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La realtà romanzesca
La realtà romanzesca
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E-book312 pagine4 ore

La realtà romanzesca

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Info su questo ebook

Milioni di lettori hanno aspettato con ansia, settimana per settimana, per quasi settecento settimane, di leggere la nuova puntata della rubrica La realtà romanzesca che dal 1964 al 1977 Mino Milani ha tenuto sulla “Domenica del Corriere”. Ora, per la gioia di quanti ripensano con nostalgia a quelle storie meravigliose e a favore di tutti coloro cui la giovane età ha impedito sinora di goderne, ne ripubblichiamo un’ampia scelta.
Mino Milani prende spunto ogni volta da un episodio realmente accaduto per consegnarci una storia fantastica, alla quale l’esito sorprendente non toglie verità e anzi attribuisce una tinta drammatica e una dimensione in qualche modo mitica. Le affascinanti storie della realtà romanzesca ripropongono infatti (in versione moderna, dove protagonista non è un eroe tragico ma uno qualsiasi di noi) il più classico dei temi, quello dell’uomo a confronto col fato, ovvero con forze che lo trascendono e lo collocano, magari per un solo ma decisivo istante, al centro del grande, imperscrutabile gioco del destino. Il quale, per quanto minaccioso, finisce per rivelarsi, nei sapienti racconti di Mino Milani, un provvidenziale alleato: capace di offrire al protagonista (all’ultima riga del racconto: Milani è un maestro della suspence) l’inattesa e romanzesca via d’uscita da una situazione apparentemente senza speranza di salvezza.
 
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2019
ISBN9788899415617
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    Anteprima del libro

    La realtà romanzesca - Mino Milani

    Benvenuto

    «MEZZO MINUTO»

    Rio de Janeiro, 12 giugno 1955

    Il professor Gerard Jullien, direttore dell’Istituto Superiore di Tossicologia, infilò i leggerissimi guanti di gomma, e: – Siete pronta, Anna? – chiese.

    La ragazza seduta al grande microscopio alzò il volto pallido, un po’ stanco: – Sì, professore, – rispose. Jullien sorrise, e andò zoppicando verso di lei.

    Mi spiace dovervi trattenere fuori orario, – disse, – ma vorrei cominciare il lavoro stasera.

    – Oh, professore, – esclamò la ragazza, alzandosi, – per me è un grande onore assistere uno scienziato come voi! E poi – aggiunse, sorridendo – c’è il temporale, ed io ho paura del tuono...

    Jullien sorrise. Era contento della sua nuova assistente. Anna Sartori non aveva che vent’anni, ma era assai ben preparata. E non aveva paura dei veleni.

    – Ma come, mia cara? – disse bonario il professore – lavorate fra ragni e serpenti velenosi, e avete paura del tuono?

    – Anche della pioggia, – ribatté la ragazza. – Vedete? Ho i sandali. Se uscissi, mi bagnerei. E poi, – aggiunse, seriamente, – voglio vedere « Mezzo minuto ».

    In quel momento, un tuono rimbombò fragoroso e la pioggia scrosciò furiosamente contro la grande finestra del laboratorio. Jullien prese una lunga pinza d’acciaio dalle estremità a spatola, e si diresse verso un tavolo.

    – Durante la prima guerra mondiale – disse – c’erano tuoni più pericolosi di questi... cannonate, mia cara, e... – tuonò ancora, e la fanciulla sussultò; il professore scosse il capo: – Eh!... Parlo sempre di guerra, io, mentre dobbiamo lavorare. Su, Anna. Venite qui.

    Anna ubbidì; Jullien tolse il coperchio di una grande scatola di vetro, manovrò con la pinza: – Ecco qui il nostro amico – disse; fra le spatole, vibrava ora un piccolo serpente giallo e verde. Il professore lo guardò, corrugando la fronte: – Guardatelo, mia cara. È lui: il grande assassino. – Come in una rabbiosa risposta, il rettile spalancò la piccola, mortale bocca e la lingua nerissima saettò fra i denti aguzzi.

    – Il nostro amico protesta, – mormorò Jullien, – forse sospetta che vogliamo cercare una medicina che metta rimedio ai suoi delitti.

    – Questo dunque – chiese Anna – è... «Mezzo minuto»?

    – Bah, per ora lo chiamiamo così. È un nome che gli sta bene: un uomo morso da lui, impiega a morire più o meno trenta secondi... Ma su cara, vediamo un po’ di fargli sputare il veleno. Avete la fialetta?

    – Sì, professore.

    – Bene, allora prendete voi la pinza: badate di tenerla con decisione, ma senza stringere troppo; potreste soffocare il nostro amico.

    Anna si fece coraggiosamente avanti, prese la pinza. Era la prima volta che lo faceva. Il serpentello ebbe un guizzo rabbioso, poi tornò immobile. Nei suoi piccoli occhi brillava come una fiamma d’odio incredibile. La ragazza era pallida, un poco sudata: fissava affascinata la testa del rettile. Ma le sue mani non tremavano. Jullien prese la fialetta: – Ora gli avvicinerò la fiala alla bocca, e lui morderà. Siete pronta? – La ragazza annui, il professore allungò la destra...

    Fu a questo punto. Fu una beffa del destino.

    Il fulmine cadde squarciando la notte, cadde a dieci passi dalla finestra del laboratorio, che, per un attimo, non fu che uno schermo di fuoco abbagliante; un’esplosione secca, terribile, assordante scosse il cielo, fece tremare l’edificio, tintinnare i vasi di cristallo del laboratorio. Anna urlò di spavento, ed una oscurità fitta, densa e totale piombò nella stanza, e su tutto il quartiere. Tutto fu cancellato nella tenebra.

    – Anna, – esclamò subito Jullien, – lo tenete ancora?

    Nulla.

    – In nome di Dio, Anna, lo tenete ancora?

    Venne come un remoto ansito: – No...

    Risuonò nel buio la voce pacata di Jullien: – Allora, cara, cercate di rimanere perfettamente immobile. Il nostro piccolo amico può essere accanto a noi.

    Venne, distinto, il rumore dei denti della ragazza che battevano, sotto la morsa gelida dell’orrore; e poi, la sua voce alterata: – Lo sento, professore... – balbettò – vicino al mio piede destro... Vicino al mio piede, vicino al mio piede...

    – Non v’è nessun pericolo – disse dopo qualche istante Jullien – se restate ferma. Fino a quando non tornerà la luce non siamo in grado di fare assolutamente nulla.

    Restare immobile. Perfettamente immobile. Il serpentello giallo e verde era là, carico di morte. Era lui il padrone, adesso. Restare perfettamente immobile. Anna sentiva lunghi brividi che la scuotevano; sentiva il sudore colarle in stille ardenti sul corpo; sentiva nelle gambe una incredibile forza, una volontà possente di fuga; sentiva il cuore battere ora convulsamente, ora lentamente. Sentiva le ginocchia piegarsi. E un urlo spaventoso nella gola...

    ... E accanto al piede quella presenza mostruosa.

    Si controllò. Ora c’era un silenzio assoluto. Come se il temporale, dopo aver lanciato quella poderosa sfida, si fosse spento. La voce di Jullien:

    – Mia cara – disse, pacata – non v’ho mai narrato di come fui ferito alla battaglia della Marna?

    La ragazza ebbe come l’impulso di gridare che non le importava nulla, che amava la vita, e non voleva morire: sentiva la coscienza andare e venire, come un torbido riflusso. Si controllò nuovamente, serrò i denti, mentre Jullien continuava a parlare.

    Passarono così novanta minuti.

    Poi la luce tornò e tutte le lampade del laboratorio splendettero assieme.

    Jullien guardò. Il serpente era là, come un’assurda, brillante « S ». Sfiorava il piede praticamente nudo di Anna. Teneva la testa eretta; sembrava in attesa. Sapeva che, prima o poi, qualcosa si sarebbe mosso.

    Il professore guardò la ragazza. Il suo volto era colore della cenere; sulla tempia destra, fra la chioma corvina, brillava ora una ciocca di capelli bianchissimi. Le labbra, tese in una smorfia grottesca sui denti serrati, non erano che due linee violacee, e gli occhi, gelati dall’orrore, avevano la fissa immobilità della morte. Jullien disse, severo: – Siete la più coraggiosa donna del mondo, Anna. Meritate di vivere. E vivrete.

    Sapeva cosa fare. Riprese: – Adesso fatevi coraggio e restate ancora immobile, qualsiasi cosa io faccia. Può darsi che io vi debba colpire; in questo caso, lasciatevi andare indietro. Pregate, se volete.

    Il professore strinse le mascelle; e, mantenendo il resto del corpo perfettamente immobile, prese lentamente a spostare in avanti il piede destro: adagio, centimetro per centimetro, adagio, con una lentezza esasperante. La sua gamba si tendeva piano. La scarpa lucida e nera s’avvicinava, quasi impercettibilmente, al rettile immoto.

    Anna si rese conto, con un sussulto, di ciò che stava accadendo; guardò il piede del professore che si muoveva, guardò il capo bianco chinato a terra, e: – ... Professore... – balbettò. Lui non parve udirla; continuò a muovere il piede, v’era un rumore leggero, qualche granello di polvere che strideva sotto la suola...

    Il piede era a dieci centimetri dal serpente, ora, e Jullien continuava a spostarlo lentamente, sicuramente; il suo corpo tremava nella tensione...

    Ed il rettile s’era accorto di quel movimento. Un sibilo leggerissimo, e la testa piatta s’eresse piano; Jullien parve esitare, fermarsi, poi riprese la sua manovra, portò il piede fino a cinque, quattro centimetri dal serpente...

    Accadde. Fu la frazione di un secondo. Il rettile fischiò, saettando a colpire; Anna gridò, e Jullien, alzando fulmineamente la destra, la spinse brutalmente indietro. La ragazza non cadde, s’appoggiò a un tavolo, rovesciando alcuni vasi, e vide con incredibile orrore il piccolo mostro giallo e verde avvinghiato alla caviglia del professore, lo vide affondare i denti nella gamba, e le parve che quella bocca fosse smisuratamente, spaventosamente grande...

    – No! – urlò, – No! No! – ed il suo urlo stridulo riempì l’aria, e le sue mani s’affondarono nei capelli, strappandoli. Ma...

    Il fiato le si mozzò di colpo.

    Tacque annichilita.

    Jullien teneva il serpente con la pinza. Così, semplicemente. Lo aveva sollevato, e lo stava riponendo nella scatola di vetro.

    Poi alzò il viso pallido sulla ragazza che tremava.

    – Oh, mia cara, state calma, – disse, – vi prego. Tutto va bene... – esitò, poi: – Quando fui ferito alla battaglia della Marna, e m’amputarono la gamba destra, – soggiunse, – mi disperai, e piansi molto... Ma ora, – batté la mano sulla coscia, e ne venne un sordo rumore, – ma ora sono felice di avere una gamba di legno...

    INTERVENTO AD ALTA QUOTA

    Monte Eagle (U.S.A.), 3 dicembre 1964

    Mary glielo aveva detto almeno una dozzina di volte: – Fattela togliere, Rennie. Si tratta di un’operazione di pochi minuti, e di una settimana d’ospedale al massimo. Fattela togliere, e non pensarci più.

    – Non ci penso affatto, Mary, – aveva risposto lui, – i miei sono disturbi da niente. Mai farsi mettere i ferri addosso. Se un bel giorno mi deciderò, zic–zac, mi farò tagliare questa maledetta appendice, e basta!

    Se un bel giorno mi deciderò, certo!

    Rennie posò la fronte sudata sul braccio. Respirò a fondo e il dolore là, a destra, sul ventre, si fece più acuto. Più maligno.

    Se un bel giorno mi deciderò... Era stata l’appendicite, a decidersi. E non aveva scelto un bel giorno per bussare alla porta. E neppure un bel posto. Aveva scelto la parete ovest dell’Eagle, sulle Montagne Rocciose, il pomeriggio di un rigido giorno d’inverno.

    Ora Rennie era là, su di una cengia, con il ventre che faceva male, a 2.000 metri d’altezza, nel cuore d’una regione selvaggia.

    Avevano deciso – lui e Dick, il suo collega d’ufficio – di scalare l’Eagle tanto per passare il week–end. Era un’escursione per nulla difficile: secondo grado. Erano partiti dall’albergo, cinque o sei miglia distante, e avevano preso a salire per le rocce nere e scintillanti. Obiettivo: il rifugio Eagle, sulla cima della montagna.

    Rennie era partito in forma perfetta: la sera prima aveva provato un leggero senso di nausea, ma aveva subito pensato alla birra ghiacciata che aveva bevuto. Durante la marcia d’avvicinamento e la prima fase dell’ascensione, tutto era andato bene. Era stato un paio d’ore dopo aver mangiato che il dolore s’era fatto sentire – lieve, dapprima, diffuso, ma poi sempre più acuto, e accompagnato da nausea, ancora, e da mal di stomaco. Rennie non aveva detto nulla, era andato avanti seguendo Dick. Aveva sperato che fosse, come sempre, un falso allarme: possibile che l’appendicite gli piombasse tra capo e collo così, sulla montagna? Ci sarebbe voluta una bella scalogna, no? Aveva continuato a salire, fingendo di non sentire, fingendo di non accorgersi del sudore freddo che gli aveva improvvisamente inzuppato la maglietta di lana. Ora gli faceva male anche la gamba destra. Sembrava divenuta di piombo.

    Salì, tirandosi su di roccia in roccia, camminando per brevi tratti nevosi, avventurandosi dietro al compagno sulle cengie.

    Attorno, il grande silenzio solenne. Il sole s’avviava al tramonto, e le cime delle montagne vicine brillavano come specchi. Dick andava sicuro; si volse, disse qualcosa ridendo; ed allora, arrestandosi: – Dick, – mormorò Rennie, – credo di non farcela

    Dick si fermò: – Che ti succede? – chiese, – sei scoppiato?

    Rennie levò verso di lui una faccia color cenere e Dick esclamò: – Accidenti!... Ma cos’hai?

    – Credo di avere un attacco d’appendicite, – ansimò Rennie. Il dolore era insopportabile, adesso. Dick, che si trovava avanti, tornò subito indietro. Erano su di uno sperone di roccia, innevato e scivoloso.

    – Rennie, stai male? Vuoi che ci fermiamo?...

    – Sì, se non ti dispiace... forse mi passa.

    – Ma certo che ti passa! Vuoi un po’ di caffè? Qualcosa di caldo?...

    – No, Dick, grazie... forse sta passando... – Rennie cercò di sorridere, e non vi riuscì. La nausea era terribile, e il mal di stomaco aumentava sempre più. Tutto il ventre doleva, e il dolore irraggiava là, da quel piccolo punto. Quando stese la gamba, Rennie non riuscì a trattenere un lamento. Dick si chinò su di lui: – Sei sicuro che sia appendicite, Rennie? – chiese.

    Rennie non rispose: – Stai calmo, cerca di rilassarti, – soggiunse Dick, – vedrai che passa.

    Non parlarono più. Rennie era teso, a sentire il dolore, come ad ascoltare una voce lontana. Non aveva dubbi. Sentiva una gran sete, un gran calore addosso; però, di tanto in tanto, rabbrividiva come di freddo.

    Restarono fermi per più di mezz’ora, e il sole continuava la sua inarrestabile discesa. Apparvero, lontanissime, le luci dell’albergo. Nelle piccole valli, perdute sotto la montagna, cominciarono ad addensarsi le ombre della sera.

    Rennie spasimava. Non s’era mai sentito così male. Palpitava sotto il dolore, come se tutto il suo corpo fosse ferito. Provava un risentimento bruciante contro tutto e tutti ed il risentimento era più forte della paura.

    Proprio in quel momento! L’attacco gli sarebbe potuto venire in ufficio, o per la strada, o in casa, invece aveva scelto la parete della montagna! Rennie aveva un’assurda voglia di protestare. Un attacco di appendicite in montagna! Chi era responsabile di quella scalogna? Chi?

    Stava là ad occhi chiusi. Doveva essere forte, ora. Quella poteva essere la sua morte. Probabilmente lo sarebbe stata. Non è una novità che l’appendicite acuta prelude alla peritonite; e che di peritonite, senza intervento, si muore.

    Si guardò attorno. Solitudine e silenzio. Probabilmente, l’ospedale più vicino era a trenta, quaranta miglia. Sarebbero occorse ore ed ore per arrivarci. Un giorno intero, forse...

    – Rennie, come va? – chiese improvvisamente Dick; era preoccupato: il giorno stava finendo. Rennie cercò coraggiosamente di sorridere. – Be’... non lo so, – rispose.

    Non è che te la sentiresti di andare avanti? Sai, si fa buio...

    Rennie puntò le mani sulla roccia: – Aiutami, Dick, – mormorò, – vediamo se... ce la faccio. – Sapeva che il buio sarebbe stato la morte. Non erano equipaggiati per la notte all’addiaccio.

    Dick lo aiutò, ed egli si mise in piedi mugolando di dolore. Gli girava la testa, aveva voglia di vomitare. Il ventre sembrava straziato da un artiglio di fuoco. Dick gli passò un braccio sotto l’ascella: – T’aiuto, Rennie, – disse piano, – il rifugio non è lontano, ce la possiamo fare, Rennie.

    Fecero qualche passo, e Rennie mormorò: – E una volta là?

    Dick sentì lo sgomento prenderlo. Già, una volta là, che avrebbero fatto? Nulla. Trasportarlo a valle? Troppo lungo. Andare a chiamare un medico? Troppo lungo... Con un sussulto, Dick comprese che Rennie sarebbe morto. Allora disse e si sforzò di essere convincente: – Senti, se ne leggono di tutti i colori, al giorno d’oggi. Verrà un elicottero a prenderti e ti porterà a valle. Ma Rennie, coraggio... cerca di tenere duro, Rennie. Ce la farai... sei una pelle dura, tu, ce la farai... al rifugio potrai distenderti... Coraggio, andiamo.

    Rennie cercò di avere coraggio. Che poteva fare? Non restare solo sulla montagna, certo. Come lo avrebbero trovato, di notte, al buio? E ci sarebbe stata, al rifugio, gente in grado di portarlo su a braccia? Poteva darsi, ma poteva anche darsi di no. E allora...

    – Va bene, Dick, – disse con voce impastata, – portami su... – e cominciarono a salire.

    Fu un supplizio, qualcosa d’assurdo. Dick e Rennie non seppero mai quanto durò. Rennie vomitò diverse volte, poi lo prese un singulto feroce. Aveva la febbre. Dovettero arrestarsi ogni dieci passi.

    Quando, come in un sogno – come attraverso una lastra di cristallo scheggiata – apparve la luce del rifugio, c’erano alte stelle tremanti nel cielo nero.

    Dick percorse correndo gli ultimi cinquecento metri; incespicò, e spalancò la porta del rifugio con il suo peso. Un grosso cane s’alzò, ringhiando verso di lui, ed i quattro uomini seduti accanto alla stufa volsero facce accigliate e stupite.

    – Ho bisogno d’aiuto, – ansimò Dick entrando e non curandosi di chiudere la porta, – ho un amico... là, a cinquecento passi... con un attacco... d’appendicite. – Riprese fiato, sembrava che il cuore gli pulsasse nella gola e nel cervello: – Bisogna aiutarlo, è gravissimo! – s’appoggiò al tavolo per non cadere. Gli uomini s’erano alzati. Quello che doveva essere il custode del rifugio disse: – Dov’è? – e Dick a fatica alzò la destra: – Là fuori, a cinquecento passi... Non c’è nessuno che può chiamare un dottore? – aggiunse – non c’è un telefono, qui? Una teleferica?... – lo guardavano severi, ed egli, appoggiandosi al tavolo: – Sta male vi dico, ha vomitato un sacco di volte... Se non chiamiamo il dottore muore! Muore!...

    – State calmo, – disse un uomo, e Dick sentì quelle parole come un insulto: – State calmo? Ma non avete capito?... C’è un uomo malato gravemente, là! State calmo! Bisogna andarlo a prendere!

    Gli uomini stavano già indossando pesanti giacche a vento; il custode porse a Dick una scodella di roba calda. Dick bevve ingozzandosi. Dio mio, che sarebbe successo, ora? Possibile morire d’appendicite nel 1964?... Prese a tremare. Allora l’uomo che aveva parlato prima, gli disse: – Avanti, portateci dal vostro amico!

    Uscirono nella notte. Trovarono Rennie semisvenuto, con gli occhi sbarrati, le mascelle tese nello spasimo e la bocca coperta di schiuma.

    Lo portarono alla capanna, e Dick, disfatto, restò indietro. Camminava per inerzia, la testa che ciondolava sul petto. Quando entrò nel rifugio, continuò a camminare, andò ad urtare contro la parete. Si scosse: – Rennie! – gridò. – Avete chiamato?... Avete avvertito, e... – s’interruppe. Sbarrò gli occhi.

    Uno degli uomini gli esaminava il ventre, e mormorava qualcosa. Il custode aveva portato lampade, perfino candele, e una lucerna.

    – Che succede? – esclamò Dick, e sentiva la testa svanire – che state facendo?... Avete avvertito?... Non c’è un mezzo per avvertire...

    Un giovanotto si staccò dal tavolo: – Silenzio! – disse severo, – state in silenzio, mentre il professore visita. Opererà subito... ha operato anche in condizioni peggiori, il professore...

    Dick balbettò qualcosa, e il giovanotto riprese: – Come non lo conoscete? È il professor Murchinson, primario di chirurgia dell’ospedale di Des Moines... speravamo di passare un weekend tranquillo, quassù, e...

    S’interruppe alla voce del professore che disse: – Fate bollire quel rasoio, dottor Green, e guardate nel mio sacco. C’è qualcosa che ci potrà servire. Opero immediatamente.

    APPUNTAMENTO IN PRIMA LINEA

    Sul fronte davanti a Selo, 18 agosto 1917

    I granatieri partirono all’attacco di Selo all’alba del 18 agosto. Poi attaccarono i fanti, in due ondate. Il sole ruggiva sul Carso pieno di polvere e di morti. L’artiglieria austriaca, che da due giorni batteva le posizioni italiane, cominciò uno spaventoso fuoco di sbarramento. Le bombe violentarono la terra, sgretolarono rocce, fecero a pezzi uomini e sassi, incendiarono l’aria.

    Selo fu raggiunta. Ma non fu possibile andare oltre.

    Il portaordini Pierino Pozzi, di Castana, classe 1895, si avvicinò al suo capitano, e: – Dove andiamo, signor capitano? – chiese. L’ufficiale serrò le labbra: – A Selo, – rispose, – se non ci accoppano prima. Siamo la terza ondata, andiamo a dare una mano ai granatieri.

    – I granatieri? – esclamò Pierino.

    – Perché? – gli domandò allora il capitano, – che cosa te ne frega dei granatieri?

    – Eh, magari incontro un mio amico, uno del mio paese, Calvi Mario, classe 1897, 10° reggimento, 40a compagnia...

    – Va bene, va bene, – l’interruppe il capitano, – stammi dietro, posso aver bisogno di te. Avanti, sotto! – gridò poi, volgendosi ai soldati che avanzavano a ridosso d’una collina crivellata, – muoversi, avanti! Avanti!

    L’aria risuonava del rombo cupo del cannone. I fanti muovevano verso le posizioni da cui erano partiti i granatieri. Pierino si trovò a sorridere, mentre camminava fra i cespugli inariditi, con il 91 in mano...

    A sorridere, sì. Pensava a Mario, a quel giorno in cui s’erano salutati a Castana e s’erano abbracciati, e si erano detti: – Ci vediamo al fronte, eh? Chissà quante cose avremo da dirci!

    Certo, avrebbero avuto un mucchio di cose da dirsi. Notizie di casa, prima di tutto, del paese, e poi, storie di ragazze e poi cose di guerra e di battaglione...

    S’erano salutati due anni prima, e la guerra li aveva portati chissà dove, uno a destra, l’altro a sinistra. Incontrarsi, in mezzo a milioni di soldati?... Pierino continuava a sorridere. Poteva capitare, no?...

    – Avanti, sotto! Sotto, ragazzi! – il capitano gridava, fermo accanto a una dolina, e accennava a un colle brullo: – Stringere, presto! Avanti!... – Il rombo del cannone era sempre più intenso, e vicino. Il cielo era bianco come gesso, e Selo era là, a qualche chilometro, una bassa linea di case distrutte, sulla collina squallida. I fanti passarono oltre, tenendosi bassi.

    Furono nell’incubo.

    Apparve improvvisamente, come una grande ferita nella terra, la trincea dalla quale era partita la prima ondata. Di là i granatieri s’erano buttati fuori, erano corsi urlando in avanti... Buttati fuori i vivi, i pochi. Gli altri – i tanti, i troppi – non s’erano più mossi. Erano morti. Le granate li avevano raggiunti, li avevano trovati nei camminamenti, dietro gli inutili ripari: inchiodati, maciullati, fatti a pezzi. Stavano là, ora, coperti di sassi e di terra, in piedi, supini, seduti; qualcuno sembrava ancora vivo, ancora sul punto di balzare in avanti. C’erano brandelli di divisa e d’uomo, armi, scarpe, elmetti lacerati, e tascapane e assurdi fogli di carta, e pietre nere di sangue. C’erano, nell’aria rovente, sciami risuonanti di grosse mosche feroci. Molti granatieri erano stati uccisi due giorni prima...

    – Avanti! Sotto, ragazzi, sotto! – Il capitano continuava a gridare, e camminava fra i morti lungo la trincea sconvolta; i soldati lo seguivano, serrando i denti, cercando di non guardarsi attorno, di non pensare; passavano, scivolavano, forse, su di un corpo che si disfaceva al sole feroce, ma si rialzavano subito, e riprendevano a camminare. La battaglia ruggiva oltre una cresta di pallide colline fiorite di fumo. L’Hermada appariva, torva, calva, irraggiungibile a chiudere lo sfondo.

    Pierino Pozzi camminava tremando, ora. No, non per paura: aveva già visto quelle scene orrende, era abituato alla morte. Tremava perché aveva sentito il capitano dire: – Poveri ragazzi! È il 1° reggimento!...

    Mario! Il suo reggimento!

    I soldati passavano nel carnaio senza guardarsi attorno, ma lui, Pierino, no, lui guardava. Lui cercava quei volti disumani, quelle maschere di orrore e di morte; guardava trepidante, intriso di sudore, con il cuore stretto d’angoscia.

    Dio buono, Mario! Poteva essere là, adesso! Il pensiero del suo amico morto, con la bocca e gli occhi pieni di mosche,

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