Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Di qui a qualche anno
Di qui a qualche anno
Di qui a qualche anno
E-book232 pagine3 ore

Di qui a qualche anno

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In un presente indefinito, un male misterioso fa strage di donne fertili e una mutazione spontanea preserva le superstiti con la sterilità. Molti uomini cadono nella disperazione, vittime collaterali, mentre si scatena una guerra silenziosa per il possesso della ambite prede rimaste, sullo sfondo di una società ancora organizzata ma sull'orlo del caos. Il detective William Eckart è abituato agli incarichi di mariti traditi e non ha avuto troppe difficoltà a modificare le sue prestazioni professionali sull'onda del mutato ordine sociale, finché Leyla, sua moglie, non interrompe ogni contatto. Quando il commissario Branagh cerca sia lei che Rivka, una bella ragazza ebrea scomparsa, Eckart non può fare a meno di andare a cercare dove non dovrebbe, incrociando la sua strada con quella dei molti altri che vorrebbero impadronirsi della ragazza.

LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2021
ISBN9781005667887
Di qui a qualche anno

Leggi altro di Francesco Zampa

Correlato a Di qui a qualche anno

Ebook correlati

Distopia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Di qui a qualche anno

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Di qui a qualche anno - Francesco Zampa

    Capitolo 1

    Di qui a qualche anno, la situazione in atto peggiorerà. Un numero sempre minore di donne sarà in grado di concepire. Tra queste, ancor meno potranno portare a termine la gravidanza. Calcoliamo che le nascite saranno un decimo delle attuali.

    Il detective Kenneth Eckart non poteva fare a meno di sentire le parole di quella vecchia trasmissione riecheggiare nella sua mente. Non era neanche così vecchia, a dire la verità. Si trattava, appunto, di una decina di anni prima. Eppure erano state straordinariamente profetiche. Una specie di tumore al sangue, dicevano, aveva colpito solo le donne fertili, facendone strage. C’era stata un’impennata di suicidi tra gli uomini, la maggior parte incapace di resistere alla perdita repentina della compagna. Quando un rimedio era stato scoperto, la natura aveva già provveduto con una mutazione che aveva reso sterili gran parte delle superstiti. La popolazione mondiale era pericolosamente vicina a essere dimezzata, e quella femminile era ormai nel rapporto di uno a venti, secondo la propaganda, ma molto minore, secondo la personale opinione di Eckart. Strutture speciali erano state create per il ricovero delle partorienti e l’esercito vigilava come faceva prima con le basi missilistiche. L’interesse nazionale era diventato all’improvviso la sopravvivenza della razza umana.

    La Legge Speciale 83, detta Salvaguardia, prevedeva la condanna a morte, in qualche caso l’esecuzione immediata, per chiunque usasse violenza sulle donne. Un nuovo reparto speciale della Polizia, subito ribattezzato Pretoriani per la Salvaguardia, aveva sostituito la vecchia Buoncostume, con poteri amplificati e mezzi infiniti. Non era insolito assistere a veri e propri linciaggi di Stato per strada. I corpi dei colpevoli dovevano essere abbandonati a monito, e i parenti erano obbligati ad attendere almeno quarantotto ore prima di occuparsene.

    Eckart comprendeva quanto fosse necessario, anche perché la violenza di genere, paradossalmente, era aumentata. Chi aveva una donna se la teneva stretta e doveva difenderla con le unghie e con i denti, e non lesinava mezze misure purché non se ne andasse. C’era chi giungeva al paradosso di minacciare di uccidere la compagna purché non gliela portassero via. Quando lo scoprivano, un apparato strabiliante di uomini e mezzi si adoperava affinché il bene prezioso non andasse perso. Nessuna donna doveva morire. La Polizia era autorizzata a usare la forza e lo faceva in maniera preponderante, qualche volta, o troppo spesso, vociferavano, approfittando dell’occasione per eliminare nemici dell’ordine pubblico da loro definiti. Eppure loro stesse non si lasciavano andare. Ma non era più il secolare retaggio finto-protettivo, casomai la paura che fuori dalle rassicuranti mura domestiche i pericoli fossero molto maggiori.

    Kenneth aveva un suo modo speciale di fare le statistiche. Il bar che frequentava da più di dieci anni, cioè da quando si era messo in proprio e aveva aperto un ufficio a Brooklyn, aveva circa la metà dei clienti. Prima doveva mettersi in fila e gli ci volevano dieci minuti per prendere un caffè o un drink, a qualsiasi ora del giorno. Ora aspettava al massimo la persona davanti a lui. Sedeva al tavolino e osservava le auto in coda. Era lunga quanto tutto l’isolato. Ora non ce n’erano mai più di tre o quattro, e il semaforo era stato calibrato sulla metà dell’intervallo. La scuola di fronte, poi, era un test anche troppo facile: quattro piani, venti finestre ognuno, quindi almeno dieci classi. Ora erano aperte solo quelle a pianterreno. E poi la paninoteca e la pizzeria, da quindici addetti a cinque, e il furgone della carne che arrivava, sempre più piccolo e sempre meno spesso. E poi il cartello CERCASI PERSONALE attaccato fuori che non levavano mai. Inutile ascoltare la tv e i discorsi delle autorità, pensava Eckart, il mondo era cambiato, eccome. Ma era meglio non dirlo troppo forte, anche questo era chiaro. I tre o quattro tg quotidiani avevano via via smesso di parlare di femminomoria, come si era inventato lui. Perché spingere così forte su un messaggio negativo? Non c’era motivo di allarmare più del dovuto una popolazione già spaventata, non c’era bisogno di panico, anzi, era proprio da scongiurare. E così, i giornalisti più curiosi erano spariti dagli editoriali, poi dalle prime pagine ed erano finiti alla cronaca o allo sport, oppure proprio spariti e basta, perché non se n’era più sentito parlare.

    Ma c’era sempre un sacco di gente in giro a Brooklyn, e a Eckart importava in fondo poco di tutta questa storia, anche perché ora poteva parcheggiare proprio sul marciapiede davanti all’ufficio. A lui il lavoro non mancava mai. Ai mariti traditi si erano aggiunti quelli gelosi, che non volevano rischiare neanche per un secondo che la loro somma ricchezza potesse essere insidiata, e lui si era trovato a fare i pedinamenti e gli appostamenti fotografici più noiosi della sua vita. Non succedeva mai nulla, perché la maggior parte delle donne era fin troppo sorvegliata e non aveva interesse a uscire dalla zona confortevole. E così, mentre saliva le scale per andare al suo ufficio al primo piano, proprio sopra a Mario’s, il negozio di frutta, Eckart non pensava che a organizzare l’ennesima giornata.

    La vetrofania sulla porta diceva:

    ECKART INVESTIGAZIONI.

    Lo guardò e alzò le sopracciglia. Infilò la chiave nella serratura, entrò, appese il trench e il cappello. Sul mobiletto accanto c’era appoggiata la nuova insegna ancora nell’imballo parzialmente scartato:

    KENNETH ECKART RINTRACCI.

    Annuì. Come ogni giorno, notò, non senza disappunto, il disordine in giro e cominciò con le pulizie. Da quando Rivka, la segretaria, se n’era andata, sparita anche lei all’improvviso, si era imposto che non avrebbe trascurato di farle proprio come faceva lei, o quasi. Prese il cestino stracolmo di cartacce e involucri vuoti e unti del fast-food, ci spinse dentro il quotidiano che aveva lasciato sulla scrivania la sera prima, e lo adagiò di nuovo a terra. Controllò il posacenere, non era abbastanza pieno e lo lasciò dov’era. Quindi sedette alla scrivania e si allungò sullo schienale molleggiato. Qualcosa cigolò. Eckart si fermò per qualche secondo e guardò con la coda dell’occhio. Non c’era nulla, naturalmente, a parte una poltroncina troppo vecchia. Stese il braccio e sfogliò l’agenda da tavolo. Le pagine erano bianche. Lesse distratto qualche post-it impolverato. Cose che aveva già fatto, o che avrebbe ancora una volta rimandato. In effetti, non aveva bisogno di appunti. I clienti venivano, gli davano l’incarico e gli lasciavano un sostanzioso anticipo in contanti. Nel giro di pochi giorni, lui concludeva il mandato ma siccome molti, se non tutti, si vergognavano, per antico orgoglio maschile, di mostrare che avevano bisogno dei suoi servizi, visto che erano noti i casi comuni di cui si occupava, Eckart si era abituato a chiedere il saldo prima di comunicare l’esito atteso. E loro, ansiosi di sapere se la loro reputazione fosse ancora intatta, pagavano e sparivano in un lampo.

    Qualche volta era facile, altre un po’ meno. Eckart era anche un bravo psicologo. I mariti sedevano davanti a lui. Rivka lasciava due tazze di pessimo caffè che nessuno beveva, e usciva subito. Eckart si accendeva lo stesso sigaro senza fumarlo, li guardava di traverso, e capiva. Capiva subito. Se l’uomo sudava, se gli aveva dato la foto di una donna troppo bella per lui, se aveva tenuto gli occhiali da sole in ufficio, se aveva preparato i soldi già in mano o se si mordicchiava il labbro, e una serie infinita di altre cose. Questi non volevano sapere. Volevano essere rassicurati e continuare a vivere la loro menzogna senza che qualcuno li facesse sentire costretti a indossare panni da duro, e magari sparare e uccidere come converrebbe. Non lo avrebbero fatto neanche prima della penuria, figuriamoci di questi tempi che rischiavano la vita solo per averlo pensato.

    Erano gli altri, pensava Eckart, quelli pericolosi. Gli altri che impazzivano quando capivano, o immaginavano, che la donna non li voleva più. Paventare loro la pena di morte non bastava a fermarli. Avrebbero ucciso in ogni caso, perché non concepivano, non tolleravano, e non avrebbero mai permesso a nessuna di vivere senza di loro. Da questo punto di vista, il mondo non era poi così cambiato, a parte il fatto che era sempre più difficile vedere ragazze da sole in giro.

    Un’altra cosa della quale si parlava poco, ma della quale Eckart si era accorto proprio per saper tenere la bocca chiusa e le orecchie aperte, era il mutato comportamento femminile. Le donne si incontravano apparentemente per i motivi di sempre, anche se negli itinerari di sicurezza stabiliti dal governo, per socializzare, chiacchierare, e mai meno di cinque per volta, come suggerivano le autorità con un insistito spirito paternalistico. Però non giocavano a burraco e non facevano shopping. Le più pacifiche si allenavano almeno alla difesa personale. Si schieravano a protezione l’una dell’altra anche mentre passeggiavano. Le scorte che sempre le seguivano stavano a distanza. Il pericolo era ovunque, invisibile almeno quanto la malattia.

    Eckart aveva capito che si riunivano in quelle che una volta sarebbero state definite riunioni politiche semiclandestine, non solo per provvedere in prima persona alla loro stessa sopravvivenza. Alcune erano diventate cape politiche dei movimenti e, tra le ali più estreme, praticavano la sterilizzazione delle adepte allo scopo di evitare di essere schiavizzate per la riproduzione e togliere un motivo importante a chi, nelle sue convinzioni, le riteneva una specie di patrimonio dell’umanità, nella fattispecie lui, per l’inseminazione e la riproduzione. Quindi, la malavita si era iper-specializzata e le cosche che trattavano le bianche erano diventate tra le più potenti e redditizie organizzazioni mondiali, con la conseguenza che la violenza sulle donne era aumentata nonostante sia i criminali che il governo, per motivi opposti, non potessero tollerarla.

    A Eckart tutto questo interessava poco. Sua moglie Leyla era scomparsa da tempo. Poco più che quarantenne, lui non era neanche tanto male da pensare di non poter rifarsi una vita. Chi lo conosceva, però, diceva che si era lasciato andare allo sconforto e disinteressato dell’altro sesso a tal punto da essersi a malapena accorto di quanto stava accadendo nel resto del mondo. La mole di incarichi l’aveva aiutato ad andare avanti e aveva dovuto assumere una segretaria.

    Si alzò di nuovo. Si rese conto, come altre volte, che era una perdita di tempo passare in ufficio senza avere un motivo. Però era un’abitudine che aveva da quando aveva aperto, quando i clienti erano scarsi e lui passava giornate intere ad aspettare che qualcuno bussasse. Infilò in tasca la piccola torcia elettrica e si avviò alla porta. Impugnò la maniglia rotonda. Stava per tirare, quando qualcuno, dall’altra parte, lo anticipò e spinse la porta verso di lui.

    Capitolo 2

    Devo precisare, a scanso di ogni equivoco, che io e Rivka non eravamo amanti. Lei era una bella mora ebrea che viveva a un paio di isolati dall’ufficio e veniva quasi tutti i giorni a comprare la frutta da Mario, nel negozio sotto al mio ufficio dove, tra parentesi, ormai vivevo stabilmente. Cosa sarei dovuto tornare a fare a casa? Sempre tra parentesi, Mario era uno dei miei collaboratori silenti, una specie di segretario in pectore o di terzo occhio: per esempio, lo chiamavo prima di rientrare per sapere se c’era qualche faccia troppo brutta lì intorno, oppure solo per sapere se era tutto a posto. Detto questo, per me era stato facile incontrare quella giudea. Il commesso la serviva con un sorriso ebete chiamandola per nome. Un vero schianto, avrei detto, se ciò non mi avesse causato i sensi di colpa tipici di chi rimane precocemente solo. L’avevo notata ma non c’era mai stata occasione di parlarle, finché non la vidi in difficoltà con un paio di tizi con una brutta barba incolta e curiose treccine ai lati della testa, pantaloni e bombetta neri e camicia bianca. Da vicino, mi accorsi che i due erano anche giovani ma, vestiti in quel modo, dimostravano l’età di Matusalemme. La stavano incalzando con discorsi che, a quanto pareva, non dovevano piacerle, proprio sul marciapiede davanti al mio ingresso. Pedinare era da sempre la mia specialità, potevo seguire un tizio in una piazza deserta senza che se ne accorgesse. Ma quel giorno mi avvicinai proprio per farmi vedere da quei due cammelli, chiamai la ragazza come se fosse mia sorella e le offrii un caffè. Non siete a casa vostra ragazzi, girate i tacchi. I tizi mi guardarono schifati e se ne andarono.

    Rivka era uscita dalla sua comunità perché non tollerava certe imposizioni, mi disse. Parlava tre o quattro lingue e stava cercando lavoro. Aveva affittato un appartamentino, voleva trovare la sua strada e tutte quelle cose lì. Quei due pelosi erano suo fratello e un amico, così disse lei. Io non ci credetti e lei se ne accorse, ma non approfondii. Volevano convincerla a tornare, disse, perché loro fanno così. Fanno così anche da noi, pensai. Nella casualità degli eventi, presi quell’incontro come beneagurante e le offrii subito il posto da me. Realizzai in quel momento che in effetti ne avevo bisogno e poi era anche ora di dare un tono professionale all’ufficio. Leyla avrebbe capito. Lei stessa me lo aveva consigliato più volte, ma io avevo sempre rimandato perché il giro d’affari non lo permetteva. Comunque non me ne pentii affatto, perché si rivelò meticolosissima nel riordinare fascicoli e appunti che ero abituato a mandare a memoria, ricostituendo lo schedario con la sua calligrafia perfetta. Ci teneva e voleva farlo vedere.

    Il commissario William Branagh era fermo sulla soglia. Pendeva appena, appoggiato sul suo bel bastone di ebano. La sua sagoma occupava quasi tutta la porta aperta. Stava aspettando che io gli dicessi di entrare. Non credo pensasse che le persone potessero intimorirsi della sua presenza improvvisa, perché lui si considerava educato e rispettoso e quando così non sembrava, era solo perché non poteva farne a meno nel suo ruolo di tutore. Devo dire che si era sempre comportato bene con me e, passato l’attimo, lo invitai ad accomodarsi. Fece un paio di passi, si guardò intorno, con un cenno della mano e della testa mi fece capire di non avere intenzione di sedersi. Faceva sempre così.

    «Immagino che non sia una visita di cortesia.»

    «Non lo è, in effetti, ma non potrebbe. Non siamo amici, signor Eckart.» Non mancava di sincerità ed era una cosa che apprezzavo molto. Ciò che non riusciva a mascherare era quel suo accento europeo, tedesco, avrei detto, nonostante abitasse a Brooklyn da più di quarant’anni. E comunque, non ero affatto convinto che venisse dalla Germania. Ma lui non diceva mai una parola di più. «Signor Eckart,» si tolse il cappello e se lo appoggiò sul petto, mentre distendeva l’altra mano per appoggiarla sul bastone, «signor Eckart, ci siamo già sentiti quando la sua segretaria, Rivka, è scomparsa.»

    «Sì. Le dissi…»

    «Ricordo cosa mi disse. Rivka voleva liberarsi del suo retaggio. Quando sparì, vennero a cercarla anche dalla comunità, e continuarono a lungo…»

    «…per cui pensai che loro non c’entravano con la sua scomparsa…»

    «Esatto.» Posò il cappello sul vicino scaffale e si avvicinò a una vecchia fotografia del ponte di Brooklyn che avevo appesa lì da quando avevo aperto. Era il suo modo per inserire pause studiate tra una frase e un’altra e, tanto più si fissava a guardarla, quanto più era vicino al dunque. «Il fatto è che sono tempi bui, e non possiamo assolutamente accettare che una donna vada perduta così, senza cercare una spiegazione.»

    Si girò. «Una spiegazione plausibile. Anche se io preferisco quelle incontestabili.»

    «Ma io non ho altro da dire. Non l’ho più vista, e questo è quanto.»

    «La cosa non l’ha preoccupata?»

    «Mi ha preoccupato. Una donna sola è quanto di più preoccupante ci possa essere in questo momento. Ma Rivka ha sempre dimostrato di non aver paura di affrontare i suoi rischi pur di liberarsi da situazioni scomode.»

    «Ed era scomoda, qui con lei?»

    «Non credo, ma avevo lo stesso compreso che per lei era una situazione provvisoria.»

    «Nulla di nuovo, dunque.» Branagh chinò il capo e si lisciò uno dei lunghi baffi.

    «Non da parte mia.» Dissi.

    «Già.» Mi guardò negli occhi. «Il fatto è che oggi porto io una novità, signor Eckart.» Infilò la mano nella grossa tasca e tirò fuori una busta di plastica trasparente nella quale era infilato un foglio di carta. La appoggiò sul tavolino e potei vedere meglio. Era un normale foglio da lettera con un messaggio anonimo fatto con i ritagli dei titoli di giornale:

    CHIEDETE AL BASTARDO DI ECKART DOVE HA NASCOSTO LA SUA PUTTANA EBREA.

    «Ah.» Dissi. «Sono stato tempestato di questi messaggi. Io, i giornali locali, la Polizia. Sono quegli zucconi dei suoi connazionali ultraortodossi che non sanno che pesci prendere e sono convinti che ce l’abbia in cantina. È una cosa folle.» Ricambiai il suo sguardo. «Sarebbe questa la novità?»

    «I messaggi anonimi non sono una novità. Guardi meglio.»

    Sospettoso, mi avvicinai al foglio. Notai due piccole parole, sembravano scritte a mano. Che rimasi di stucco è dir poco, e ancor prima che finissi di leggere. Leyla Eckart, senza alcun dubbio era la firma di mia moglie. Trattenni lo stupore e mi allontanai. «È un falso. Mia moglie non avrebbe mai firmato una cosa del genere contro di me, tantomeno adesso.»

    «Adesso? Quindi lei pensa che sia morta, mi perdoni?»

    Mi morsi il labbro. «Ho tutti i motivi per crederlo.»

    «Ah, l’esplosione, certo. Molti corpi non sono stati riconosciuti.»

    «E non ho più notizie di lei da quel giorno.»

    «Una donna tradita è capace di ben altre azioni.»

    «Tutti lo siamo, quando ci sentiamo feriti. Ma mi creda, commissario Branagh. Non è il mio caso.» Respinsi il foglio con la mano. Sentivo il sudore salire e un groppo chiudersi sullo stomaco. Non era possibile. Leyla. Ci doveva essere una spiegazione. Guardingo, mi avvicinai alla porta. «Se non c’è altro, commissario, avrei da fare.» Mi aspettavo da un momento all’altro che un manipolo di pretoriani

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1