Piume sotto Vetro
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Anteprima del libro
Piume sotto Vetro - Paolo Tagliapietra
Tiziana
Capitolo 1
luglio 1996, Torino
Il platano che stava proprio in mezzo alla piazzetta, davanti alla chiesa, doveva avere almeno cento anni.
A memoria di abitanti del borgo, tutti se lo ricordavano lì, sempre grande uguale. Era il riferimento per appuntamenti, gioco per i nascondini, ombra per le auto d’estate.
Ormai quella piazza era diventata solo un parcheggio, più comodo rispetto a trovare un posto sul corso o tra le vie laterali.
Un tempo era lo spazio per i tram a cavallo, la zona di attesa, prima del giro verso il centro di Torino.
Il tronco possente, quasi muscoloso, le striature e i nodi sembravano dare ancora più forza a quella figura. Come un grande braccio uscito da quel terreno asciutto, spingeva, in direzione del cielo, i rami più sottili, i più esili, quelli che sostenevano le foglie larghe, quasi vellutate. In primavera erano sicuramente molte di più, ma il gran caldo di quell’estate ne aveva già fatto cadere un gran numero.
Non era il solo ad aver perso parte della sua folta chioma. Anche i suoi simili, che stavano lungo il viale del parco Michelotti, sembravano già un quadro d’autunno.
Le leggende e i racconti intorno a quel platano davanti alla chiesa, colorivano spesso i discorsi di quelli che stavano a parlare lì sotto. La fantasia sui segni e sui più diversi oggetti rinvenuti vicino a quel tronco o sui rami, faceva eco ad altrettante vicende narrate.
Un esempio il fulmine che lo aveva, in parte, colpito all’inizio del ‘900 o le testate di qualcuno che gli aveva dato. Sì, una certa sera tre amici si erano dati appuntamento proprio lì, ma nel giro di pochi minuti quattro attaccabrighe, stavano già loro intorno. Dai primi sfottò passarono in fretta ad atteggiamenti più pesanti ma, alla richiesta di avere i loro portafogli, le mani da meccanico con le braccia da lottatore di uno dei tre, finirono dirette sulle facce poco simpatiche dei quattro intrusi che incassarono senza troppo reagire.
Per evitare discussioni all’arrivo della polizia, che qualcuno dalle case vicino aveva già chiamato, il meccanico lottatore pensò bene di reclamare la legittima difesa, tirando due testate al tronco del platano, per dimostrare di essere stato colpito e che aveva dovuto, purtroppo, difendersi. Da quel giorno tutti gli amici del meccanico, quando entravano in officina, battevano, piano però, la testa sul muro d’ingresso come un anticipo di saluto.
Sotto quel platano si fermava spesso la vecchietta dei colombi, una signora piccina che arrivava quotidianamente con una borsa dai lunghi manici, una sporta, per portare sacchetti di pane raffermo. Mentre arrivava, squadre di colombi cominciavano ad avvicinarsi alla piazzetta, si posavano e camminavano lenti, con la loro testa snodata, verso di lei. Non faceva in tempo a tirare fuori i sacchetti con il pane, che, nuvole di colombi, la sovrastavano. Letteralmente sommersa da quello svolazzare grigio e blu, scompariva nella polvere delle foglie, con il rischio di rovinare a terra.
Quei due, tre sacchetti di pane sbriciolato, sparivano in pochi minuti per opera di uno spropositato numero di piccioni e da qualche passero audace, che s’infilava velocemente tra quelli meno voraci. Sicuramente l’anziana signora parlava con loro, cercava di rassicurarli, dicendo che di pane ce n’era per tutti.
La si vedeva col cappotto d’inverno, un soprabito in primavera e un vestito chiaro, fino alle caviglie, d’estate.
Capelli bianchi, raccolti, passo lento, lentissimo.
Non tutti amavano quella coreografia di piccioni.
«Portano malattie».
Nemmeno il parroco era tanto contento di tutto quel movimento, creature di Dio, certo, ma, alla fine gli toccava spazzare il sagrato.
Favorevoli o contrari, la vecchina era lì a dispensare pane ai suoi colombi. Pioggia, sole, vento, neve, lei c’era. La chiamavano Adelina, se fosse il suo vero nome, non era dato sapere. Una volta, in occasione di una grande neve Adelina scese nel piazzale con un badile per fare spazio intorno al platano e versarvi le briciole. Naturalmente i commenti furono tutti per gli spazzaneve comunali che arrivarono ben dopo di lei. Durante la grande nevicata dell’85, uno dei grossi rami del platano si spezzò, per finire sulla cabina telefonica che avevano appena cambiato. Anche quello fu uno dei tanti segnali che furono interpretati come la volontà della Natura di reclamare i suoi spazi.
Diciamo che ogni pretesto era buono per far parlare del quartiere: Corso Casale era il posto giusto dove far transitare notizie, clamori, pettegolezzi ed eventi. Uno di questi era la Fiera dell’Antiquariato e dell’Antico. Forse sembravano solo quelle cose che si trovavano smontando le soffitte della nonna e della zia, cose vecchie radunate in un grande spazio che era il Motovelodromo. Due volte l’anno era il momento in cui privati e operatori allestivano i loro banchi pieni di passato, in un posto in cui avevano gareggiato in bici, di corsa e a rugby, centinaia di atleti.
Quegli eventi diventavano un momento d’incontro o di curiosità, molti, con la loro mercanzia, speravano che lo stesso vicino di banchetto di tre mesi prima, non avesse trovato nulla di valore da proporre, piccolo pensiero cattivo per non vedere passare la propria merce in secondo piano. In questo caso era tutto oro quello che luccicava.
Luca Perino dell’antiquario non aveva il piglio, ma solo la passione. Non girava il mondo alla ricerca di tesori sepolti o nascosti nei pavimenti, ma era solo interessato al Barocco piemontese, poltrone, credenze, mobili intarsiati, ricchi di incisioni curve e a spirale, che s’intrecciavano continuamente, fino a far perdere il filo delle forme di chi guardava.
Era così appassionato che lo avevano legato, da molto tempo, al soprannome di Luca Antico, giusto per inquadrarlo nel genere. Gli amici, la moglie, lo chiamavano così. La condizione unica e necessaria per il suo matrimonio, fu che nessuno di quei mobili avrebbe varcato la soglia domestica. Sua moglie preferiva di gran lunga il fai da te svedese. Per lui andava bene. Si accontentava di poter tenere quello che riusciva a trovare in un grande magazzino, luminoso e asciutto, dove trascorreva gran parte del suo tempo, sabato compreso. Aveva schede complete per ogni pezzo posseduto, una carta d’identità artistica per ogni manufatto.
Difficile che la polvere rimanesse su quel mobilio. Stracci in lana e cotone, cera d’api, trementina, alcool, aceto, aveva tutto per tenerli in perfetto ordine.
Gli affari non mancavano, aveva un piccolo giro di clienti che alimentavano il passaparola con altri potenziali compratori. Spesso arrivavano collezionisti francesi a cercare pezzi particolari.
Avesse dovuto campare solo di questo, forse non avrebbe potuto permettersi una casa al mare, dove, ogni tanto stava.
Però aver lavorato diciannove anni sei mesi e un giorno come infermiere, gli permetteva una certa pensione che aveva cominciato a riscuotere a soli trentasette anni.
Certo, tutto era stato giustificato dalla necessità di seguire il padre malato a casa ma voglia di stare a lavorare in ospedale, lui non ne aveva più.
La sua figura e il suo modo di fare, indicavano l’inerzia della sua vita. Capelli rossicci, lentiggini e qualche chilo di troppo lo facevano apparire come un tipo pacioso, poco incline all’affanno e alla frenesia. Sapeva, però, farsi valere quando doveva sfoderare le sue doti commerciali, apparendo particolarmente determinato.
«Luca, ma oggi sei tutto il giorno al magazzino?» gli domandava ogni sabato la moglie Maura, quasi per assicurarsene.
«Sì tesoro, devo finire di sistemare le due poltrone in noce che verranno a vedere lunedì» rispondeva lui, senza nemmeno sapere se davvero qualcuno sarebbe passato, ma prima o poi una telefonata dove cercavano due poltroncine, l’avrebbe ricevuta.
Per alcuni e particolari lavori di restauro, lo aiutava Matteo Gamba, falegname ed ebanista, appassionato anche lui dell’arte nel legno. Lavoravano occasionalmente insieme, ma si sentivano di continuo.
«Luca, sul giornale ho trovato in vendita un secretaire inizio ‘900. È a Carignano. Andiamo a vederlo?»
Così ci andava una giornata, perché in mezzo c’era la ricerca di una trattoria, il caffè e il gelato del ritorno. Erano entrambi buone forchette e quella programmazione era una consuetudine. Poi, una volta pagava uno, l’altra volta l’altro e il conto era sempre da chiudere.
Un po’ d’invidia Matteo, per Luca, l’aveva. Per la pensione magari, che lui chissà quando mai avrebbe visto, sempre sommerso di bollettini e imposte da pagare, un artigiano con spese da industriale. Ma non era la sola cosa che gli invidiava. Un certo fastidio si presentava sul senso degli affari di Luca, che lui non aveva, sulla bella parlantina, sulla moglie carina e sulla casa al mare, in pratica su tutto quanto lui non era riuscito ad avere. Si rodeva quel tanto che bastava e se lo faceva passare, sennò non sarebbe andato più avanti, convinto che, prima o poi, avrebbero fatto il botto con un bel pezzo raro da vendere profumatamente ad un ricco francese.
Se Luca avesse mai sospettato di questa velata gelosia, non se n’era accorto nessuno, che fossero in sintonia sugli intarsi o sulle tavole apparecchiate, lo sapevano tutti.
Viceversa Luca considerava Matteo come il suo amico ebanista, non molto altro di più, non necessariamente un compagno di confidenze, quelle le faceva poco anche a sua moglie, ma se aveva un dubbio sul lavoro, Matteo era la risposta giusta.
Gli affari che si procuravano a vicenda venivano riconosciuti con moneta sonante, niente accordi scritti, stretta di mano prima di tutto.
Matteo era fisicamente l’opposto di Luca, fisico asciutto, moderatamente muscoloso, capelli neri ricci, alto una spanna più dell’altro. Quando riusciva faceva canottaggio sul Po in uno dei tanti circoli canottieri che, elegantemente, confinavano sulla riva del grande fiume, prima del Valentino. Lui aveva sempre fatto il falegname, seguendo il lavoro del padre, prima del nonno ma, nella sua evoluzione, aveva voluto specializzarsi in ebanisteria e proprio in una fiera dell’antiquariato, aveva conosciuto Luca e la moglie, qualche anno prima.
«Guardi sono specializzato in ebanisteria per legni pregiati. Vi lascio il mio biglietto da visita. Ho un laboratorio a Torino. La ditta Gamba è la mia, io sono Matteo».
«Piacere, io sono Luca Perino, commercio in arte barocca da molto tempo, ma tratto antiquariato in genere. Lei è mia moglie Maura, la parte amministrativa della nostra attività. Sentiamoci la prossima settimana, cercavamo giusto un esperto di legno con cui collaborare».
Così iniziarono a sentirsi e vedersi un paio di volte anche per una cena, tutti insieme.
A Maura il falegname piaceva abbastanza ma, allo stesso tempo la urtavano certi sguardi insistenti che lui aveva e che si sentiva spesso addosso. Aveva capito benissimo che sarebbe bastato un sorriso e una parola fuori posto per compromettere quell’equilibrio di lavoro appena iniziato. Quindi alla larga dalle loro discussioni di lavoro, in fondo il suo di lavoro ufficiale lo aveva già, era sufficiente compilare il registro delle fatture quando serviva per partecipare all’attività di suo marito. Certamente non voleva giocare con la fiducia di Luca, benché il loro rapporto fosse spesso sonnolento, senza grandi slanci emotivi o passionali. Il quieto vivere.
Capitolo 2
Maura Balestrieri assistente sociale, mancata psicologa per ordini di scuderia. Suo padre, al tempo, non aveva lasciato nessuna possibilità di andare a studiare a Padova, università troppo chiacchierata, influenze negative, ambiti politici troppo presenti per un ateneo. Niente da fare.
Per contro o per presa di posizione lei sarebbe andata a lavorare in una mensa scolastica e il compromesso tra padre e figlia furono gli studi triennali per assistente sociale con successiva specializzazione che, all’inizio, non convincevano né uno né l’altra. Ma è risaputo che l’adattamento esiste e nel giro di qualche anno era diventata la sua professione, che comunque faceva con passione. Poi l’incontro con Luca all’ospedale di Moncalieri e in seguito un matrimonio, a patto, appunto, che il barocco rimanesse fuori da casa loro.
Fare l’assistente sociale in ambito di sanità pubblica era l’unico spazio che si era prospettato, ma che aveva sempre mantenuto, tirando fuori un elemento importantissimo del suo carattere che era la relazione con le persone. Spesso capitava che le persone volessero continuare gli incontri solo perché c’era lei,