli omicidi sono sempre più brutali e chiunque abbia intenzione di fermare quelle morti violente dovrà addentrarsi nell’abisso della perversione umana, in una lenta discesa agli inferi.

Tre efferati omicidi sconvolgono Genova
Tre investigatori dovranno calarsi nell’inferno della mente di un serial killer per risolvere il caso

«Una lettura scorrevole e appassionante. Sono arrivato di corsa al finale del tutto inaspettato.»

«Personaggi complessi e molto ben caratterizzati, un thriller che ha saputo coinvolgermi fino alla fine.»
Raffaele Malavasi
È nato a Genova ed esercita la libera professione. Da sempre accanito lettore, ha una passione per i gialli. Ha deciso di dedicarsi alla scrittura autopubblicando, da esordiente, il suo primo romanzo. Tre cadaveri è il primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2018
ISBN9788822723802
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    Anteprima del libro

    Tre cadaveri - Raffaele Malavasi

    Prologo

    La visibilità è scarsa. Decide di accostare.

    I lampioni gettano un tenue barlume sulle altre auto e sulle poche persone in giro. La pioggia ne distorce il riflesso, le rende opache e deformi.

    Deve tenere salde le mani sul volante perché stanno tremando. È da quando ha lasciato sua figlia in piscina che è stata colta da quel fremito. Non riesce a controllarlo. Parte dalla zona lombare della schiena e si propaga lungo le braccia.

    Non conosce granché il quartiere di Quinto, ma la strada principale, dove si trova adesso, questa sì.

    Guarda con attenzione davanti a sé. A poca distanza ci sono delle strisce pedonali, anche se le percepisce a stento come macchie biancastre sull’asfalto.

    Pensa che non passerà molto e dovrà tornare indietro, in Albaro, per prenderla all’uscita dal nuoto.

    Guarda l’orologio sul cruscotto. Lo confronta con quello da polso. La lancetta dei minuti, che si sta avvicinando al cinque, le provoca un tonfo al centro del petto.

    Ci dev’essere il mare mosso perché sente provenire dalla sua destra lo scroscio regolare e intermittente delle onde sugli scogli. Le sembra di percepirne l’odore, fragranza di sale e frutti di mare.

    Per un attimo pensa alla sabbia di Stintino, all’ultima estate, a quando la vita sembrava sotto il suo pieno controllo. Ai suoi figli che si tuffano dalla piattaforma e a suo marito che la aspetta con due Pimm’s tra le mani.

    Pensa alla crociera nel Mediterraneo, l’inverno scorso.

    Ma non deve distrarsi. Non può permetterselo. Inspira profondamente con il naso e butta fuori l’aria, tutta.

    Ecco, è venuto il momento di ripartire. I battiti aumentano.

    Ingrana la prima e schiaccia a fondo l’acceleratore. Si immette nella corsia appena prima che un’altra auto sopraggiunga. Una vettura nel senso opposto ha gli abbaglianti accesi. Per un attimo è accecata.

    Un uomo sulle strisce. Lei non riesce più a fermarsi. Prova ad accelerare e il pedone a tornare indietro, ma è troppo tardi. La testa dell’uomo picchia sul cofano, le gambe inghiottite sotto. L’auto va avanti ancora cinque metri. Ancora dieci metri. Solo adesso si ferma. La testa dell’uomo è rimbalzata due, tre volte, poi è sparita sul davanti come risucchiata da un vortice.

    Apre lo sportello ed esce con le mani sulle guance livide. Vacilla. La gente accorre, urla, indica. L’uomo giace sotto l’auto, la testa schiacciata dalla ruota anteriore.

    Arriverà tardi a prendere sua figlia.

    Una nave da crociera passa in quel momento. Proprio davanti a lei, al largo.

    1

    Manzi allargò le braccia, sbadigliò ed emise una specie di muggito; era il suo verso abituale, che suscitava sorrisi tra chi frequentava abitualmente quegli uffici e corridoi, e lasciava interdetti i nuovi arrivati.

    Non era certo la reazione più appropriata alla telefonata appena ricevuta, ma di quel sopralluogo alle undici di sera avrebbe fatto volentieri a meno. Allacciò la fondina, indossò il giubbotto ed entrò nella sala operativa. In servizio c’erano Giustini e la Weiss.

    «Orsi, ti va una gita sui monti? Andiamo».

    Manzi non aveva esitato un istante. Il sovrintendente capo Giustini avrebbe subito cominciato a menarlo con mille domande, e di cosa si tratta, e proprio a quest’ora di notte, e perché io e non la Weiss, e sarebbe andato avanti per tutto il tragitto. L’assistente capo Orsola Weiss, invece, era già al suo fianco.

    Salì con lui sulla Leon bianca senza fiatare. Manzi, al volante, si diresse a velocità sostenuta verso Circonvallazione a Monte. Una pioggerella carica di sabbia portata a Genova dall’insistente scirocco iniziò a insozzare il parabrezza.

    Per l’intero percorso la Weiss restò in silenzio, rigida e impettita come la sua corta capigliatura bionda. Non spiccava certo per brillantezza, ma era un ottimo agente, la più affidabile dell’intera Sezione Omicidi e Reati contro la persona della Squadra Mobile. E le poche volte che parlava, solo quando interpellata, non mancava mai di rivolgersi a lui iniziando o finendo la frase con ispettore.

    Dopo alcuni minuti erano in via Carso. Parcheggiarono sul ciglio della strada dietro alcune autovetture, tra le quali una della Polizia Municipale. Era stato proprio un vigile urbano ad avvisare la Squadra Mobile, vista la natura del ritrovamento.

    La pioggia era diventata più fitta. Manzi imprecò tra sé vedendo le lampade che illuminavano la piccola folla radunata in fondo al pendio, oltre il ciglio della strada. Col terreno scivoloso e la pendenza ripida, arrivare laggiù sarebbe stato tutt’altro che agevole.

    Presero le torce e iniziarono la discesa. Mentre si aggrappava agli arbusti e ai tronchi degli alberi, con le scarpe che affondavano sempre più nel fango, Manzi aveva l’impressione che la Weiss, con le sue gambe lunghe allenate dallo squat, se la cavasse molto meglio di lui.

    Quando raggiunsero la spianata in fondo, non gli sfuggì il modo in cui lei si fece da parte per permettergli di precederla di nuovo e farsi largo tra le persone disposte a semicerchio.

    «Ispettore Gabriele Manzi», fece lui per richiamare l’attenzione dei presenti.

    Tutti si voltarono, Manzi avanzò e puntò la torcia a terra, da cui si alzavano sbuffi di fumo, come se le gocce evaporassero non appena toccato il suolo. Al centro dello spiazzo, la terra rivoltata e più scura sembrava formare una toppa che spiccava rispetto al resto del terreno. C’era una buca, lì sotto, che era stata ricoperta da poco. E dalla buca emergeva un oggetto che a prima vista Manzi non riuscì a identificare.

    «Resti di animale?»

    «Non sembrano resti di un animale», disse uno dei due vigili urbani. Gli sembrò di riconoscere la voce. Aveva preso lui la telefonata, durante la quale l’uomo aveva parlato di «reperti biologici di non immediato riconoscimento, molto probabilmente di una bestia, ma non ne siamo certi».

    L’ispettore fece qualche passo in avanti e poggiò un ginocchio sulla terra umida. Poi abbassò il palmo della mano. Dal terreno proveniva un chiaro, persistente tepore.

    Restando accosciato, si voltò un attimo, come a prendere tempo o a cercare conferme inesistenti. Di colpo, l’ansia aveva iniziato ad annodargli lo stomaco.

    Puntò meglio la torcia, e prese a esaminare da vicino quella che sembrava la parte terminale di un osso. Sbucava in verticale da terra. Non si trattava di un osso integro ma presentava sulla punta una frattura obliqua, annerita da tracce di fuliggine. Intorno al moncone si scorgevano i tessuti della zampa o dell’arto al quale era appartenuto. Non risultavano visibili in modo chiaro a causa del fango e dei danni provocati da probabili bruciature.

    «Chi lo ha scoperto?»

    «Un residente qui vicino», rispose il vigile. «Un ragazzo che stava portando il cane a passeggio lungo la strada. Dice che a un certo punto l’animale è come impazzito, il guinzaglio gli è sfuggito e quello si è precipitato in mezzo agli alberi fino ad arrivare quaggiù. Quando è riuscito a raggiungerlo, lo ha trovato agitatissimo che stava scavando. Dice che ha faticato a tirarlo via per il guinzaglio. Solo dopo si è accorto dell’osso, o di che diavolo è quell’affare, e ha chiamato noi».

    Mentre ascoltava il resoconto del vigile, Manzi notò che a meno di mezzo metro dal moncone qualcos’altro sporgeva appena da terra. Anch’esso di colore biancastro con striature brunite.

    Si rialzò e digitò sul telefono il numero della centrale. Sbuffò sentendo la voce che rispondeva.

    «Giustini, qui c’è da organizzare il recupero di un cadavere», disse perentorio. «Potrebbero essere resti umani. Date le condizioni di quel poco che si vede sarà il caso di preavvertire la Procura». Parlando, usciva dalla cortina dei presenti. «No, non è decomposto, anzi sembra ben conservato. Lo ha trovato un cane».

    «Un pastore belga», specificò il vigile che l’aveva seguito.

    Manzi gli scoccò un’occhiata. «Un pastore belga», ripeté poi al telefono, «come quelli delle unità cinofile».

    Giustini stava prendendo nota all’altro capo del filo, quando la testa di Manzi scattò verso l’alto allontanandosi dal cellulare. Infilò in tasca il telefono ancora acceso e si precipitò sulla buca.

    «Weiss, aiutami, presto», urlò, e prese a scavare con le mani intorno al moncone più sporgente, col fango e i granelli di terra tiepida che gli si infilavano sotto le unghie.

    Era una possibilità che non poteva scartare, perché non ci aveva pensato subito?

    Quando il mezzo braccio portato alla luce si mosse con un sussulto ebbe la conferma della sua intuizione: lì sotto c’era una persona. Ed era ancora viva.

    2

    «È vivo o morto?».

    In effetti, visto dal divano, sembrava proprio morto.

    Goffredo Spada si stropicciò gli occhi, appoggiò sul tavolinetto il libro che già da alcuni minuti gli si era socchiuso tra le mani e, con uno sforzo titanico, si mise in piedi.

    Suo figlio Lorenzo se ne stava con il naso spiaccicato sul vetro dell’acquario, l’occhio destro in ispezione ravvicinata di Pecos, il pesce cometa che avevano comprato la settimana prima. Pecos stazionava immobile al centro della vasca, in una strana posizione obliqua, come un relitto abbattuto sul fianco sinistro.

    Anche Bill, il pesce angelo, appariva molto preoccupato e vorticava frenetico intorno all’amico.

    Per la verità, Goffredo Spada aveva sentito dire spesso da suo figlio che quei pesci non erano affatto amici. E in effetti tra i due vi era o vi era stata un’accesa rivalità, soprattutto quando arrivava l’ora di mangiare.

    Bastava che lui o Lorenzo si avvicinassero con la scatola del mangime in mano e subito i pesci si scatenavano in una specie di danza tortuosa tutta codate e spintoni, finché uno dei due non si veniva a trovare nella posizione ideale per inghiottire i bocconi più grossi. Era quasi sempre Bill a prevalere, con grande dispiacere di Lorenzo che, forse per solidarietà cromatica (era rosso pure lui), parteggiava per Pecos.

    «Il gingerismo alla fine ha trionfato?», domandò Goffredo.

    Lorenzo strabuzzò gli occhi verso il padre.

    «Papà, dài», disse Lorenzo picchiettando sul vetro, senza staccare gli occhi da Pecos. «Ti sei scordato che ho undici anni? Vuoi dire che è morto del tutto?».

    Proprio in quel momento Pecos diede un colpo di coda, si rimise in asse e prese a vagare placido per l’acquario, seguito a ruota da Bill.

    «Evvai!», urlò Lorenzo. «Niente gingerasmo, papi».

    «Gingerismo, Pongo. Ma non c’entra con essere vivo o morto. C’entra con il colore».

    Pongo era il nomignolo che la madre di Lorenzo gli aveva affibbiato verso i tre anni, quando la plastilina era diventata il suo gioco preferito.

    «Il colore? Il colore di Pecos?»

    «Esatto, il rosso. Ti ricordi quando l’altro giorno mi hai detto che spesso i tuoi compagni ti prendono in giro?». Goffredo tornò sul divano, prese Lorenzo per le spalle e lo fece sedere sulle proprie ginocchia. Era già da un po’ che voleva affrontare quel discorso, anche se non era sicuro che suo figlio avesse già l’età giusta per comprenderlo.

    «È Federico, quando mi ha fatto cadere. Sembri un pomodoro schiacciato vicino a una cacca puzzolente, mi ha detto quando ero per terra. E tutti quegli stronzi a ridere».

    «Ehi, niente parolacce», si sforzò di correggerlo, anche se la pensava esattamente come il figlio. «Tu te ne devi fregare, Lorenzo. Sai quanto hanno preso in giro me quando avevo la tua età? Crescendo, i capelli sono diventati quasi castani, ma da piccolo li avevo rossi come i tuoi, forse di più. Quasi arancioni. Non ridere, davvero. Ed ero pure pieno di lentiggini, anche se adesso si vedono meno».

    Tornato di colpo serio, Lorenzo lo guardò con la fronte aggrottata. La sua mimica facciale era irresistibile per Goffredo.

    «È questo che volevi dire con quella cosa del ginger?»

    «Più o meno. Il gingerismo è quando i ragazzi bulli prendono in giro quelli come me e come te che hanno i capelli rossi».

    «E perché non se la prendono con i biondi, allora?».

    Bella domanda. Neanche lui l’aveva mai capito. E nemmeno sua madre, la vera rossa di famiglia, era stata in grado di spiegarglielo.

    «Questo non te lo so dire. Forse siamo più… rari. E questo ad alcuni fa paura. Così c’è chi reagisce in modo stupido. Capita spesso che le diversità vengano affrontate in modo stupido, purtroppo».

    «Ok, papi. Quindi, quando succede di nuovo, glielo posso dire: perché mi stai gingerando?».

    Goffredo sorrise e con una mano gli arruffò i capelli.

    «Dài, a dormire, che domani la sveglia suona presto».

    «Uff, devo proprio andarci a scuola? La settimana dovrebbe essere più corta e finire giovedì!».

    «Fila! Te la do io la settimana corta».

    «Okay», disse Lorenzo rassegnato, trascinando le ultime vocali. «Ciao Pecos, ciao Bill. Buonanotte».

    Goffredo seguì con gli occhi il figlio che ciondolava verso la cameretta. Lo vide entrarci con un saltello a piedi uniti. Pensò che tutto sommato il gingerismo era sopportabile; sarebbe durato ancora poco, viste le spalle e la statura di suo figlio, che sembrava aumentare di giorno in giorno. Presto, anche i bulli più ostinati l’avrebbero lasciato perdere. Così era successo a lui.

    Le cose, come sempre, si sarebbero sistemate da sole. Non tutte però.

    Un fitta acuta gli morse lo stomaco, al pensiero di quell’altra faccenda che avrebbe potuto segnare la vita di suo figlio. Forse anche quella difficoltà prima o poi sarebbe stata domata, o almeno ridimensionata, fino a poterci convivere. Mai, però, avrebbe potuto superarla del tutto.

    3

    Tutto ciò che Manzi aveva dovuto vedere nel corso degli anni lo aveva temprato. Questo era ciò che gli piaceva credere. In effetti, ne aveva viste di peggio, eppure quel corpo rattrappito, che inutilmente aveva contribuito a recuperare da sottoterra, gli provocò un conato che riuscì a sopprimere a fatica.

    Il cadavere giaceva adesso sul lettino di Medicina Legale, in larga parte carbonizzato. Il volto era deformato al punto da presentare sembianze diaboliche e, rivolto verso l’ingresso, lo aveva accolto con un’espressione ghignante.

    La dottoressa Delogu stava esponendo al commissario i primi risultati delle analisi dei tessuti. L’ispettore si unì a loro, cercando di dissimulare il suo malessere.

    Gli era apparso chiaro fin da subito che la donna che avevano cavato dal sottosuolo non aveva la minima possibilità di sopravvivere.

    Lo strato di terra che la ricopriva era poco profondo, venti o trenta centimetri. Avevano visto emergere via via un corpo nudo di donna rannicchiato in una singolare posizione. Le braccia erano protese verso l’alto, la prima cosa a risultare visibile. Mancavano però entrambe le mani. La pelle era coperta di bruciature, più accentuate sulle braccia e sulla schiena, dove l’epidermide aveva assunto la consistenza del cuoio e un colore violaceo.

    La terra rimossa era calda, e il calore aumentava a mano a mano che scavavano. Per completare l’opera di disseppellimento erano stati costretti a infilare dei guanti.

    Dopo un po’ il corpo non si era più mosso. Ma al termine delle operazioni Manzi aveva accostato il viso alla bocca tumefatta della vittima, ed era riuscito a percepire un debolissimo, sorprendente refolo di vita.

    La cosa strana era che in quel momento, preso dalla concitazione degli eventi e dalla foga del salvataggio, la vista del corpo martirizzato non lo aveva turbato più di tanto. Ma adesso, complici la luce fredda delle lampade alogene e il viso deturpato rivolto su di lui, era stato raggiunto da quel sussulto alla pancia.

    «La morte è sopravvenuta per stato ipermetabolico», stava spiegando la dottoressa, «provocato dalla grande estensione delle ustioni, che hanno determinato un collasso tessutale e la perdita delle riserve proteiche. Le ustioni coprono il novanta per cento del corpo, ma solo quelle alle braccia e alla schiena sono di grado superiore al secondo».

    «Quindi è stata arsa e poi sepolta viva?», domandò il commissario Dondero, abbassando gli occhiali sulla punta del naso. Manzi notò quanto fosse pallido. Anche lui doveva essere rimasto piuttosto scosso dallo stato del cadavere.

    «Viva di sicuro, è deceduta poco dopo l’arrivo in ospedale. Ma non è chiaro se le bruciature siano state inflitte prima o dopo il seppellimento».

    «In che senso, scusi?», domandò il commissario.

    La dottoressa esitò alcuni istanti. «Nel senso che ho riscontrato due tipi di bruciature: quelle su gran parte del corpo, e in particolare sulla schiena, sembra che siano state provocate dal contatto prolungato con un agente a media temperatura, non dall’effetto intenso ma breve del fuoco o di un oggetto incandescente. Infatti le fibre muscolari risultano alterate in modo uniforme, sono sfilacciate, non destrutturate».

    Dondero e Manzi si guardarono, come se cercassero l’uno nell’altro risposte che non potevano avere. Fu l’ispettore a intervenire: «La terra tutt’intorno, specie sotto il corpo, era molto calda. La Scientifica ne ha prelevato alcuni campioni e li sta esaminando. Può essere quello l’agente che ha causato le ustioni quando il corpo era già stato sotterrato?».

    Manzi aveva già collaborato più volte con la dottoressa Caterina Delogu. Era un medico legale di notevole esperienza. Le sue analisi risultavano sempre molto precise e dettagliate, ed esposte con estrema consapevolezza. Per questo il suo turbamento cresceva nel vederla stavolta meno padrona della situazione.

    «Mah… Al momento è difficile fare delle ipotesi. Di sicuro non può essere quella la causa delle bruciature alle mani».

    «Alle mani?», esclamò Dondero. «Quali mani? Non mi risulta che siano state trovate».

    «Infatti, sono state asportate con due troncature nette di ulna e radio, poco sotto il polso. Una lama molto pesante, forse. Ma è presumibile che prima abbiano subito una gravissima ustione, viste le condizioni dell’epidermide nella zona finitima. Vi sono tracce di un’ustione di quarto grado che ha raggiunto le ossa in prossimità della troncatura».

    «Cazzo!», Manzi chiuse gli occhi e sollevò la testa verso i neon sul soffitto. Poi la riabbassò, osservò i moncherini, adagiati sul ventre della donna. Qual era stato il senso di sottoporla a una simile tremenda agonia? Immaginò per un attimo la terra che veniva scaricata sul corpo, inerme ma vigile. Provò a ricostruire: «Quindi l’assassino le ha bruciato le mani, gliel’ha tagliate e poi l’ha sepolta viva, scaldando la terra della tomba per cuocerla a fuoco lento. È così?».

    La Delogu si limitò ad annuire.

    «Era nuda. Segni di abusi?», chiese Dondero, dopo mezzo minuto di riflessioni silenziose.

    «No, abusi sessuali da escludere, per quanto sia stato possibile accertarlo. È difficile, per ora, verificare danni diversi dalle ustioni».

    «Invece cosa ci dice della donna, dottoressa?», riprese il commissario. «Che elementi ci può fornire per il riconoscimento?»

    «Be’, da quanto ho potuto appurare finora si tratta di una femmina caucasica di età compresa tra i quaranta e i cinquanta anni. Nessun segno particolare rilevabile, a parte un impianto protesico in titanio sulla testa del femore. Non conosciamo per ovvi motivi le impronte digitali. Le iridi risultano danneggiate dal calore ma abbiamo cercato di isolare una porzione di stroma per misurarne la densità di proteine. Occhi azzurri. Capelli biondi, castani naturali, di lunghezza poco sopra le spalle. Denti tutti presenti, a parte i due ottavi dell’arcata superiore, in ottimo stato di conservazione. L’incisivo superiore sinistro per larga parte ricostruito in composito».

    I due poliziotti si consultarono ancora con lo sguardo.

    «Grazie, per ora. Rimaniamo in attesa del suo rapporto come al solito».

    Dondero si diresse verso l’uscita e Manzi lo stava imitando. Ma ebbe un ripensamento.

    «Un’ultima cosa, Caterina», riprese tornando sui suoi passi. «Mentre scavavamo, sul collo della vittima, sotto il mento, abbiamo trovato un oggetto di plastica rigida a forma di semisfera, fissato con uno spago che passava dietro la nuca».

    «Sì, sì, l’ho visto. Era di sicuro fissato davanti al naso e alla bocca. È stato messo per fornire alla vittima una specie di camera d’aria, in modo che potesse continuare a respirare».

    «Dice che l’assassino lo ha messo per farla sopravvivere?», domandò incredulo Dondero.

    «No, non penso», rispose lei. «È probabile che lo abbia usato per un altro scopo: farla morire più lentamente».

    4

    Lento, sempre più lento. Ogni minuto, ogni singolo secondo scorre davanti ai suoi occhi. Li può visualizzare, i maledetti secondi, dare a ciascuno un numero progressivo e metterli in fila uno dietro l’altro. Formano una sequenza interminabile, una linea continua che parte dall’orizzonte e si snoda tra le colline, procede in mezzo alla vegetazione, si infila in una finestra socchiusa di un seminterrato, attraversa uno stanzone spoglio e striscia sotto una porta sprangata. Le passa di fronte agli occhi, quella linea, accompagnata da un rintocco metallico che scandisce ogni singolo attimo che la compone.

    Il rumore rimbomba nella sua testa. È una goccia. Tintinna da un rubinetto mal chiuso, forse lasciato così di proposito. Le fa credere di impazzire.

    I polsi e le caviglie sono scavati dalle corde. Le labbra arse, disidratate. La brocca dell’acqua a poca distanza, ma fuori dalla sua portata. Le dita delle mani martoriate, alcune forse rotte, le unghie strappate. Il naso è ormai assuefatto a quel fetore insopportabile. Odore di umido che è penetrato nelle pareti spoglie. Odore di muffa che ha imputridito il linoleum grigio del pavimento. Ma quello che prevale su tutti è il suo stesso odore. Il sudore e l’urina hanno impregnato il materasso buttato a terra, su cui giace, e i panni mezzo strappati che ha indosso. Escrementi in ogni angolo, contornati da insetti danzanti.

    Quanti giorni, settimane, forse mesi, abbia trascorso lì dentro, non è in grado di dirlo. Non può percepire l’alternanza di buio e luce. Il tempo è scandito solo dagli ingressi di lui.

    Eccolo, sta arrivando.

    Per molto tempo, ogni volta che sentiva il ticchettio dei suoi passi sugli scalini, e poi il cigolio del catenaccio esterno, veniva colta da un fremito che dal petto saliva in gola a privarla dell’ossigeno, quasi a farla svenire. Ora non più.

    Adesso l’accensione della lampadina che con un filo pende nuda dal soffitto, lo spalancarsi della porta di ferro, le procurano sollievo.

    La luce invade lo scantinato, accecandola per qualche istante.

    Lui si avvicina. Non dice una parola. In una mano ha la solita ciotola di plastica, nell’altra spunta uno degli attrezzi che ormai lei ha imparato a conoscere. Svuota la ciotola sul materasso, a poca distanza dal suo viso. Subito lei si protende, ruota il corpo e cerca di mantenere la posizione facendo leva sulle braccia, legate dietro la schiena. Riso bianco, asciutto, quasi secco. In un lampo è finito. E poi arriva l’acqua. Sul viso, uno zampillo che sgorga dalla brocca. Deve torcere il collo per raggiungerla con le labbra.

    Lui appoggia un ginocchio sul materasso e le mostra l’attrezzo: sono pinze da elettricista, con i becchi lunghi, allungati e un po’ piegati. Con l’altra mano le accarezza delicatamente il viso, prima una guancia e dopo il mento. Poi la mano scende e scosta dal petto la camicetta, ormai ridotta a uno straccio sudicio.

    Sente il freddo metallo su di sé, ma ormai la paura non la tocca più. Si irrigidisce quando le morse stringono. Addenta l’interno di una guancia per non dargli la soddisfazione di urlare. E ringrazia. Il dolore è lancinante, arriva a ondate intermittenti ogni volta che lui schiaccia, tira, ruota. Ma a quella sofferenza è grata; le si aggrappa con tutta se stessa. Perché è grazie a quel dolore che, nonostante tutto, conserva la consapevolezza di esserci ancora.

    5

    «Ancora un evviva per Giulia!».

    In mezzo agli applausi e alle voci di bambini e adulti si udì lo schiocco di una bottiglia stappata.

    Giulia ricevette la prima fetta di torta, tre dita di pan di Spagna e almeno il doppio di panna montata. Lasciò perdere il cucchiaino e provò a ficcarsela direttamente in bocca con le mani, riducendosi a una specie di pupazzo di neve. Panna sulle mani, su mezza faccia e sul collo.

    Lorenzo sghignazzò.

    «Cosa ridi, Lollo?», protestò l’amica, e gli spiaccicò sul viso i residui della fetta che le erano rimasti tra le dita.

    I genitori si erano subito ricompattati, intrecciando chiacchiere e flûte sul lato opposto del salone. Era grande quanto l’intera casa di Lorenzo, e dalle finestre si vedevano l’ingresso del porto e il palazzo della fiera del mare. Il papà di Giulia faceva un lavoro importante, architetto, ingegnere, Lorenzo non ricordava bene. Anche la loro macchina era così grande che tutti gli invitati ci sarebbero stati dentro.

    Lorenzo si pulì la faccia con la manica senza smettere di ridere. Giulia non era solo una compagna di classe. Con lei c’era un rapporto speciale da quando si erano conosciuti all’asilo. Ma negli ultimi mesi, dopo che la mamma di Lorenzo se n’era andata e il fratello di Giulia era morto, il legame si era fatto indissolubile. Non c’era Lorenzo senza Giulia, non c’era Giulia senza Lorenzo. In classe li prendevano in giro chiamandoli Giulietta e Lollomeo.

    Anche suo papà e la mamma di Giulia andavano parecchio d’accordo. Adesso erano in piedi, un po’ in disparte dal resto dei grandi, e li stavano osservando. Confabulavano fitto mantenendo gli occhi su di loro, sorridevano e ogni tanto si guardavano e annuivano con la testa. Grande e grosso com’era, suo padre la guardava dall’alto verso il basso. Vestito con la t-shirt nera fuori dai jeans sdruciti e le scarpe da ginnastica, era in netto contrasto con gli altri adulti. Tra tutti il più elegante era il papà di Giulia, con la giacca e la cravatta. Era al centro del gruppo dei padri, raccontava qualcosa e faceva larghi gesti con le braccia mentre tutti ridevano.

    «Ti è piaciuto il mio regalo?»

    «Certo, non hai visto?». Giulia tirò su la manica e mostrò il braccialetto d’argento con il ciondolo a forma di ferro di cavallo. Lorenzo lo aveva scelto con cura insieme alla zia Carola, che due pomeriggi prima lo aveva accompagnato in quel negozio di via San Vincenzo che conosceva lei.

    «Pure alla mamma è piaciuto tanto, sai? Mi ha detto lei di metterlo subito, e che è contenta che noi siamo amici».

    «Amici? Io non sono amico delle femmine, cosa credi?». Accompagnò le ultime parole con una linguaccia e scappò via, nella camera dove stavano tutti gli altri bambini, con lei dietro.

    Goffredo aveva assistito alla scena insieme a Lucia, la padrona di casa.

    Era una donna minuta e aggraziata, con il corpo proporzionato e gli occhi luminosi di un blu intenso, resi più profondi da un’ombra di malinconia che non se ne sarebbe più andata. La perdita del figlio maggiore era stato un colpo durissimo. Non ne aveva però risentito la vita sociale dei coniugi Barabino, rimasta all’apparenza immutata, forse per non creare ulteriori traumi alla piccola Giulia.

    Ma negli occhi di Lucia, Goffredo poteva leggere tutto il tormento per ciò che era accaduto, la rabbia, e un’increspatura dubbiosa. Forse non aveva fatto tutto il possibile – ecco cosa non smetteva di ripetersi, come continuava a torturarsi – e Giacomo era morto, a tredici anni, in una sala operatoria del Gaslini.

    A nulla era valso affidarlo al miglior cardiochirurgo pediatrico in circolazione. Anzi, nuove voci circolavano su una causa per negligenza intentata dai Barabino ai danni del luminare.

    Non aveva mai sentito Lucia parlare direttamente della disgrazia, nonostante avessero l’abitudine di fermarsi ogni giorno a chiacchierare all’uscita di scuola. Era quasi un appuntamento fisso, ormai: dal lunedì al giovedì, salvo impedimenti, arrivavano entrambi con un anticipo calcolato (almeno da lui) di dieci, quindici minuti. Gli piaceva parlare con Lucia, e si era accorto che nemmeno lei era indifferente a quei loro incontri. C’era dell’attrazione fisica, certo, che però non costituiva il motivo principale della loro affinità. Erano accomunati dal desiderio di dar voce l’uno al dolore dell’altra, e in questo modo accettarlo e dimenticarlo, ritrovando quanto di loro stessi c’era prima e intorno e dopo quel dolore. Goffredo si rendeva perfettamente conto che agli altri genitori la loro frequentazione poteva sembrare un po’ troppo assidua. Le occhiate indagatrici e le voci malevole non mancavano. Tuttavia se ne fotteva.

    Come lei non amava parlare del figlio, anche lui evitava ogni accenno a sua moglie Anna. Eppure quel pomeriggio, in modo del tutto inatteso, fu Lucia a tirarla in ballo.

    «Goffredo, scusa se mi permetto… È già da un po’ che ci penso ma finora non mi sentivo… insomma, non avevamo la confidenza di adesso. È un sacco che non vedo tua moglie. Prima a prendere tuo figlio veniva solo lei, poi tutt’a un tratto non si è più vista e sei spuntato tu».

    Un trenino di bambini, tra cui non figuravano né Lorenzo né Giulia, passò schiamazzando in mezzo ai due.

    Goffredo incassò e rimase in silenzio, buttando giù quel che era rimasto nel bicchiere. Tentennava, incerto per un attimo su quale versione fornire: si fidava della riservatezza di lei, ma a volte una mezza verità poteva essere peggio del silenzio o della sincerità piena, seguire chissà quale percorso e arrivare alle orecchie sbagliate.

    Fu il marito di Lucia a trarlo d’impaccio.

    «Ehi, Spada, lascia perdere le donne e unisciti a noi, forza!».

    L’architetto Gianni Barabino era passato accanto a loro per raggiungere il tavolino d’angolo e stappare un’altra bottiglia di champagne. Non era lo spirito cameratesco ad averlo spinto a quel richiamo, Goffredo ne era certo. Già da un po’ sentiva gli occhi del padrone di casa su di sé e sulla moglie.

    «Arrivo, arrivo», rispose a mezza bocca quando lui fece ritorno con la bottiglia in mano.

    Si congedò da Lucia piegando la testa e aprendo le braccia in segno di scusa e si avviò verso il gruppo degli uomini.

    Si avvicinò sorridente. Barabino, ma anche tutti gli altri, gli stavano proprio sui coglioni.

    6

    «Me’ cojoni», esclamò Manzi, tradendo le sue origini.

    Nonostante Caterina Delogu avesse anticipato il giorno prima gran parte del contenuto della relazione autoptica, leggerla nero su bianco gli provocò di

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