Monsieur Messina
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Anteprima del libro
Monsieur Messina - Salvatore Savoia
dopo
1. La gita aziendale
Su un aereo per Parigi, autunno 1980
La sistemazione a bordo prima del decollo sembrava non aver mai fine. La povera hostess aveva un bel da fare per convincere tutti a sedersi, a spegnere le sigarette e a rimuovere dal corridoio pacchi, sacchetti e borsoni che quel gruppo si ostinava a tenere in mezzo ai piedi. Faceva anche fatica per allontanare le mani che, come per caso, si trovavano fra le sue ginocchia quando passava lungo il corridoio.
«Mademoiselle, è francese francese lei?».
«Signorina, sono cannoli freschissimi: ne assaggi uno! Se li sogna a Parigi, questi».
Infine era venuto il momento della partenza, con tanto di applauso al comandante. Dal fondo del vecchio DC 9 partì subito il suono di una chitarra che uno dei passeggeri era riuscito a nascondere alla vista della sventurata hostess.
Per venti minuti si udirono, tra i mugugni dei passeggeri non appartenenti alla comitiva, canti da gita scolastica e stornelli da tradotta militare che il piccolo coro, formato da uomini e donne di varie età, si era da tempo prefissato di imporre ai malcapitati, alternando le canzoni con battute che, nel frastuono, pochi capivano ma alle quali tutti ridevano. Ma ve lo ricordate quando la gonna della Pecoraro…
, …e quella volta in cui il Direttore non trovava gli occhiali …
.
L’aereo aveva lasciato Palermo; viaggiava ormai tranquillo fra le nuvole, e qualcuno dei mattacchioni, stanco di fare casino, guardava dai finestrini, concentrandosi per capirci qualcosa di quella bambagia bianca che si scorgeva dietro i vetri.
«Niente, non lo capirò mai come fa questo bestione di aereo a sollevarsi in aria».
«No, la devi finire con questi discorsi – lo interruppe il vicino – che portano attasso».
Passò così, fra doppi sensi, allusioni sguaiate e cori alpini, la prima ora di volo. Si erano tutti placati quando la voce del comandante annunciò che l’arrivo a Parigi sarebbe avvenuto dopo mezz’ora, accennando imprudentemente alla temperatura locale, di pochi gradi superiore allo zero. Qualcuno degli scalmanati di prima fece di colpo un’espressione preoccupata. La cosa si faceva seria: tra i partecipanti a quella gita aziendale ci fu chi temette di essersi imbarcato in un’avventura ad alto rischio o in una pericolosa spedizione scientifica in Groenlandia.
Pietro Messina era sul fondo dell’aereo, seduto all’estremità di una fila vuota, vicino al corridoio. Non sopportava il posto vicino al finestrino ed abitualmente lo cedeva a chi invece lo considerava una postazione privilegiata.
Aveva sofferto in silenzio, nella prima parte del volo, per le esuberanze dei suoi colleghi, dei quali si vergognava, anche se non voleva che loro lo capissero. Aveva in compenso fatto un rapido segno della croce al momento del decollo, camuffandolo con un normale gesto di sistemazione dei capelli e con un paio di sapienti spolveratine ai baveri del cappotto.
Messina era quello che era, ed era condannato da sempre a porsi domande del genere che ci faccio qui
proprio nel momento in cui non poteva andar via. Mai che avvenisse prima, così da avere la possibilità di non trovarcisi, nel posto sbagliato.
Una settimana a Parigi, ad un prezzo stracciatissimo che comprendeva la sistemazione in alberghi di seconda categoria superiore (è praticamente la nostra prima
gli aveva detto il collega che organizzava gite ed escursioni) con trattamento di mezza pensione e persino un biglietto per uno spettacolo in uno dei più noti locali notturni.
Meraviglia delle meraviglie, il biglietto comprendeva anche mezza bottiglia di champagne a persona.
C’era stato da adolescente, a Parigi, con i suoi, vent’anni prima. Un viaggio interminabile in automobile, attraversando quasi tutte le regioni d’Italia, dovunque ci fossero dei parenti dai quali ci si faceva ospitare. Quella piccola Opel che si inerpicava lungo le Calabrie, sostando a Paola, un paesino che la mamma teneva in gran conto per la devozione ad un suo santo, poi a Napoli, a Roma, a Firenze, a Cremona, in visita a fiumi di parenti, fino a Torino, dove erano rimasti vari giorni a casa di una zia amatissima. Quello di andare a Parigi era stato un desiderio, invece, del padre di Pietro, la cui famiglia ne aveva coltivato un mito da cartolina, fatto di ricordi di Versailles, con i suoi noiosi saloni, di pallose visite al Louvre, ma soprattutto di serate con Champagne e strip-tease, secondo un copione banale, scialbo e comunque dimenticato da tempo. Negli anni sessanta a Parigi già si parlava d’altro, si seguivano altri miti, del tutto sconosciuti dai genitori di Pietro, che niente sapevano e volevano sapere di Cahiers du Cinéma o di Sartre. Meno male che a quei tempi c’era ancora De Gaulle, così francese e così eterno da garantire soddisfazioni per almeno tre generazioni di sognatori. Quel viaggio era stato una grande noia per Pietro che si era lamentato di tutto, dalla cucina alle imposizioni culturali, pur così lievi, di sua madre mentre suo padre, cui veniva rovinato giorno dopo giorno il bramato giocattolo, malediceva tutto e tutti ed assicurava che mai, mai più si sarebbe trascinati dietro figli ingrati e rompicoglioni.
A tutto ciò, tanti anni dopo, si ritrovò a pensare Pietro, che aveva accettato, per una volta, di aderire ad una gita tra colleghi, che sperava gli consentisse di riparare a quella rovinosa esperienza adolescenziale, risarcendo pure suo padre che frattanto non c’era più.
O almeno, questo era stato l’impegno assunto con le statue dell’Olivella, lungo la faticosissima ed ansiogena preparazione dei bagagli.
In pullman, malgrado le intrusioni di qualche collega che tentò di coinvolgerlo nelle proprie fantasticherie incentrate, ovviamente, sulle follie piccanti di imminente realizzazione, Pietro si immerse nella contemplazione dal finestrino della città che si avvicinava e che, malgrado l’ora tarda, era piena di luci e di traffico così come ci si aspetta da Parigi.
Il film personale di Pietro era cominciato e lui iniziò a goderselo in pace, indifferente ad interruzioni pesanti come quella del dottor Imburgia dell’ufficio mutui che pretese di mostrargli, aprendo un lembo dei pantaloni, la sacca segreta porta valori, cucitagli sugli slip dalla accorta moglie. Una scena raccapricciante.
L’albergo riservato al gruppo era senza infamia e senza lode. Pietro lo aveva immaginato peggiore. Posto su uno dei grandi boulevards, vicino alla Gare du Nord, sembrava essere stato creato per la gestione e l’alimentazione di un sogno parigino a buon mercato dotato di confort all’italiana. Per gli italiani, probabilmente assai abituali in quell’albergo, la presenza luminosissima della limitrofa pizzeria Funiculì Funiculà costituiva un segnale rassicurante, quasi un’ambasciata dove rifugiarsi nel caso di sommosse.
Le lunghe operazioni di assegnazione e di sistemazione delle camere si conclusero dopo varie difficoltà e lamentele verso le dieci, un orario nel quale il ristorante dell’albergo si accingeva a chiudere. Alla proposta di accontentarsi di piatti freddi aderirono solo alcuni dei nuovi arrivati, quelli che si mostravano già provati come se avessero passato una settimana a bordo di una scialuppa, mentre un bel numero di colleghi si precipitò, senza ritegno, da Funiculì Funiculà. Qualche scapolo, malgrado il freddo ed il buio non proprio da Ville Lumière del quartiere, azzardò la proposta di un giretto in centro, con la scusa di fare una ricognizione del territorio.
Nel confezionare il proprio viaggio su misura, Pietro Messina aveva cercato di ritrovare e mettere in ordine i suoi fantasmi da compagnia, quelli letti sui libri e quelli adorati al cinema, cosicché evitò di dare ascolto alle urla dei colleghi sulle scale ed alle pietose discussioni sulle stanze assegnate (io sono pur sempre un vicedirettore: trovo inconcepibile che mi abbiano dato una stanza con vista sui cessi
, faceva uno; ed io – replicava un altro – secondo voi, dovrei dormire in una matrimoniale con Mancuso, quella montagna di lardo?
)
Cercando di non farsi notare dal gruppo dei lamentosi, Pietro pensò che sarebbe stato indispensabile tagliare la corda ed unirsi agli scapoli in fuga. Il primo dei suoi fantasmi adorati lo aspettava già sulla soglia dell’albergo: una vera Citroën DS, il taxi che avrebbe portato il gruppetto in centro. Salì convinto che l’auto fosse nera, come deve essere una DS, senza accorgersi che si trattava invece di una orribile bicolore malconcia con le fiancate giallo banana; per di più al volante non c’era Jean Gabin ma un algido biondo, un polacco o un russo, chissà. Non si poteva avere tutto dalla vita.
Si fecero lasciare allo Châtelet, dopo il compromesso raggiunto con il tassista, che era, è vero, sgarbato come d’uso, ma era parzialmente giustificato avendo ricevuto dai suoi passeggeri simultaneamente la richiesta di recarsi al Louvre, al boulevard Saint-Michel, sul lungosenna ed in Rue de Rivoli, le mete che i quattro prediligevano. Per di più si erano fatte le undici, orario in cui a Parigi comincia ad essere difficile trovare un ristorante aperto. Solo locali notturni. Il tassista, da parte sua, non smetteva di proporre loro café equivoci.
«Non fidatevi dei tassisti parigini: sono d’accordo con quelli dei locali. Una volta mio cognato…» proclamò Di Marco dell’ufficio del personale, ma nessuno volle ascoltare il finale della storia.
«E se andassimo in quel locale che mi ha indicato il direttore Bellanca? Mi ha assicurato che ai tavoli servono ragazze in topless» propose un altro dei quattro.
Fu troppo per Pietro che capì di colpo come i suoi colleghi fossero implacabilmente orientati verso un certo tipo di serata. Pur sapendo che sganciarsi dal gruppo avrebbe comportato una lunga serie di prese in giro, tentò solo di contrastare l’orientamento prevalente, osservando che si sarebbero fatti spennare per guardare un paio di minne.
Osservazione inopportuna (oltre che ipocrita) la sua, propedeutica al coretto di risate sguaiate che inevitabilmente raggiunse Pietro, stanco ed affamato, allorché si infilò con passo deciso nella Brasserie du Châtelet, l’unica aperta in piazza. Per un secondo vide ancora dalle finestre della veranda il gruppo di amici esitante sulla destinazione per poi sparire nell’ombra.
E Parigi aprì a Pietro le sue magie, pure dai vetri sporchi della brasserie. Poco importava che il cameriere gli avesse servito con noia bistecca e patatine fritte guardando l’orologio e farfugliando incomprensibili insulti, ed a poco valse pure lo sguardo seduttivo di una rossa di età avanzata che sembrava appena uscita da un set di Marcel Carné, insistente in una disperata opera di abbordaggio del povero Messina dietro le finestrelle appannate del locale.
Era mezzanotte quando uscì,