Il dolore di oggi sarà la vittoria di domani
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Perché se c’è una cosa che la vita le ha insegnato è proprio questa: avere il coraggio di affrontare qualsiasi difficoltà senza mai rinunciare a sé stessi.
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Anteprima del libro
Il dolore di oggi sarà la vittoria di domani - Simona Lapomarda
Simona Lapomarda
Il dolore di oggi sarà la vittoria di domani
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3512-2
I edizione marzo 2023
Finito di stampare nel mese di marzo 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Il dolore di oggi sarà la vittoria di domani
Ognuno di noi ha il finale che si merita.
Nella mia vita ci sono state tante cose che ho vissuto e che solo con il tempo ho capito quanto fossero nocive per me; tuttavia, nel momento in cui le ho perse, ho sofferto molto.
Amori che non hanno saputo valorizzarmi, treni che ho perso per colpa della paura dei pregiudizi altrui...
Forse è il destino a decidere chi merita di rimanere nella nostra vita. Anche se noi continuiamo a piangerci addosso credendo di esserci fatti sfuggire un’occasione dalle mani.
CAPITOLO 1
Mi capita spesso di ripensare al giorno in cui la mia vita ha subito una svolta radicale. E’ successo tutto esattamente tre anni fa, nel momento in cui misi piede sull’aereo che mi avrebbe portato a Lanzarote, sulle isole Canarie; era il diciassette settembre duemila diciannove, l’aria era ancora pervasa dal caldo mite tipico delle estati in sud Italia, ed io ero in aeroporto, in attesa che annunciassero finalmente il mio volo. Continuavo a passeggiare avanti e dietro con la testa affollata di pensieri e dubbi, ma anche colma di speranze: chissà cosa mi avrebbe riservato la vita, laggiù! In fondo, stavo partendo proprio per quello, per ricominciare tutto da capo e, nonostante il salto nel buio che stavo per fare, non vedevo l’ora di iniziare.
Se penso che sono passati solo tre anni da quel giorno stento quasi a crederci. La vita prima di quell’aereo era talmente diversa che -a ripensarci adesso- non sembra più neanche essere stata la mia. Eppure, il giorno verso la mia nuova vita lo ricordo come se fosse ieri. Ricordo l’addio di mia madre e delle mie sorelle, le nostre lacrime ricacciate indietro a fatica; dietro le loro raccomandazioni e le loro parole di addio c’era tutto l’affetto immenso che ci aveva sempre legate. Ricordo l’abbraccio della mia nipotina Nicole, che nonostante all’epoca avesse solo tre anni sembrava avere una stretta d’acciaio, come se non volesse lasciarmi andare via. Fu proprio lei la persona più difficile a cui dire addio: era uno dei doni più preziosi che la vita mi ha regalato in quegli ultimi anni, sarebbe stato straziante non vederla crescere con i miei occhi. Ricordo l’arrivo in aeroporto, la confusione, il via vai di turisti che si affrettavano a fare la fila per il check in, il rumore delle valigie che slittavano sul pavimento sdrucciolevole. A quella vista, l’idea che tutto quello fosse reale e che io stessi davvero partendo per le Canarie divenne finalmente tangibile. Sulle prime avvertii una sensazione di groppo allo stomaco che mi pervase lungo tutta la salita dal gate all’aereo, l’ansia cresceva sempre di più ad ogni ora che mi avvicinava al momento della partenza. Avevo un biglietto di sola andata, stropicciato e spiegazzato nella tasca dei miei pantaloni, ma per me era molto più di quello: quel pezzo di carta era ormai diventato per me il simbolo di una seconda possibilità e di tutta la voglia che avevo di lasciarmi alle spalle gli ultimi momenti orrendi che avevo vissuto. Una volta che presi il mio posto era come se tutta l’agitazione che mi aveva divorata fino a qualche secondo prima fosse improvvisamente sparita e dentro di me tirai un sospiro di sollievo: ce l’ho fatta, pensai, sorridendo tra me e me.
I mesi prima della partenza furono tra i più difficili che abbia mai affrontato in tutta la mia intera vita. Era come se stessi attraversando un interminabile e lunghissimo tunnel nero, da cui non riuscivo ad intravedere alcuna via di uscita. Per un momento, avevo perfino pensato che sarei rimasta per sempre intrappolata là dentro a vagare nel buio, consapevole che nulla sarebbe mai cambiato. Un giorno però, mentre stavo rimuginando tra me e me, mi attraversò un’idea talmente improvvisa che nella mia testa balzò fuori come un barlume di luce, breve ma luminosissimo, che per qualche momento mi folgorò completamente: dovevo andare via.
Partire, andare via lontano, magari all’estero e tagliare i ponti con tutto ciò che mi aveva fatta soffrire. All’inizio cercai di non prendere seriamente in considerazione quella possibilità, relegandola semplicemente ad un fugace desiderio che si sarebbe affievolito di lì a poco. Come avrei potuto lasciare l’Italia, la Puglia, la mia terra? Avevo così tanto progetti lì, avevo la mia famiglia e, soprattutto, avevo il calcio. Non potevo mica abbandonare tutto così e andare via. Eppure, più ci pensavo più mi rendevo conto che effettivamente quella sarebbe stata per me la soluzione migliore a tutti i miei problemi: cosa mi stava lasciando in fin dei conti il posto in cui mi trovavo in quel momento se non una delusione e un dolore dietro l’altro?
All’inizio avevo un sogno, dei progetti. In quel periodo ce la stavo mettendo tutta pur di riuscire a tagliare quello che consideravo all’epoca uno dei miei traguardi più importanti, ovvero quello di fondare una società di calcio con una squadra completamente al femminile e, soprattutto, tutta mia. Giocare a calcio era per me come respirare, fondamentale. Si può quasi dire -in una frase tanto fatta quanto calzante- che fosse l’amore della mia vita: quello sarebbe stato l’apice di un sogno che era durato una vita intera. Ero al corrente delle difficoltà che avrei incontrato lungo il mio percorso ma, onestamente, più che esserne spaventata ero determinata: avrei fatto qualsiasi cosa pur di portare avanti il mio obiettivo. Avrei vissuto della cosa che più amo in assoluto, il calcio e lo avrei fatto a modo mio, secondo le mie regole. E poi, non ero certo da sola: a sostenermi in quel periodo c’era anche una persona che sembrava non vedesse l’ora di assistere alla concretizzazione di tutto ciò che avrei voluto per me stessa. Era una ragazza con cui stavo ormai da abbastanza tempo da poter davvero prendere in considerazione l’idea di costruire un futuro insieme. Ero talmente sicura della nostra storia che mi trasferii da Mattinata a Bari pur di stare con lei. Lì trovai un lavoro che era in grado di darmi più stabilità anche da un punto di vista economico e, perlomeno inizialmente, misi da parte la mia carriera calcistica pur di rendere più stabile il nostro equilibrio. Ma evidentemente, tutti quegli sforzi da parte mia non furono abbastanza.
Se ci ripenso, la nostra storia finì in maniera così improvvisa che fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Nonostante siano ormai passati tanti anni e io sia andata definitivamente avanti con la mia vita, quel colpo brucia ancora sotto la mia pelle. Era l’ultimo giorno di maggio, ero appena rientrata nella casa in cui vivevamo insieme da un po’ di tempo dopo una lunga giornata di lavoro al bar del Polifunzionale di Bari. Mi accorsi subito che nell’aria c’era qualcosa che non andava; richiusi la porta dell’ingresso dietro di me e il rumore dell’anta che sbatteva per richiudersi rimbombò nella casa come un eco secco, quasi come se la casa fosse vuota, priva di alcuna presenza. Tuttavia lei era in cucina, a poca distanza dall’ingresso: stava preparando la cena con aria assorta, assente, come se non si fosse accorta del fatto che fossi rientrata a casa. Ricambiò il mio saluto con un cenno freddo del capo, la sua mano era ancora intenta a girare il mestolo nella pentola. Nella mia testa risuonò un primo, fastidioso campanello d’allarme, ma non ci badai più di tanto: forse è solo stanca
, pensai tra me e me, dopotutto sono le dieci di sera, è stata una lunga giornata, è comprensibile che una persona non abbia molta voglia di parlare
.
Sedute davanti al tavolo, con la cena ancora calda davanti ai nostri occhi, cominciammo a mangiare, in tutta la casa si percepiva solo il rumore delle forchette che sbattevano contro i nostri piatti. Mi schiarii la gola e provai a rompere quel silenzio così pesante che si era creato tra di noi: Com’è andata la tua giornata?
tentai di suonare il più gioviale possibile, ma da parte sua ottenni solo un bene
laconico come risposta. Secondo campanello d’allarme, questa volta un po’ più squillante del precedente. Presi un altro morso dal piatto ed esitai un attimo. Ero stanca, avevo passato un’intera giornata a lavorare, non mi andava di litigare con lei proprio quella sera. Ingoiai il boccone troppo caldo, talmente tanto che mi bruciò quasi la gola. E allora presi coraggio, mi schiarii la gola e, cercando di trovare le parole più diplomatiche possibili, alzai lo sguardo e la guardai dritta in volto Ho fatto per caso qualcosa di sbagliato?
Lei continuò a tenere lo sguardo basso, la sua forchetta era rimasta quasi a mezz’aria: non sembrava fosse stata colta alla sprovvista, era evidente che ci fosse qualcosa che si stava tenendo dentro da tanto tempo. D’un tratto, l’atmosfera nella sala da pranzo si raffreddò ancora di più di quanto non lo fosse in precedenza. Con voce fredda, tuttavia titubante, come se non sapesse esattamene cosa dire, iniziò a parlare Ecco, vedi Simona… c’è una cosa che dovrei dirti…
Ed in effetti, di cose di cui parlare ne aveva. Tante, anche. Secondo lei, noi due non avevamo un futuro. Era sempre stato così: per me la nostra storia era sempre stata fin dall’inizio un processo spontaneo da poter vivere alla luce del sole. La amavo talmente tanto che avrei voluto parlarne in continuazione con mia madre, i miei amici, i miei colleghi.
Avrei voluto vivere il resto della mia vita con lei e non m’importava cosa gli altri dicessero di noi, se le voci in paese fossero tanto malevoli nei confronti delle mie scelte di vita. Lei però era completamente diversa da me sotto questo punto di vista: il giudizio degli altri le pesava eccome. Stava attenta a qualsiasi parola, sguardo, allusione. In pubblico erano rari i momenti in cui ammetteva che io fossi la sua ragazza: molto spesso, mi presentava semplicemente come una sua cara amica. E in quel momento, davanti a quel tavolo e davanti a quei piatti diventati ormai freddi, lei mi stava vomitando addosso tutto il disagio che aveva vissuto in quegli anni, soprattutto nell’ultimo periodo, e di come non potesse continuare così. Mentre lei mi stava lasciando, nella mia testa cominciarono a risuonare milioni di campane, frastornanti e insistenti. Mi sembrava di scoppiare, il rumore e il dolore che sentivo dentro di me erano talmente lancinanti da risultare insopportabili. Era impossibile che stesse accadendo così, proprio in quel momento. A dire il vero fino ad allora non mi sarebbe neanche lontanamente sfiorata l’idea che tra noi due prima o poi sarebbe finita, nonostante negli ultimi tempi le cose non stessero andando benissimo; eppure stava accadendo. Più lei parlava, più lo stomaco mi si chiudeva e un senso di nausea mi risaliva lungo la gola. Non ce la facevo più ad ascoltarla, anche solo guardarla in faccia era diventata improvvisamente un’azione insopportabile da sostenere: mi alzai dal tavolo, con un groppo e con le lacrime che cominciavano a sorgere dagli occhi, corsi davanti alla porta, presi le chiavi ancora inserite nella toppa e uscii di casa, richiudendo per sempre qualsiasi contatto tra noi due. Vagai nelle strade buie dei dintorni per ore, cercando di non pensare a nulla; eppure più provavo a non soffermarmi sul dolore, più questo mi invadeva con una prepotenza tale da bruciarmi lo stomaco: era finita, definitivamente. Dovevo ancora metabolizzare quella realtà, ma ero consapevole di quanto quel momento fosse concreto. Per mesi quella sensazione di vuoto, quel senso di dover ricominciare tutto da capo rimase onnipresente nelle mie giornate. Ero appena entrata nel tunnel.
Allora cercai di dedicare tutta me stessa all’altro progetto che mi sarebbe piaciuto realizzare di lì a poco, ovvero quello di aprire un club di calcio: oramai, quella era una delle poche cose che mi faceva davvero sentire attaccata alla vita. Dopo tanti mesi dedicati a questo sogno, quel momento era quasi giunto al termine. Mancava pochissimo alla sua realizzazione e io non vedevo l’ora di cominciare e di poter vedere finalmente all’opera me e le altre trenta ragazze che avevano creduto in me e si erano unite al progetto. Ero riuscita a radunare una squadra, mancava soltanto istituire la società a tutti gli effetti e trovare gli investimenti giusti. Per mesi non avevo pensato ad altro: pur di trovare qualcuno che fosse disposto ad investire su questa idea viaggiavo tutti i giorni da Casamassima in provincia di Bari - il paese in cui stavo lavorando e vivevo- fino a San Marco, che invece era il posto dove invece si stava per realizzare il mio sogno. Era pesante sostenere tutti i giorni un impegno simile, avevo messo da parte ogni cosa pur di portarlo avanti, ma non importava, la mia testa era già proiettata al giorno in cui tutto quello sarebbe diventato concreto. Anche solo immaginarlo mi riempiva il cuore di gioia.
Poi un giorno, a distanza così tanto ravvicinata dalla fine della mia storia d’amore, durante una riunione con i principali investitori della futura società, questi ultimi mi misero di fronte alla dura realtà. La verità era che a quelle persone non importava nulla dei miei sogni e di ciò che avrei voluto che fosse quella società per me, ovvero un’opportunità a quelle ragazze che, per colpa di una mentalità arretrata che vedeva il calcio femminile come uno sport senza futuro, avevano poche possibilità di portare avanti la loro passione. Fino a pochi mesi prima sembravano entusiasti del progetto. In quel momento, invece, si dimostrarono per quelli che erano: dei gretti, il cui unico interesse