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Brasiliana
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E-book219 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Agostino Sciaccaluga, detto Tino, è in un momento triste e difficile della sua vita, per la recente morte del padre e per la perdita del lavoro a seguito di una sua iniziativa dettata da nobili intenti.
Dulce de Souza Silva, brasiliana, è la badante di suo padre, che, prima di andarsene, l’ha sposata e messa incinta.
Nonostante la consideri una deprecabile profittatrice, Tino accetta di accompagnare Dulce in Brasile, dove lei ha lasciato alla cura dei parenti il figlio che ha già.
Una vacanza di un paio di settimane diventa per Tino un entusiasmante squarcio di vita nuova, trasformandosi in un viaggio dentro se stesso e alla scoperta di tradizioni e abitudini di un mondo sconosciuto.
Un’intensa storia di sentimenti e di avvincenti colpi di scena, tesa a ponte tra il Golfo dei Poeti (La Spezia) in Italia e la Baia di Guanabara (Rio de Janeiro) in Brasile.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2022
ISBN9788863587371
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    Anteprima del libro

    Brasiliana - Maria Paola Favilli

    Capitolo I

    AGOSTINO

    La Spezia – 18 ottobre 2010

    Scendeva dalla Scalinata Quintino Sella, dopo aver chiuso il vecchio portone. Buttò un occhio al collegio delle suore della Carità popolarmente chiamate Cappellone a causa del largo bianco copricapo inamidato che ormai non indossavano più.

    In quel luogo ameno aveva frequentato la scuola materna, poi i suoi avevano cambiato casa per trasferirsi nell’appartamento più grande e nuovo in piazza Verdi. Bei tempi quelli, ormai trascorsi da un pezzo!

    Il negozio di strumenti musicali scintillava già di luci nella buia mattina nuvolosa. Quante volte aveva sostato rimirando i pianoforti a coda, le chitarre, i flauti e i 33 giri con gli ultimi successi o i 45 quando le finanze non gli permettevano di comprare altro! Ma la sua passione erano i 78 giri. Aveva certi vecchi dischi con Beniamino Gigli e Caruso, i neri americani con i loro blues, gli spirituals e quelle atmosfere vecchia New Orleans, i primi cantanti rock degli anni ’50 e del dopoguerra. Frequentava i mercatini dell’usato che si svolgevano la domenica pomeriggio, una volta al mese, nello spazio del mercato del pesce. I proprietari delle bancarelle lo conoscevano e se gli avevano trovato qualche chicca, durante il loro girovagare, lo rendevano felice. Si gloriava di possedere un disco della Dixieland Jazz Band, il primo 78 giri della storia. Ritmava con la testa nelle nuvole più che con i piedi e si vedeva già con la ragazza al fianco, l’ultima conquista… sì, più nei sogni che nella realtà, perché timido lo era sempre ma, da ragazzo, proprio patologico. Non ne imbroccava una, per la classica paura della figuraccia.

    Cacciò le mani fredde nelle tasche dei jeans per la temperatura non più estiva e allungò il passo per la via del Prione, compiendo solo una rapida diversione dal suo obiettivo, verso destra: scaldarsi allo storico bar Tripoli per un caldo cappuccino con tanta schiuma e un pezzo di focaccia.

    Per uno spezzino doc, non esiste colazione migliore.

    Godette quell’attimo di estasi: ‘una fetta di fugassa unta inzuppata nella schiuma del cappuccino sarà una schifezza, ma non posso rinunciare’. Quell’unione fra il salato oleoso che si sposa scendendo con calcolata lentezza nella schiuma densa, marroncina e dolciastra: una libidine!

    Così zavorrato s’incamminò verso il mare.

    Aspirò il profumo di farinata che usciva prepotente dalla Pia, ripromettendosi un passo, magari per comprarne un po’ da portare a casa per la sera.

    ‘Più tardi, più tardi ti porto a casa’ si ripromise. Ma no! La vera consolazione era mangiarla lì sul marciapiede, scambiandosi occhiate beate, a occhi quasi chiusi, con la carta gialla in mano, da cui uscivano sbuffi di fumo profumato. Chi la amava un po’ più alta morbida, ma non più di tre millimetri, e chi, come Agostino, bassa e un po’ bruciacchiata in un angolo, croccante.

    Piazza Santagostino lo accolse con i suoi palazzi seicenteschi, le grandi finestre con le vetrate a quadri, le lesene leggiadre e le facce apotropaiche che con le loro linguacce sembravano sbeffeggiare i passanti.

    – Ciao Nicchia – mormorò, rallentando davanti al busto marmoreo della divina contessa.

    La Castiglione lo sbirciò, come sempre, dal foro di una fotografia, maliziosa e bellissima. Gli sorrise, ma più malinconica, forse intuendo l’umore di Agostino e la conclusione non proprio brillante dell’incontro che lo aspettava.

    Alzò lo sguardo verso la chiesa dei Santi Giovanni e Agostino, quasi a chiedere lume al suo protettore.

    Deprecava la scelta quanto mai inopportuna di essere stato battezzato con un nome così lungo e antico proprio lì in quella chiesa: Agostino Sciaccaluga, detto Tino. Perché poi non affibbiargli un nome breve tipo Luca o Marco… una schioppettata con un cognome che sembrava uno scioglilingua. Boh!

    – Speriamo che non piovi più.

    – Eh già – bofonchiò Tino, ignorando l’orrido congiuntivo. Aveva riconosciuto la voce un po’ roca di Stelvio, il migliore amico di suo padre.

    – Mi dispiace per tuo padre tanto, tanto… ma l’ea propi mal messo.

    Te ghè razon – accennò Tino senza guardarlo ma usando il dialetto per ammorbidire un po’ l’atmosfera. Accelerò il passo.

    ‘Non ho voglia di parlare’ – pensò – ‘tanto meno con Stelvio. Ha sempre voluto bene a mio padre Giovanni e mai lo avrebbe criticato nelle sue scelte che avevano angustiato i figli’.

    – Beh ciao, quando vuoi, chiamami e ricordati: A tuto gh’è remedio, fea che l’osso der colo.

    Agostino apprezzò l’offerta e l’intuito dell’amico: aveva capito che non era aria.

    Raggiunse piazza Verdi. Ariosa, elegante, teatro dei suoi primi anni di scuola, le poste, i pini svettanti, la pasticceria, il cartolaio e il panettiere con le meravigliose untissime focacce, disperazione della mamma, perché non c’era volta che qualche macchia d’olio non cadesse sul grembiule. Decise per una deviazione. Preferiva allontanare un po’ l’incontro che aveva programmato per la tarda mattinata.

    Superò l’accademia del biliardo, percorse gli splendidi giardini di aiuole curatissime sul viale Mazzini e attraversò il viale Italia zigzagando fra le auto che sfrecciavano.

    Il mare lo accolse nel suo abbraccio, un po’ incattivito per lo scirocco, scuro e schiumeggiante. Aspirò la salsedine. La passeggiata Morin, nella sua lunga cornice di palme ondeggianti, lo salutava, quasi a volerlo consolare del suo dolore recente.

    Suo padre, l’unico punto fermo della sua vita un po’ sgangherata, non c’era più: se n’era andato in tre mesi, quasi in punta di piedi e Agostino non riusciva a perdonarsi di non essergli stato vicino, di non essersi accorto subito della malattia che lo stava mangiando. Diede un calcio rabbioso a una lattina vuota e adocchiò il chiosco del caffè con le saracinesche tristemente serrate.

    Belandi che giornata! Niente caffè!

    Alzando lo sguardo, osservò il monte Parodi, incappucciato di nubi nere. Si dice: Se’r Parodi i fa’r capeo, mola la vanga e pia l’ombreo.

    Sarebbe piovuto ancora.

    Alle prime gocce leggere, sospirò:

    – Bisogna proprio che vada!

    La passeggiata era finita. Le Alpi Apuane cercavano di bucare le nuvole e riuscivano a splendere nel bianco dei marmi che avevano affascinato Michelangelo.

    ‘Quanta bellezza! Ecco le nostre Dolomiti!’ pensò, attraversando al semaforo della Capitaneria di Porto.

    Dietro al rosso edificio c’era un altro luogo del cuore: la Società Canottieri Velocior, vicino al Circolo Velico. Lì aveva imparato a remare, quasi prima che a camminare. La barca era un vecchio trabiccolo con due remi pesantissimi che le sue braccia di bambino faticavano a tenere e papà Giovanni rideva cercando di allenare i piccoli muscoli del figlio, nell’intento un po’ fallimentare di vincerne l’ostinata timidezza.

    Dai che te la fè! Rema, rema che vinciamo il Palio del Golfo!

    Mannaggia che sfida! Un po’ più grandino si era cimentato con il due senza, una barchina sottile, leggera, ma il compagno si era scocciato presto, perché lui non era proprio un talento!

    La determinazione di migliorare il suo fisico era evaporata con i primi sfottò. Insomma Né oca, né useo.

    Alto alto, magro magro proprio una bellezza non si poteva dire. Gli occhi azzurri sì, belli, trasparenti sbucavano da sotto a un ciuffo di riccioli rossicci, tali e quali i capelli della sua mamma. La pelle un po’ afflitta dalle lentiggini lo faceva dannare d’estate, perché l’abbronzatura figa, come tutti i ragazzi desideravano, stentava ad arrivare. Quando, finalmente, era decente, bisognava ricoprirsi perché la stagione del mare era finita.

    Di ciò soffriva moltissimo, soprattutto quando aveva osato puntare un’allieva di suo padre in seconda liceo, la più carina, la più in vista, di ottima famiglia di armatori, ovviamente assai gettonata da aspiranti con qualche capacità.

    Lei, la bellissima, invece, aveva ignorato i più e si era invaghita proprio di lui, che non era neanche tanto brillante a scuola, s’ingarbugliava nelle interrogazioni, figuriamoci in un rapporto di amicizia qualunque.

    Tirar fuori un argomento divertente, fare una battuta, macché… non gli veniva nient’altro che un rantolo, uno sguardo da cane bastonato, suscitando magari più rabbia che tenerezza.

    Eppure, aldilà di ogni aspettativa, la scelta della dea era caduta su di lui.

    Un giorno, all’uscita di scuola, Leonarda detta Leda gli si era piantata davanti e gli aveva rivolto la parola, così, senza preamboli.

    – Non è che mi accompagneresti a far spese, oggi?

    – Chi… io?

    – Sì, tu. Mia sorella ha da fare.

    – Ah ecco… – Agostino cambiò colore come il semaforo della piazza, dal verde al giallo fino al rosso scarlatto delle orecchie.

    – O magari non puoi, hai da studiare? – azzardò Leda.

    – No no, figurati. Certo, a che ora?

    – Alle cinque, va bene? Qui davanti.

    – Ok.

    Girò sui tacchi e se ne andò lasciandolo tramortito dall’emozione.

    – A me, proprio a me… oddio – stava sul marciapiede passando da euforia a depressione – ma perché?

    Si vedeva vestito da schifo in confronto ai liceali fighetti. Lui futuro geometra.

    – Ma io cosa faccio?

    Corse verso casa con tutti quei libri che non stavano più dentro l’elastico.

    I suoi lo guardarono a pranzo che trangugiava senza parlare.

    – Com’è andata, oggi?

    – Bene.

    – In che senso?

    – Ah… bene!

    – Cioè? Hai rimediato un cinque invece di un tre?

    Mm… le odiose domande dei genitori!

    Più tardi sul libro non vedeva stampati gli schemi, ma quello sguardo verde, umido, vicino, mai stato così vicino!

    Il pomeriggio non passava mai, con l’incubo del saggetto di estimo l’indomani.

    ‘Non ho mai capito un granché, ma devo farcela per il diploma. Certo, se ripetessi l’anno, la rivedrei. Chissà mio padre che smacco un figlio bocciato.’

    Il fratello Francesco, di tre anni più vecchio, poi, un secchione maledetto, un talento della musica. Finito il liceo classico con stratosferiche votazioni e la borsa di studio, subito al conservatorio e un diploma di violoncello e composizione in pochi anni, che Agostino non si sarebbe mai sognato. Però France era buono, gli voleva bene davvero e cercava di aiutarlo quando Tino era sfiduciato.

    L’imponente palazzo degli studi ospitava il liceo classico attiguo alla via XX settembre e l’istituto per i geometri all’angolo della via Ugo Bassi.

    Rimuginando il suo passato, arrivò davanti al palazzo della questura, austera costruzione, esempio un po’ criticato di architettura del regime.

    Sollevò lo sguardo fino al quarto piano alle finestre e ai poggioli della sua casa.

    Negli anni ’60 avevano iniziato a costruire l’albergo e il panorama si era un po’ ristretto, ma una porzione di golfo e i cantieri riusciva a vederli ancora. E respirava quell’aria di mare, quel profumo di salmastro, condito dagli odori di cucina che, di quando in quando, salivano dal vicino ristorante.

    Le sere d’estate suo padre apriva una sedia a sdraio sul poggiolo ed era un divertimento ammirare il cielo stellato.

    Spesso spiava la questura di fronte, con le finestre aperte da cui provenivano le grida del commissario di polizia che interrogava i malcapitati.

    Basta, doveva andare!

    Attraversò l’incrocio e si tuffò nel portone, prima di bagnarsi completamente. L’androne buio mostrava qualche accenno di vecchiaia, ma la fattura elegante e l’ascensore di ferro battuto davano l’idea di una casa borghese di buon livello.

    Il professore l’aveva scelta come sua dimora perché proprio di fronte all’amato liceo classico Lorenzo Costa. Casa e bottega, come amava scherzare con gli allievi. Pur potendo alzarsi, di mattino, all’ultimo momento, l’idea non lo sfiorava neppure perché amava preparare senza fretta tutti i libri e le scartoffie che gli servivano per la giornata. Mai persa un’ora di lezione, tanto che la moglie non gli aveva mai perdonato di essere andato a scuola anche il giorno della nascita del secondo figlio.

    L’ascensore salì fino al quarto piano.

    Prima di aprire la pesante porta di legno scura e lustra, Agostino socchiuse la bella vetrata a colori che dava luce al pianerottolo e spiò le finestre sul cortile.

    Le piante erano al loro posto sui davanzali e la chenzia brillava rigogliosa e lustra sotto la pioggerella.

    Silvia, sua madre, amava molto la chenzia, perché sprigionava una natura esotica espressa dalle esili foglie ad ombrello, così eleganti e leggere. Quando doveva nascere un’altra foglia, il tronco si gonfiava e formava come una piccola pancia, come una donna incinta, piano piano, finché un giorno si palesava la nuova foglia tenera, di un verde brillante. Sembrava dicesse: eccomi qua. E poi si spandeva nell’apertura a ombrello, cercando la sua strada in mezzo alle altre, per sopravanzarle trionfalmente in tutto il suo splendore. Tino s’incantava a guardare quel magico ventaglio. Ogni giorno notava che la più vecchia della compagnia abbassava piano piano la testa e col tempo la reclinava per eclissarsi dolcemente e lasciare il posto alle altre.

    La vita e la morte.

    Infilò la chiave nella toppa di ottone scintillante e sbatté la porta per farsi sentire. Un forte odore di basilico lo accolse nell’ingresso.

    Capitolo II

    DULCE

    – Sei Rosana? – una voce argentina lo accolse da dietro la porta della cucina. Rosanna era la custode che aveva in cura un altro mazzo di chiavi per annaffiare le piante quando Dulce non c’era.

    Una figura piccola, rotondetta e con la testa adorna di bigodini si palesò nell’ombra fresca del corridoio.

    – Ah sei tu Tino! Como vai? Vuoi un cafesiño? L’ho appena fatto!

    ‘Il cafesiño te lo darei sulla testa’, pensò in un impeto di rabbia che contenne a stento, mormorando solo un grazie biascicato.

    Dulce era tutto meno che l’archetipo di una brasiliana tutta samba e pelle ambrata. Gli occhi neri brillavano vivaci e il viso luminoso di pelle bianca e sottile su cui splendevano denti perfetti suscitava simpatia al primo sguardo.

    Svelta, intelligente e molto capace, era arrivata dal Brasile in Italia da poco tempo, neanche un anno, ma cercava di parlare italiano, per capire e non farsi fregare, come affermava lei, ridendo con una mossa aggraziata della testa e con quell’accento portoghese-italiano che provocava interesse in chiunque la incontrasse.

    Aveva difficoltà nel pronunziare la T che suonava C dolce e la R scaturiva come una specie di rantolo, un sospiro. Tino nella sua pronuncia era Cino e il professore Giovanni diventava Jiovani con la g rotolata nella lingua, una chicca dolce come il miele. Dulce appunto, ma così dolce che il professore, ormai vedovo da un pezzo, ne era stato ammaliato.

    Ahimè fin troppo!

    – Cosa stai facendo? Dall’odore si direbbe un tentativo di pesto! – commentò con malagrazia Agostino, aspettando che la caffettiera partorisse il suo liquido profumato.

    – Ah Tino, por que dici che non so fare il caffè italiano?

    – Io?… mai neanche pensato!

    – Dai, so che non ti piace mentire e si vede quando menti – azzardò Dulce.

    – Piuttosto il pesto, perché non usi il mortaio di mia madre? Pure qualcuno te l’ha insegnato! – insinuò guardandola di traverso.

    Alluse un po’ vigliaccamente al fatto che suo padre, cuoco di un certo spessore, aveva tentato di insegnarle a fare il pesto con il mortaio e prova oggi e prova domani… insomma aveva finito per rimanere soggiogato da quella risata argentina, quella gioia di vivere, nonostante le numerose disgrazie e la famiglia lontana, quel costante atteggiamento positivo nei confronti della vita, una musica per le sue orecchie, che lui non sentiva da troppo tempo.

    Giovanni amava di un amore da ragazzino la moglie Silvia. Un matrimonio così ben riuscito era raro.

    Aveva visto Silvia attraversare la

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