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Il terzo medico
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E-book268 pagine4 ore

Il terzo medico

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Info su questo ebook

Nel 1967, un’inchiesta giornalistica svela il tentativo di colpo di Stato da parte del comandante generale dei carabinieri, il cosiddetto “Piano Solo”.
L’onda lunga dell’inchiesta parlamentare arriva in periferia alla fine del 1977, mentre nuovi gruppi eversivi organizzati insanguinano la cronaca nazionale nel tentativo di rovesciare le istituzioni per mezzo di cruenti atti di sangue.
Il maresciallo Sabato Aprile, orfano ribelle alla gerarchia e ai rapporti amorosi, è trasferito, suo malgrado, alla Sezione Informativa della capitale per identificare la parte romana delle migliaia di cospiratori coinvolti. Così, indaga su un elenco di pseudonimi e nomi improbabili, e si sposta con la Vespa che si è comprato per non sentirsi diverso dai coetanei che l’hanno avuta in regalo dai loro papà.
Ma quando una traccia impercettibile mette in connessione il complotto di post-fascisti e le insidie tra le sue stesse fila, con la sua sofferenza congenita per il rifiuto subito dal padre, Sabatino non può più fare a meno di affrontare il nodo cruciale di tutta la sua esistenza.

LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2023
ISBN9798215599471
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    Anteprima del libro

    Il terzo medico - Francesco Zampa

    CAPITOLO 1

    Il maresciallo Sabatino Aprile lesse distratto per la seconda volta il foglio d’ordini che aveva tra le mani. Era scritto su una velina, una carta riso quasi inconsistente, una quarta o quinta copia carbone, con i caratteri rarefatti per la stratificazione, nonostante l’impatto dei martelletti della nuova Linea 98 distribuita a tutti gli uffici investigativi romani. Come al solito, il testo introduttivo era pieno di omissis, parti che il compilatore non aveva interesse a comunicare né sentiva il dovere di farlo, fosse solo per rendere più chiaro l’intento, perché tanto gli ordini sono ordini e si eseguono e basta. Si sforzò di concentrarsi e ricominciò dall’inizio:

    LEGIONE CARABINIERI ROMA

    SEZIONE INFORMAZIONI SAN LORENZO IN LUCINA

    (…) la V Legislatura (1963-1968) ha istituito la Commissione d’inchiesta per il cosiddetto Piano Solo, venuto alla luce nel 1967… pertanto si trasmettono gli elenchi, ognuno per la parte di competenza, dei presunti adepti da identificare (…) e sui quali fornire le informazioni rituali, ivi comprese quelle riservate, frequentazioni, inclinazioni particolari… (…)

    Piegò il primo foglio dietro, e lesse l’allegato. Era un elenco di centinaia di nomi divisi per città o regione, e il gruppo più consistente era quello romano. Sopra c’era un foglio fotocopiato e spillato recante una lista estratta di dodici persone. In cima, a penna rossa, qualcuno aveva vergato maresciallo Sabatino. Scorse i nomi uno a uno con l’indice. Alcuni erano completi, di altri c’erano solo le iniziali, il soprannome o l’incarico, accanto alle presunte informazioni note, come residenza, date di nascita e morte. Appoggiò tutto sulla scrivania e sbuffò.

    «Che c’è? Ti sei già stancato?» Il maresciallo Di Giorgio era il capufficio anziano della Sezione Informativa. Era l’unico vestito in maniera decente, con le sue camicie celesti e i gilet di lana sopra a jeans larghi e sdruciti, mai alla moda. Erano veramente consumati. Aveva capelli corti e sempre a posto, a differenza degli altri che Sabatino aveva potuto conoscere. Barbe e capelli lunghi, magliette trovate al mercato e scarpe di cuoio a punta, sembravano universitari in incolmabile ritardo o non capiva bene cos’altro. Di Giorgio gli si fermò davanti con un mucchio di pratiche sottobraccio.

    Sabatino alzò gli occhi. «Veramente non ho parlato.»

    Di Giorgio si aggiustò il mazzo sottobraccio. «Hai sbuffato. È come parlare, non lo sai?»

    Sabatino lo guardò. «C’è qualcosa che non va? Parla pure se devi sputare un rospo.»

    «Ho già detto.» Lasciò cadere le copertine sulla velina di Sabatino in una pila scomposta. Quelle in alto scivolarono di lato. «Vedi di muoverti. Non abbiamo tempo da perdere qui.»

    Sabatino ne prese alcune e le lanciò sopra la macchina per scrivere. «Ne ho già una.» Sfilò la velina da sotto e gliela mostrò. «Appena ho finito le guarderò.»

    Di Giorgio fece un passo in avanti. «Non credere di essere arrivato qui a riposarti.»

    «Non mi interessa un bel niente quel che pensi. Mi ci hanno mandato, e faccio quel che devo fare. Punto.»

    Di Giorgio scosse la testa lentamente e si allontanò.

    Sabatino lo seguì con lo sguardo finché non fu abbastanza lontano. Iniziò di nuovo a leggere il foglio ma non era abbastanza concentrato. Aveva preso due giorni di ferie e quando era tornato si era ritrovato dalla Sezione Investigativa a quella Informativa. A dire il vero, era una specie di sottosezione, una cosa creata dal nulla qualche mese prima, della quale lui si era sempre disinteressato. Non aveva neanche capito bene che cosa facessero tutto il giorno là dentro chini sulle carte. Come a dire, da quella tutta azione si era ritrovato all’anticamera della pensione, e l’aveva vissuto come una punizione indiretta per il suo temperamento irascibile. Avevano fatto tutto durante la sua assenza così che non aveva avuto neanche modo di protestare, un metodo efficace diffuso tra molti comandanti.

    Non era proprio così, se non nella sua convinzione. Il fatto era che avere la mente rivolta a cercare batterie criminali per i bassifondi romani, lo teneva vivo e lo distraeva da quell’angoscia perenne che sentiva morderlo al petto. Se ne sarebbe occupato volentieri, se avesse potuto comprenderne non tanto la provenienza, ma il meccanismo.

    Alzò il telefono e chiamò Alberto, il collega anziano che aveva conosciuto appena arrivato alla Sezione Investigativa. Alberto aveva intuito il disagio di Sabatino ma ne aveva apprezzato le doti investigative, e ne era diventato un mentore discreto quanto un fratello maggiore. Era uno dei pochi di cui Sabatino si fidava. Alberto era rimasto dall’altra parte, anzi, era lì da tutta la vita e nessuno l’avrebbe spostato.

    «Allora? Che mi dici?» Alberto era sempre cordiale e annuiva a ogni suo rimbrotto.

    «Mah. Stamattina sono arrivato e ho letto sul memoriale servizio provvisorio alla Sezione Informativa. Conosco questo modo di agire. Lo so che non dobbiamo stupircene ma invece ogni volta mi stupisco e non vedo perché debba abituarmici.» Sospirò.

    «Mh, certo. Non serve fare qualcosa di male. Se non gli vai a genio, davanti ti sorridono e dietro agiscono.»

    «Me ne sono accorto.»

    «Ma non te la prendere. Fai quel che devi, fai passare la buriana e vedrai che le cose si aggiusteranno.»

    Non è di risposte buoniste che ho bisogno, pensò Sabatino. «Poi mi hanno dato un elenco di colleghi, militari o presunti tali, da controllare.»

    Alberto fece una pausa. «Ho sentito dire che hanno allargato il personale per via della Commissione Parlamentare…»

    «In effetti, è così. A quanto pare ero l’unico idoneo fra venti altri. Nell’elenco ci sono… uh…» lanciò un’occhiata al foglio, «…una dozzina di persone prese tra centinaia di altre. Le devo identificare e ritrovare in giro per Roma.»

    «Guarda che è roba delicata, non la sottovalutare. Per la maggior parte sono portatori d’acqua ma ci potrebbe essere dentro qualche pesce grosso. E poi tanti portatori d’acqua fanno danni.»

    «Non la sottovaluto. Ma credimi, dopo tutti questi anni, cosa vuoi che importi alla gente se il tal maresciallo si era fatto abbindolare da una promessa di carriera o di un posto comodo. Succede in continuazione.»

    «Di farsi abbindolare?»

    «Di cercare il posto comodo e la promozione facile. Ma proprio per questo, permettimi di dubitare che qui ci sia gente capace di fare un colpo di Stato. E poi il testo è pieno di omissis, come si fa a indagare? A intuito?»

    Alberto attese che l’eco delle parole si estinguesse nella cornetta. «Forse è come dici tu, anzi, sarà proprio così e anch’io sono il primo a non crederci. Però sappi che i colpi di Stato si fanno con chi hai a portata di mano. Non esistono Battaglioni perfettamente addestrati per i colpi di Stato, tantomeno nell’Arma. Pensi che Mussolini abbia avuto gente capace? Ha avuto il momento favorevole e un manipolo di manovalanza senza scrupoli.»

    «Non vedo altri Mussolini in giro.»

    «Ma di manovalanza ce n’è tanta. E di apprendisti presuntuosi pure. Ma prima ancora, c’è la paura del complotto, e la paura dei politici di farsi cogliere impreparati, di essere accusati. È questo che in realtà tutti temono.»

    «Già. E quindi facciamo commissioni di inchiesta su cose vecchie così intanto non ci accorgiamo di quelle nuove.»

    Alberto fece uno sbuffetto. «Dai dai, lavora tranquillo e vedrai che non succede nulla.»

    Riagganciò. Se non altro l’amico aveva il potere di farlo riflettere.

    Sabatino uscì dalla palazzina principale e attraversò il cortile. La prassi voleva che qualsiasi attività informativa iniziasse dall’Archivio Centrale, posto in un’altra palazzina interna alla caserma. La porta era chiusa. Il cartellino attaccato diceva che era ancora in orario di apertura. Abbassò la maniglia e aprì. Non c’era nessuno. Era in corso una delle pause caffè o sigaretta. Il portacenere era pieno di cicche, una ancora fumante, ed emanava un odore stantio più forte di quello dei mucchi di fascicoli infilati negli alti scaffali posti alle spalle del bancone dell’operatore. Sabatino si appoggiò alla ribaltina, attese un po’. Si guardò intorno. Tutti i cittadini di Roma, più o meno, erano censiti lì meglio che all’anagrafe. Nascita, provenienza, lavoro, famiglia, amicizie. Centinaia di migliaia di incartamenti, uno per ogni persona, azienda, partito politico, sezione periferica, ente, circolo, all’interno dei quali andava a finire traccia di qualsiasi attività svolta. Molti pensavano che fosse un retaggio del fascismo, quanto mai inviso a politici sempre più irriverenti che temevano il controllo dei cittadini e la manomissione delle libertà fondamentali. Ah, che errore, pensava Sabatino, scambiare l’apparenza per la sostanza. Non erano gli inesistenti fascicoli dell’Ovra a picchiare e far ingurgitare l’olio di ricino. Non ne avevano bisogno. Qui c’era un elenco di dati e dati che sarebbero serviti solo a trovare prima e meglio un indirizzo, un telefono, un contatto. Come avrebbero dovuto fare le indagini, secondo quei fantasiosi complottisti? Mandando cartoline ai delinquenti e invitandoli a confessare?

    Una copertina sporgeva da sotto altre tre o quattro identiche, appoggiate su un tavolo di smistamento per essere rimesse a posto o in attesa di chi doveva ritirarle. Era di color rosa pallido e non troppo consumata, ciò voleva dire che era il fascicolo di un militare dipendente con pochi anni di servizio. Aveva un che di familiare e attirò la sua attenzione. Mise a fuoco il numero, 18146P. Era il suo fascicolo personale, ed era fuori posto. Era ovvio, pensò, l’avevano appena trasferito e un aggiornamento era in arrivo o era appena stato fatto. Una celerità inusitata. Controllò alle sue spalle, non si sentivano passi. La estrasse e la aprì distratto. L’ultimo atto, infatti, era il trasferimento di quella mattina. Per urgenti motivi di servizio, c’era scritto, cioè la motivazione standard valida per qualsiasi situazione. Sentì un pizzicore rabbioso alla bocca dello stomaco. Trent’anni dopo, quel pizzicore sarebbe mutato in gastrite, ma Sabatino ancora non poteva saperlo. Sfogliò ancora all’indietro. Un paio di trasferimenti, l’esito finale dei voti alla Scuola Marescialli, il concorso, la domanda di arruolamento con date, esito e ordine di incorporamento. Non c’era nulla, nessun segreto, solo grigia prassi. Nessun appunto a matita infilato, nessuna traccia di chi l’aveva con un pizzico di cattiveria messo in partenza a sua insaputa. Le carte erano in ordine ma l’iter accelerato tradiva l’intenzione di toglierselo di torno durante quella breve licenza. Stava ancora rileggendo daccapo con maggior attenzione quando la voce alle sue spalle lo colse di sorpresa.

    «Cosa stai facendo?» Disse Giacinto, l’appuntato addetto. Guardò lui, poi la pratica, poi di nuovo lui. «Ci vuole l’autorizzazione per consultare i fascicoli, non lo sai?»

    «È il mio fascicolo personale. E poi l’ho trovato qui sopra.»

    L’appuntato lo tirò a sé, lo controllò e lo chiuse. «Non ti ricordi quando ti sei arruolato e perché?»

    Sabatino deglutì. Un’ombra gli passò sulle pupille per un attimo e un lieve rossore gli apparve sulle gote. «Devo identificare queste persone.» Gli passò l’elenco della Commissione.

    Giacinto lo guardò come se avesse voluto aggiungere qualcosa ma il volto di Sabatino si era indurito. Soffocò l’intenzione e si concentrò sul foglio. «Anche tu sei al lavoro su questo? Quanto tempo mi farete perdere?»

    «Se ce l’hai già, ripasserò più tardi.» Riprese il foglio e se lo infilò in tasca, mentre l’altro si mordeva leggermente il labbro.

    Uscì e camminò fino all’angolo opposto del cortile. C’era una panchina di ferro le cui zampe affondavano in parte sulla terra battuta tra qualche ciuffo d’erba, sotto un vecchio pesco sofferente. Sedette, prese il pacchetto di sigarette e ne accese una. Si accorse che la mano gli tremava. Cercò di calmarsi e aspirò con forza due ampie boccate. Sapeva perché si era arruolato, ma ogni volta che qualcuno glielo ripeteva gli metteva il dito nella piaga. Nel suo certificato di nascita, riempito con grafia ottocentesca, la sola cosa che gli balzava subito all’occhio era la sigla NN. Niente e nessuno, la interpretava lui con spietata fantasia, niente passato e nessun futuro. Nell’elenco dei congiunti che ogni aspirante all’arruolamento doveva fornire, avevano inserito a sua insaputa il nome del direttore dell’orfanatrofio. Era logico. Il direttore era la cosa che più assomigliava a un congiunto, nel suo caso. Una ghettizzazione burocratica che lo inchiodava per sempre a quel vuoto incolmabile. Il turbamento che viveva nelle poche occasioni in cui il certificato gli era capitato davanti, gli oscurava l’attenzione, e lo costringeva a toglierselo subito dalla vista senza neanche la forza di leggerlo. L’aveva capovolto ed era rimasto a guardarne il rovescio bianco, crettato dalle battute riflesse della macchina per scrivere e macchiato qua e là, dove l’inchiostro era trapelato.

    Una legge speciale aveva consentito agli orfani di guerra di avere un accesso facilitato, per non dire sicuro, nella Pubblica Amministrazione. Così il Governo aveva risolto, in un colpo solo, gran parte delle questioni delle migliaia di bambini abbandonati alla fine del conflitto e le carenze di organico nei rinati corpi di Polizia, che non potevano continuare a essere occupati solo da ex-resistenti o ex-fascisti, come era successo nel primo dopoguerra. Tutti i partiti si erano trovati più o meno d’accordo, la sinistra per l’azione sociale benemerita e la destra per la possibilità di rimanere presente all’interno delle istituzioni.

    Sabatino era stato uno di questi. La mamma era morta di parto in un ospedale di periferia e lui fu associato all’orfanatrofio. Altri erano andati e venuti, adottati. Lui era rimasto lì, preso a benvolere un po’ da tutti. Aveva studiato, si era in un certo modo sentito sempre al sicuro anche se non aveva mai potuto sapere altro sulle sue origini. Non lo sappiamo neanche noi, gli rispondevano, non sei contento qui? Era contento ma non lo era, quel rovello gli insisteva dentro. L’idea del rifiuto, della disgrazia, della sfortuna, del destino immotivato che gli era capitato senza il minimo consulto, non l’aveva più abbandonato. Guarda che nessuno si sceglie il suo destino, gli ripetevano le istitutrici, se ti arrabbi con la vita perché non si presenta come vuoi tu, sei destinato a soffrire. E così era andata.

    A diciassette anni si era arruolato, ma il tarlo non aveva smesso di lavorare e gli altri pensavano che fosse solo un piantagrane, un polemico, una testa di minchia, come etichettavano in gergo nell’ambiente. Ogni volta che non gli andava bene qualcosa, e succedeva spesso, si rendeva conto che stava lottando con chi l’aveva abbandonato e non con i colleghi che aveva di fronte in quel momento. I superiori severi erano il padre assente che non aveva mai conosciuto. Come si fa a soddisfare le aspettative supposte e per questo incolmabili, di un padre che non è mai esistito? Mentre lui non riusciva a uscire da questo incastro viziato, gli altri non avevano tempo di pensare ai fatti suoi avendo già i loro da curare. Nonostante tutto, la curiosità che aveva sviluppato nel tentativo di comprendere quel che gli era accaduto, gli era stata utile anche nel servizio, ricavandone un metodo efficace oltre le consuetudini. Ma quando il carattere, o le lacune ataviche, tornavano a galla, era difficile evitare lo scontro. In un ambiente dove tutto, a torto o a ragione, è per necessità regolamentato, era stato sempre proibitivo per lui trovare un varco per le sue insopprimibili tensioni interiori.

    Aspettò ancora una manciata di minuti e poi decise di muoversi. Fece qualche passo incerto verso l’ufficio, si fermò e controllò l’ora. Decise che per quel giorno poteva bastare. Visto che l’avevano appena mandato a fare le ricerche, sapeva che non l’avrebbero cercato tanto presto e poi aveva voglia di rifiatare dopo l’ennesimo rospo ingoiato con quel trasferimento inatteso. Non che gli fosse dispiaciuto lasciare l’indagine che stava seguendo alla Sezione Investigativa, biscazzieri dalla vita randagia che dormivano di giorno per passare ogni notte a puntare denaro che non avevano e a indebitarsi con i peggiori strozzini tiberini, ai quali poi erano costretti a piegarsi ripagandoli con somme spropositate, con atti non menzionabili e qualche volta con la vita. Gentaglia infame e senza remore, per la quale il colpo a cocincina o zecchinetta valeva più della famiglia, della moglie e dei figli disgraziati che attendevano a casa. Solo che il colpo non arrivava mai e, quando succedeva, era solo il prologo di ulteriori debiti e sofferenza.

    Sabatino sopportava male tutto quello spreco. Lui che era sempre vissuto solo, non poteva vedere quei mentecatti attendere in sala d’aspetto dopo ogni retata, donne comunque fedeli che venivano a riprendere quei relitti ingrati e baciati dalla sorte. Già, baciati e fortunati, perché questo era quello che gli si parava davanti. Per Sabatino non c’era paragone tra la carenza d’affetto che aveva patito lui all’istituto, dove l’attenzione era ripartita tra decine di ospiti che cambiavano in continuazione, e quei rifiuti che non sapevano apprezzare quel che avevano. E tutto, per loro, finiva in una scrollata di spalle, fino alla volta successiva.

    Uscì veloce dalla porta carraia. Alle spalle sentì i rimbrotti del piantone, perché una delle tante regole ferree lo vietava. Da lì solo mezzi a motore, il dubbio c’era casomai per le biciclette che non avevano il motore ma non erano persone. E per la sua Vespa Primavera parcheggiata proprio di fronte, davanti al bar del Totocalcio. Era il mezzo migliore per spostarsi tra le strade sempre intasate di Roma. Tutti i ragazzi della sua età ne avevano una, in genere regalata dal papà, ed era questo il motivo taciuto per cui se l’era comprata anche lui. Non gli aveva mai dato fastidi, anche se sarebbe stata ora di controllare un insistente cigolio della frizione, una sosta obbligata che aveva rimandato già troppe volte. Claudio, il ragazzo dell’officina che gliel’aveva venduta, era appassionato di motori e glielo ricordava ogni volta che lo incontrava, scuotendo la testa.

    Sabatino attraversò la strada, entrò, ordinò un caffè e sedette al tavolino. La radio stava mandando Solo tu dei Matia Bazar come succedeva cento volte al giorno. C’erano alcune schedine compilate a penna per le partite della domenica successiva. Chi le aveva abbandonate lì non era preoccupato che potessero diventare una possibile compilazione vincente. Il barista gli lasciò la tazzina e la zuccheriera. Sabatino mise una zolletta e mescolò. Era già più calmo. Come gli succedeva, alla forte agitazione seguiva un rilassamento, quasi una rassegnazione, e subito una sensazione di inutilità. Perché doveva sempre pensare al passato? Ma come faceva a pensare al futuro con quei ceppi che lo appesantivano? E quale futuro, poi. C’era quella ragazza, era troppo piccola, poi l’altra, era troppo grande. Tutte erano troppo o poco qualcosa. Aveva provato a fare come vedeva fare a molti suoi colleghi. Mettersi insieme, andare a convivere, fare dei figli. C’era chi ne era felice e chi se ne lamentava dopo poco. La sera lo vedevi di nuovo in giro per locali, dopo un po’ a mangiare a mensa. Infine con un’altra, finché lasciava la moglie e andava a stare con quella nuova. Per qualche tempo spariva ancora, ma prima o poi ritornava e il ciclo si ripeteva, sempre più breve, tra l’altro. Il trucco era accettare le cose, pensava Sabatino, anche se lui non ci riusciva ed era fermo al primo giro.

    Infilò la chiave nel cruscotto, la ruotò e diede un colpo secco alla pedivella. Diede la sgassata. Il motore andò su di giri con un forte rumore meccanico e lo scampanellio tipico della marmitta, e tornò subito dopo mansueto al minimo in un fidato borbottio. Salì e partì. Il vento fresco della giornata di primavera gli dava sollievo come se portasse via tutti i pensieri negativi. Chi lo vedeva passare rimaneva colpito dai suoi lunghi capelli castani, e capitava che anche le ragazze sorridessero e ammiccassero gomitate complici fra di loro. Questo lo rasserenava. Tutto sommato non era così male. Ma l’inquietudine era sempre presente e i momenti di rilassatezza brevi. Perché non riuscisse a lasciarsi andare o perlomeno a sospenderla quando le circostanze gli offrivano un momento di pausa, era un interrogativo irrisolto al pari degli altri, e allo stesso modo non riusciva a comprenderne il funzionamento.

    A dire la verità, c’era una ragazza che lo faceva sentire al sicuro, mentre diffidava dell’attrazione istintiva. Come si fa a dare fiducia a qualcuno che non conosci, a stipulare un patto duraturo? Per lui era una cosa misteriosa. Ma con Katia aveva iniziato qualcosa, bastava non pensare a lei come a una fidanzata o cose del genere, ma come a una confidente, un’amica, una persona vicina. Per intessere una relazione doveva comportarsi come se non la stesse avendo, una cosa assurda solo a pensarci, e l’ennesimo cruccio. Questo aveva meno risposte del resto e alla fine, impotente, scacciava il pensiero. Non poteva essere quella la soluzione, e si accontentava di una pizza o di un cinema in attesa di

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