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La sconosciuta di Porta Venezia: Delitti e misteri per la magliaia Delia
La sconosciuta di Porta Venezia: Delitti e misteri per la magliaia Delia
La sconosciuta di Porta Venezia: Delitti e misteri per la magliaia Delia
E-book232 pagine3 ore

La sconosciuta di Porta Venezia: Delitti e misteri per la magliaia Delia

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Info su questo ebook

Milano, prima settimana di un agosto rovente. Il quartiere di Porta Venezia, solitamente così animato, è semideserto. A catturare l’attenzione di chi osa sfidare il caldo soffocante è un’affascinante sconosciuta, che si aggira per le strade avvolta da un alone di mistero. La sua improvvisa apparizione coincide con una sequenza di morti che insanguina la città, e non solo. Il primo a perdere la vita è Maurizio Del Fa, un affermato immobiliarista del lusso, investito una notte da un’automobile. Nel volgere di pochi giorni si susseguono altri decessi. Le cause non sono apparentemente riconducibili a circostanze criminose. Nel frattempo Delia, l’anziana e bizzarra magliaia di via Lecco con il “vizio” di improvvisarsi detective, è degente in ospedale a seguito di un intervento chirurgico. Ciascun visitatore, incalzato dalla sua fervida curiosità, la ragguaglia sugli eventi. Emerge che le vittime – chi nel presente, chi nel passato – sono tutte legate al microcosmo di Porta Venezia, di cui la magliaia conosce ogni segreto. Lei non crede al caso. È convinta che esista una sola mano assassina. Si confida con l’amico commissario Attilio Masini, ma il suo sospetto viene ritenuto da lui privo di fondamento. L’indagine è delicata, quasi impossibile. Eppure la magliaia Delia, dalla sua camera d’ospedale, riuscirà ancora una volta a risolvere l’enigma. E grazie al suo intuito e alla sua perseveranza, farà emergere una verità inattesa e agghiacciante.

Mauro Biagini nasce a Genova e dopo la laurea in Lettere Moderne si trasferisce a Milano. Creativo pubblicitario fin dalla seconda metà degli anni ’80, ha lavorato come copywriter nelle più importanti agenzie internazionali, firmando popolari spot per clienti quali Averna, Fastweb, Unilever e arrivando a ricoprire il ruolo di direttore creativo di Mercedes-Benz e Smart in Italia. Attualmente è consulente di comunicazione per alcune aziende. Nei suoi gialli, ambientati tutti nel quartiere milanese di Porta Venezia in cui risiede, ha dato vita a una figura di detective particolare, l’anziana magliaia Delia, che fa il suo esordio con Il rumeno di Porta Venezia (Fratelli Frilli Editori, 2019). Il personaggio è poi protagonista dei romanzi La ragazza del Club 27 (2020), Morte a Porta Venezia (2021) e C’è un cadavere sui Bastioni di Porta Venezia (2022), così come dei racconti presenti nelle antologie 44 gatti in noir, Tutti i sapori del noir, I luoghi del noir, Odio e Amore in noir e Note noir, sempre per Fratelli Frilli Editori. Ha pubblicato anche: Marcantonio detto Toni (Robin Edizioni, 2018, scritto con Silvia Colombini), Soprattutto viole (goWare, 2019) e vari racconti in antologie edite da Edizioni della Sera, Covo della Ladra e Neos Edizioni.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2023
ISBN9788869437298
La sconosciuta di Porta Venezia: Delitti e misteri per la magliaia Delia

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    Anteprima del libro

    La sconosciuta di Porta Venezia - Mauro Biagini

    1.

    Era apparsa all’improvviso

    Era apparsa all’improvviso a Porta Venezia, come una Madonna laica.

    L’azzurro del cielo sembrava dipinto sulla ceramica, in tinta con il cappellino e lo chemisier di seta, entrambi a stampa marinara, e con la montatura dei grandi occhiali da sole. Tutto firmato Versace, come i sandali impreziositi da un ciondolo Medusa sul cinturino della caviglia.

    L’orologio di piazza Oberdan segnava mezzogiorno in punto e la piazza era deserta. Milano pareva abbandonata. C’era un caldo opprimente e chi era rimasto in città non si azzardava a uscire, se non era obbligato a farlo. Il mese di luglio aveva ridotto tutti allo stremo. Una prova per il futuro, avevano sentenziato i climatologi. Tra qualche decennio questa potrebbe essere ricordata in realtà come un’estate piuttosto fresca, si era spinto a minacciare un illustre professore londinese. E anche agosto era cominciato nel peggiore dei modi, con temperature molto al di sopra della media.

    Così, sotto il sole rovente, non si vedevano che gli abituali disperati, per lo più sudamericani, che bivaccavano ogni giorno dell’anno sui gradini della banca all’angolo dell’imponente palazzo Luraschi o presso la pensilina liberty in ferro battuto – ciò che restava dell’ingresso dell’antico Diurno sotterraneo – annerita dallo smog e ricoperta da graffiti.

    Anche loro erano più indolenti che mai. Si muovevano al rallentatore e non avevano neppure la forza di litigare come di consueto a suon di spintoni e bestemmie. Alcuni giacevano inermi sull’asfalto, storditi dall’abuso di alcol con il termometro della farmacia che indicava quaranta gradi.

    E poi c’era lei, per l’appunto. La bella sconosciuta che camminava con passo spedito lasciandosi corso Buenos Aires alle spalle e le gambe, belle anche se un po’ robuste, facevano capolino dallo spacco frontale dell’abito fino a raggiungere il dehors della pizzeria Maruzzella.

    Aveva preso posto a un tavolo appartato, quello più esterno verso i Giardini – il ventitré, numero dell’enigma, della casualità degli eventi – e aveva appoggiato sulla sedia accanto la borsa in pelle color turchese. Ne aveva estratto un pacchetto di sigarette di una marca insolita, scritta in caratteri asiatici, e poi, frugando tra un’infinità di cianfrusaglie che nel silenzio avevano emesso un dolce tintinnio, anche un accendino placcato oro. Ma non aveva avuto bisogno di usarlo. Perché infilata la sigaretta in bocca era stato l’aitante cameriere, materializzatosi in un attimo, a porgerle del fuoco.

    La donna non aveva ringraziato. Si era limitata ad annuire, sistemandosi un ricciolo biondo scivolato su una lente con gesto lieve, nervoso. Dopo il primo tiro, aveva espulso il fumo verso l’alto dalle labbra turgide, segnate da un rossetto pallido, e una nuvoletta era rimasta sospesa nell’aria immobile.

    Nonostante l’aspetto appariscente, c’era in lei qualcosa di rigoroso, ai limiti del claustrale. Trasmetteva una strana sensazione d’indifferenza, come se non le importasse nulla del mondo che la circondava.

    Il cameriere la aveva omaggiata con un inchino teatrale. Sapeva che molte straniere apprezzano l’ostentazione della proverbiale galanteria dei maschi nostrani e quella signora, ne era certo, non poteva essere che una turista di passaggio a Milano.

    English? Deutsch? Français? le aveva domandato sfoderando un ampio sorriso.

    Italiana aveva risposto lei, e la sua voce, increspata da una leggera raucedine, era parsa quasi un sospiro.

    Non è meglio se si accomoda dentro con l’aria condizionata? Oggi non si respira.

    La donna aveva scosso leggermente la testa in segno di diniego.

    Come preferisce, signora. Ecco il menù e il cameriere lo aveva appoggiato sul tavolo, non potendo fare a meno di ammirare il petto pieno e saldo della sconosciuta, ancora da ragazza, nonostante potesse avere cinquant’anni, ma portati splendidamente, perché in una signora il trucco sa come essere ingannevole.

    Intanto le servo dell’acqua. Naturale o gassata?

    Vorrei subito del vino.

    Ha preferenze?

    Bianco e fermo e la donna non aveva aggiunto altro, rivolgendo lo sguardo al cielo e continuando a fumare.

    Dopo un minuto il cameriere era tornato al tavolo con una bottiglia di Greco di Tufo in un secchiello. La aveva sollevata dal ghiaccio e gliela aveva mostrata decantandone il sapore, per poi versare nel calice la quantità necessaria per l’assaggio. Ma lei, con un cenno della mano, lo aveva invitato a non fermarsi. Aveva voglia di bere senza perdere altro tempo. Buttato giù un lungo sorso, aveva respirato a fondo, lasciandosi andare un po’ all’indietro con la nuca.

    Poi si era sfilata gli occhiali appoggiandoli sul tavolo. Dagli occhi chiari era uscita la malinconia, come un vento leggero.

    Era arrivato il momento dell’ordinazione.

    Bene, signora, che cosa desidera mangiare? Qui abbiamo dell’ottimo pesce. Spaghetti alle vongole, agli scampi, ai frutti di mare… oppure, se vuole saltare il primo, le suggerisco una tagliata di spada e rucola, o un piatto di calamari fritti, seppioline alla griglia… ma anche un semplice branzino al sale, e si era asciugato la fronte con un tovagliolo, … o forse una bella insalata di...

    Lei lo aveva interrotto bruscamente: Meglio una pizza.

    Ottima scelta, signora. La nostra è la vera pizza napoletana, quella con l’impasto a lunga lievitazione e un mix di farine macinate a pietra e il cameriere aveva gonfiato il petto, neanche fosse lui l’artefice di tanta bontà. Adesso è agosto, Milano si è svuotata, ma vedesse negli altri mesi dell’anno… le persone qui fanno la coda. Come gliela faccio preparare? Ne abbiamo un’infinità. Una più gustosa dell’altra.

    La sconosciuta si era rimessa gli occhiali da sole.

    Faccia lei aveva sussurrato.

    Il cameriere aveva capito che con una cliente di così poche avare parole non era il caso di insistere: Non la deluderò, signora.

    Un rapido dietrofront ed era rientrato nel locale, lasciandola sola. Ma ci aveva pensato uno dei disperati presenti nella piazza a importunarla.

    Señora, me regala un cigarillo? aveva implorato reggendosi a malapena sulle gambe. Il suo alito puzzava di alcol e aveva una brutta tosse, profonda e grassa. Indossava una maglietta sporca, fradicia di sudore, e gli mancavano gli incisivi superiori.

    È il mio compleanno, por favor… aveva aggiunto. Era quello che diceva a tutti, ogni giorno.

    Lei, senza esitazioni, gli aveva regalato il pacchetto intero. Poi, rovistando nella borsa, aveva estratto anche una banconota da cinquanta euro e gliela aveva allungata accennando un vago sorriso: Auguri, señor.

    E mentre lui aveva ripreso a tossire boccheggiando e si sperticava in mille ringraziamenti facendosi più volte il segno della croce, la donna aveva già smesso di dargli retta. La sua attenzione era stata catturata da un uomo che procedeva lentamente sul marciapiede a metà tra le aiuole alberate ricoperte di ghiaia e quelle cespugliose disseminate di rifiuti: bottiglie di plastica, pezzi di vetro, fazzolettini, escrementi.

    Aveva tutta l’aria della persona distinta e di buon gusto: una camicia Oxford di un rosa pallido, i pantaloni in gabardine color panna, la giacca di lino blu tenuta sul braccio e una valigetta di pelle in mano. Era bastato uno sguardo furtivo, forse un rapido cenno d’intesa, perché la donna si alzasse e, afferrata la borsa, si avviasse dietro di lui. Attraversata la strada, entrambi si erano diretti verso l’entrata dei giardini pubblici accanto alla Torre Rasini.

    Così, quando il cameriere era ritornato al tavolo reggendo in mano una pizza Regina – pomodoro, fior di latte e tonno, secondo la ricetta della casa – preparata in onore di quell’affascinante sconosciuta, lei non c’era più.

    Al suo posto aveva lasciato solo un intenso profumo di mistero.

    2.

    Il giorno in cui morì

    Il giorno in cui morì aveva aperto gli occhi prima del solito. Non era stata la provvidenza a regalare a Maurizio Del Fa qualche ora di veglia in più, bensì il suo cane: un Weimaraner che lo fissava con i suoi occhi azzurri e aveva cominciato a grattargli il braccio che penzolava dal letto, mentre il display della sveglia digitale appoggiata sul marmo nero del comodino in stile Impero segnava le 05:47.

    Era stata sua figlia Odette a portarlo a casa di sorpresa, una vigilia di Natale, con dieci invitati a cena già seduti a tavola. Lui è Prince, me ne occuperò io aveva rassicurato i genitori perplessi, tenendo il cucciolo in braccio e tempestandolo di baci. Poi, traferitasi in Inghilterra per studiare alla London School of Art, lo aveva lasciato ai genitori. Ora, alla veneranda età di tredici anni, Prince era diventato incontinente, ma come ogni cane non aveva perso la dignità, e mai si sarebbe permesso di seminare i propri bisogni fisiologici su uno dei tanti pregiati tappeti persiani, turchi e cinesi o in un qualsiasi angolo della grande casa.

    Santo cielo aveva bisbigliato l’uomo, maledicendo tra sé e sé l’assenza di Blady, il domestico fisso peruviano a cui aveva concesso un giorno di permesso. Erano mesi che lamentava un dolore a una caviglia e finalmente lo aveva lasciato libero di andare a fare tutti gli accertamenti necessari in ospedale.

    Poi si era voltato dall’altro lato, dove la moglie continuava a dormire, ma i guaiti di Prince non lasciavano scampo. Così non aveva potuto fare altro che indossare i primi vestiti che gli erano capitati a tiro, prendere il guinzaglio ed entrare nell’ascensore che aveva l’accesso diretto dall’appartamento.

    Allo specchio, mentre raggiungeva il piano terra, si era guardato le rughe sotto gli occhi neri e i capelli, che erano stati biondi e fluenti, adesso sempre più radi e ingrigiti dal tempo. A marzo aveva compiuto cinquant’anni. Nel mezzo del cammin di nostra vita… aveva recitato a denti stretti, e il suo umore era incerto come quello di chi ha messo in moto un meccanismo complesso.

    Il caso, il destino, il libero arbitrio: tutto aveva contribuito, in giuste dosi, a fargli raggiungere i suoi obiettivi. Era riuscito a entrare nel bel mondo, aveva tanti soldi, una professione che lo gratificava, una famiglia perfetta da esibire. Persino il grande Richard Avedon, pochi mesi prima di morire, li aveva immortalati tutti insieme – lui, la moglie e la piccola Odette – in una serie di scatti fotografici in bianco e nero apparsi poi su una patinata rivista internazionale. Eppure, da qualche mese, si sentiva tormentato da una strana sensazione di disagio, un vago malessere che serpeggiava dentro, e non riusciva a mettere a fuoco il motivo. O forse preferiva non farlo, perché nulla doveva intaccare la sua serenità, simulata o autentica che fosse.

    Uscendo dal portone, in una via Morelli addormentata, aveva avvertito sulla pelle un soffio di aria calda. Sarebbe stata l’ennesima giornata insopportabile. Aveva atteso che Prince liberasse la vescica sullo pneumatico di un’automobile, e nel frattempo si era acceso una sigaretta. Gli era bastato un tiro perché il pensiero volasse a Maxime. Ai suoi capelli chiari e cortissimi, come la barba, gli occhi di ghiaccio, la voce calda, sensuale. E aveva pregustato il tempo che avrebbero trascorso insieme, non appena sua moglie Aliya fosse partita per qualche giorno di vacanza. Era sicuro che lei non avesse mai sospettato nulla, anche se una volta era stato sfiorato dal dubbio che qualcuno lo pedinasse. Un investigatore privato? Un killer? O forse era stata solo un’impressione, frutto della sua coscienza sporca? Ma sì, doveva essere così. In fondo era sempre stato bravo a mentire, e di questo se ne faceva un vanto.

    Intanto Prince lo aveva trascinato in viale Majno, dove Maurizio aveva attraversato la strada sovrappensiero senza guardarsi intorno – non circolavano veicoli così presto, in quell’agosto torrido – e aveva raggiunto l’aiuola a metà tra le carreggiate.

    Mentre il cane annusava l’erba alla ricerca di un’ispirazione, aveva osservato le ampie chiome degli aceri di monte, e poi i loro tronchi. Quel legno viene utilizzato per i fondi armonici dei violini, gli aveva spiegato una volta un anziano maestro di musica residente in zona, proprietario di un barboncino.

    Per una strana coincidenza, Maxime era proprio un violinista – suonava nell’orchestra della Scala – e Maurizio lo aveva conosciuto il giorno stesso in cui aveva appreso quel cenno di botanica.

    Era rientrato a casa più in pace con se stesso e dopo aver dato da mangiare a Prince, si era preparato un caffè, aveva fatto una doccia ed era tornato in camera da letto per cambiarsi d’abito. Anche tra le mura domestiche gli piaceva sentirsi sempre in ordine.

    Aliya era ancora rannicchiata tra le lenzuola di lino, illuminata da un raggio di sole che filtrava attraverso le persiane. La aveva osservata a lungo, fermo sulla soglia. Non era una gran bellezza, non lo era mai stata. Il suo fascino era altrove, negli istituti bancari e nelle proprietà immobiliari di mezzo mondo. Le labbra sottili e sigillate le davano un’espressione dura e beffarda, anche nel sonno. Poi aveva aperto gli occhi, e nel suo sguardo era balenato uno strano bagliore che si era spento subito.

    Che ore sono? aveva domandato, la voce impastata di sonno.

    Le sei e un quarto.

    Sarà meglio che mi alzi. Ho fatto un brutto sogno, ma lui non si era premurato di chiederle dettagli.

    Partirò subito, poi aveva sbadigliato, Valeria mi ha detto che c’è anche George a Laglio e aveva appoggiato i piedi nudi sul parquet in rovere con tanti rombi con una clessidra disegnata al centro. Come a ricordare in ogni istante lo scorrere del tempo. Lento e inesorabile.

    Sarai in buona compagnia, t’invidio.

    E allora perché non vieni anche tu?

    Te l’ho già detto che devo concludere la vendita dell’appartamento in via Bigli. L’acquirente è del Qatar. Per loro agosto è un mese come un altro.

    Lei aveva spalancato le persiane ed era rimasta immobile a guardare fuori dalla finestra, gli occhi offuscati sul cielo senza nuvole. Un’ombra di sorriso era apparsa sul suo volto.

    Lo sai che è come se le vedessi su uno schermo le tue storie amorose durante la mia assenza? aveva insinuato. Bouquet di fiori, viaggi in Mercedes a Portofino, cene a lume di candela in piazzetta, e aveva sospirato, … cose di questo genere, insomma.

    Era questo il tuo incubo? aveva replicato lui con una nota di sarcasmo.

    Aliya aveva scosso la testa senza fiatare. Poi si era passata una mano tra i lunghi capelli neri ed era andata a chiudersi nel bagno padronale, dove sarebbe rimasta per più di un’ora.

    Dopo la sua partenza, Maurizio si era premurato di telefonare sia a Rosa, la signora italiana che si occupava delle grandi pulizie, sia a Mary, addetta al lavaggio e allo stiro della biancheria, per avvisare entrambe di non venire quel giorno. Poi aveva trascorso molte ore seduto su uno dei due divani bianchi nel salone, fissando le geometrie del quadro di Eugenio Carmi appeso a una parete, che Aliya aveva acquistato in un pomeriggio autunnale di pioggia e di noia a Brera.

    In questa casa c’è bisogno di colore aveva detto al marito mostrandogli il dipinto …come nella nostra vita e lui aveva annuito, niente di più.

    La pittura astratta lo affascinava, ma non ci aveva mai capito più di tanto. Aveva sempre preferito altri stili. Ora, però, quel triangolo di bande variopinte cominciava a suggerirgli un messaggio. Forse era una vela? E quel punto in cui il triangolo convergeva era una barca pronta a salpare verso nuovi lidi?

    Il suo torpore era stato interrotto soltanto da diverse altre uscite con Prince, quando ormai si faticava a respirare per il caldo, e un paio di chiamate di lavoro. Aveva mangiato uno yogurt greco ai mirtilli e una mela – si era ripromesso di buttare giù qualche chilo – e ascoltando il quartetto per archi numero 15 di Schubert gli era tornato il buonumore di sempre, o meglio l’incertezza era sparita come una nuvola spinta da un vento

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