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Sangue cattivo: Anatomia di una punizione
Sangue cattivo: Anatomia di una punizione
Sangue cattivo: Anatomia di una punizione
E-book245 pagine3 ore

Sangue cattivo: Anatomia di una punizione

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Info su questo ebook

Beatrice è una donna difettosa; ha dietro di sé un ruvido passato di periferia romana, in balìa degli umori di un padre tanto squilibrato da sembrare comico, e del quale è convinta di aver ereditato la follia. Il presente, proprio quando con la morte del padre sembra aprirsi a un nuovo inizio, un trasferimento, un matrimonio, è soffocato dalla scoperta di una malattia autoimmune, e cadenzato da ospedali e cure che non sembrano funzionare. La felicità deve fare i conti con la costante sensazione di punizione di Beatrice: l’idea di meritarsi il proprio dolore. Un’idea che, tuttavia, viene combattuta a colpi di ironia, affrontando le paure e trasformandole in caricature mitologiche, e donandoci una storia tanto dolorosa quanto divertente che forse può meritarsi un lieto fine, o qualcosa che gli assomiglia.
LinguaItaliano
Editoreeffequ
Data di uscita13 set 2023
ISBN9791280263919
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    Anteprima del libro

    Sangue cattivo - Beatrice Galluzzi

    1

    Febbraio è il mese sbagliato

    Sapevo che la punizione sarebbe arrivata. Non ho fatto altro che aspettarla, eppure quando si è presentata non l’ho riconosciuta. Mi ero immaginata una sciagura improvvisa, un tir che invade la mia corsia, l’auto in fiamme accartocciata come una lattina, un aereo che precipita – anche se questa era piuttosto improbabile, data la mia paura di volare; un colpo apoplettico, un’emorragia cerebrale o un male più subdolo: io che mi palpo il seno sotto la doccia, sento un nodulo, e mi danno due mesi di vita.

    E invece è cominciato tutto dalle caviglie.

    Sono sempre state più scarne del normale, le mie caviglie, che io fossi magra o sovrappeso i miei stinchi rinsecchiti sembravano a malapena in grado di tenermi in equilibrio. E poi all’improvviso sono lì che guardo il malleolo scomparire sotto strati di grasso, il collo del piede gonfio come un panino al latte. Le scarpe non mi entrano più, tranne quelle di due numeri più grandi, e mi tocca andare in giro con enormi Nike numero quarantatré che mi fanno assomigliare a un gigante affaticato e triste. Ma non è la mancanza di grazia ad abbattermi, né la comparsa di strane deformità: in me non c’è più un anelito di forza. Io che ero l’invidia degli spossati – beata te, che hai tutta quest’energia! – faccio fatica a muovere i muscoli involontari, figuriamoci mettere un passo dopo l’altro. C’è qualcosa che è andato storto, nel mio corpo, e deve rimanere nascosto assieme agli altri malfunzionamenti. Chi ha voglia di sentire qualcuno che si lamenta? Di certo non io, che rischio di scocciarmi da sola, né Aldo, il mio futuro marito, che dice di essersi innamorato di me perché sono sempre solare e propositiva. Ignaro di ciò che nascondo sotto il tappeto della mia apparenza salubre, mi definisce la sua dea perché sono colei per la quale ha combattuto, che lo ha ispirato a cambiare vita, e per cui adesso si è trasferito lontano dalla sua famiglia – sfidando una sorte che già si preannunciava sfavorevole – e il tutto senza un’ombra di tentennamento. Gliel’ho promesso, che lo avrei seguito all’altare, e devo comportarmi da promessa sposa. Non posso sentirmi male, non posso lasciarmi andare sul più bello. Così faccio il doppio, il triplo della fatica. Mentre mi sforzo di camminare mi sforzo anche di sorridere.

    Il primo medico a cui ho chiesto un consulto riguardo alla metamorfosi delle mie caviglie è stato il dottore di famiglia. Ha assistito all’altalenare della mia salute per anni, ed era talmente abituato ad avermi attorno che quando non mi sentiva per più di due settimane trovavo i suoi messaggi in segreteria. Diceva di essere preoccupato, ma sapevo che in realtà gli mancavo. Ero la sua paziente più affezionata, tra le più giovani, e anche se gli davo un gran da fare sdrammatizzavo sempre, facendo battute sul fatto che fossi un regalo con una bella confezione ma dal contenuto piuttosto scadente. È così che me lo ricordo l’ultima volta che l’ho visto: in ginocchio, mentre tiene tra le mani il mio grosso piede come se dovesse calzarmi una scarpetta di cristallo, mi dice che il gonfiore è probabilmente un problema posturale, e non tira su la testa perché sa che sto per trasferirmi, che presto troverò un altro dottore, che all’inizio lo chiamerò per sentire come sta e poi non mi farò più sentire.

    L’altro dottore, però, non l’ho ancora trovato. A dire il vero non mi sono nemmeno sforzata di cercarlo. Ho paura che non verrei presa sul serio, perché è questo che succede quando un medico non mi conosce: pensa che io menta. Vado alle visite appena uscita dal parrucchiere e con le guance belle rosse per il fard, elenco sintomi piuttosto seri mentre scherzo. Dico delle articolazioni molli, della difficoltà a respirare, dell’aumento di adipe intorno alle caviglie mentre accavallo le gambe e mi sposto i boccoli lucidi dal viso; parlo della sete continua e della spossatezza mentre passo la lingua sopra i denti per cancellare eventuali segni di rossetto; squittisco, faccio spallucce. Sembro tutto fuorché malata. Lo specialista lo scelgo sempre io, stavolta è un dietologo.

    Sto ingrassando e le mie gambe sono gonfie per via dell’alimentazione, me lo sento: nell’ultimo periodo ho mangiato troppo, male, mi sono lasciata andare e devo rimettermi in sesto – sono venuta in Toscana per questo: ricominciare dal punto di partenza. Il nutrizionista mi dà una dieta a base di proteine che io seguo alla lettera, le energie non aumentano, ne disperdo l’ultimo residuo; invece di dimagrire, prendo peso. Il gonfiore non è più circoscritto, si espande, e sale verso le ginocchia, riempiendo i polpacci, si infiltra nelle articolazioni che comincio a muovere male; le cosce si riempiono di una cellulite che mi è estranea. Cambio la taglia dei pantaloni perché le caviglie non riescono a sbucare dai jeans, i bottoni in vita non si chiudono, quando mi levo i calzini rimangono i segni delle cuciture sui piedi.

    I movimenti sono sempre più impacciati – se mi piego sulle ginocchia sento un ingombro dietro alla rotula, come se avessi un cuscinetto d’acqua a farmi da spessore – e le caviglie sono gonfie e tese, non riesco più a ruotarle. A tutto questo si aggiunge il dolore. Cammino su un tappeto di schegge.

    Dai calcagni partono scariche elettriche che attraversano i polpacci, e a volte si propagano sulle anche e dietro la schiena.

    Giro per la casa appoggiandomi ai muri per non cadere. Se cedo a qualche lamento non faccio cenno di sofferenza, ma ironizzo sulla mia deformità, sul fatto che devo rifarmi il guardaroba. Di tanto in tanto ammetto di avere sonno. Così il mio diventa un teatrino del borbottio – e guarda qua, sembro una balena; me ne vado a letto, così non penso a quanto fa schifo la mia vita. Quando Aldo non c’è, e rimango sola con mia madre, conservo l’energia che di solito uso per fingere e occupo gli spazi di cui il mio malessere ha bisogno: mi siedo, mi allungo, metto le braccia sui fianchi per tenermi in equilibrio, a volte mi esce un non ce la posso fare sottile come un sibilo. Se mia madre se ne accorge sbuffa e alza gli occhi. So di non essere la sola autorizzata a soffrire, c’è prima lei, c’è prima la vedova. Io sono solo la figlia di qualcuno o solo la sposa di qualcun altro.

    E poi me lo merito, perché io sono la sopravvissuta. Mia madre mi osserva dal foro minuscolo delle sue palpebre, e ogni volta che si spazientisce una parte del mio stomaco si serra e l’epiglottide comincia a tremare – non stai davvero male, è solo un problema psicologico. Quella della cagionevolezza è una pelle più calzante della mia, e lei lo sa. Gli sforzi per occultare i miei malori non funzionano: ne capta i segnali nell’aria, scorge le carenze del mio sangue sotto al colorito traslucido e alle borse attorno agli occhi. Le fattezze spigolose dei miei lineamenti – insolite, rispetto al mio aumento di peso – sono un’insegna lampeggiante che attira la sua attenzione, e che non riesco a celarle semplicemente ruotando la testa. Lei mi guarda e non vede una figlia che sta male, ma un altro problema.

    «Se ti fanno male ’ste gambe, che aspetti a fartele vedere?»

    Finisco per assecondarla: prenoto un consulto da un angiologo.

    Mentre il medico armeggia coi pulsanti, sul monitor si attorcigliano masse liquide, mappe di terre appena emerse che si inabissano di nuovo; a tratti si affacciano lampi rossi. È tutto buio tranne lo schermo che manda indietro i riverberi bluastri degli oggetti bianchi, il lettino, il camice. Un altro pulsante e si aprono i suoni: battiti amplificati da uno stereo, scudisciate ritmate per aria. Le mie vene hanno un suono, eppure le credevo silenziose come lombrichi.

    Il medico rimane per lunghi minuti in silenzio, mentre disegna linee tra le mie caviglie, l’interno coscia e l’inguine. La sonda ci scivola sopra, pattina sul liquido gelatinoso che mi provoca ondate di freddo e solletico; insiste su alcuni punti, rimane immobile, sospira, scatta fermi immagine.

    «Nella circolazione non c’è niente che non va» dice. Poi solleva bruscamente la sonda, la ripone sul macchinario e accende la luce.

    Faccio un po’ fatica ad abituare gli occhi al neon ma vedo Aldo che si alza dalla sedia davanti alla scrivania. Il dottore mi passa uno strappo di carta per asciugarmi: «Le farebbe bene camminare al mare. Fare su e giù dentro l’acqua salata fino a qui» si accosta la mano al punto vita. «Per un’oretta, tutti i giorni».

    «A febbraio?» gli chiedo.

    «A febbraio».

    Ci farei andare lui, a febbraio. Ho già i brividi in questo studio riscaldato. Sulla pelle delle gambe si affacciano lunghe striature rosse. Mi levo dalle cosce il gel con troppa foga: non si assorbe, si spande. Aldo lo capisce, e si adopera per srotolare altra carta dalla bobina appesa al muro. Io sfrego, sfrego di nuovo, come a volermi levare uno strato di pelle e dimostrare al dottore che si è sbagliato – guarda che c’è qui dentro, tu che hai studiato! – ma lui, senza congedarsi, ci dà le spalle ed esce dalla stanza. Non so se ne è andato per tornare oppure ci ha lasciati semplicemente lì con l’intento di farci uscire il prima possibile. Ma di una cosa sono sicura: non mi ha creduto.

    Io sfrego, sfrego ancora, con tutte e due le mani, ma non riesco a togliermi di dosso la sensazione di pelle bagnata, e di giudizio. Aldo prende altra carta: «Aspetta, ti aiuto io» mi fa; «non lo vedi che così fai peggio?»

    Lascio che mi asciughi i fianchi, tamponando con movimenti controllati; ci mette troppo tempo, gli dico di smettere, che così va bene – non è vero, ma voglio uscire di qui. Scendo dal lettino, prendo i pantaloni sulla sedia; per infilarli mi appoggio alla scrivania e mi rimane solo una mano libera; non riesco a piegarmi sulle ginocchia, sento gli occhi di Aldo addosso – ti serve aiuto, ammettilo. Mi giro, lo guardo male, lui mi lascia fare.

    Una volta entrati in macchina, alzo entrambe le gambe e poggio i piedi sul cruscotto. Se le tengo in alto il dolore si allenta.

    «Guarda che se inchiodo ti fai male» mi fa Aldo mentre accende l’auto.

    «E tu non inchiodare».

    Non metto la cintura, sento che persino quella mi sta stretta, come i vestiti. Se Aldo facesse davvero una frenata brusca finirei con i piedi piantati nel parabrezza, schizzerei fuori dall’abitacolo, forse rimarrei paralizzata, le gambe spezzate in vari punti. Dovrebbero amputarmele? Meglio senza o con le gambe sempre più deformi? Dopo qualche minuto di silenzio – non so chi dei due lo sopporti meno – mi chiede perché sono nervosa.

    «Centocinquanta euro. E per dirmi cosa, di fare un giro in spiaggia?»

    «Ti ha detto in acqua, non in spiaggia».

    «Io non ci vado al mare con questo freddo».

    «Devi temprarti, invece che stare lì a vestirti come se dovessi andare in montagna».

    Mi stringo nella giacca, anche se in macchina l’aria calda è al massimo. So che non sono i soldi il problema. Il medico cercava qualcosa, tra quelle vene, ma in realtà si stava domandando perché mai una ragazza sana, con le gambe un po’ gonfie – e comunque più magre della media – gli avesse fatto perdere tempo con un ecocolordoppler.

    Aldo guida con la sua consueta calma, fissando la strada davanti a sé ma percependo ogni mia piccola incertezza. Il cielo non si fa vedere nello splendore a cui sono abituata da quando siamo venuti a vivere qui. Gli spazi aperti e i campi regolari e perfettamente combacianti, i colori vividi delle diverse colture che si esasperano uno accanto all’altro oggi mi appaiono spenti e comuni. Che ci sono tornata a fare a vivere in questo posto se non mi dà il sollievo che speravo?

    «Secondo me l’ha buttata lì» gli dico «giusto per non mandarci via a mani vuote. Sai quante cose potevamo farci, con quei soldi?»

    «Dovresti essere contenta. Pensa se ti avesse detto che hai una trombosi, o una di quelle malattie che stai sempre a cercare su internet».

    Si gira impercettibilmente per farmi vedere che sorride. La sua non è gioia né un tentativo di incoraggiamento. È l’impegno nel fidarsi di me che vacilla. Vorrei dirgli che tutto è andato in frantumi, lì. Il mio corpo è fatto di parti che si tengono insieme ma non comunicano più tra loro. Sono combattuta tra il dimostrargli di stare male sul serio, mostrandomi fiacca e malandata, scendere dal tempio adulatorio nel quale mi ha incastonato – dove sono intoccabile ma anche impotente – confermando la mia tesi per cui i medici continuano a non capire, anche a loro sfugge qualcosa; oppure continuare a descrivere i miei sintomi esasperandoli in teorie assurde, per rendermi ridicola, come fossero qualcosa di altro da me, parlarne come si parla di un film che non c’è piaciuto; smetterla di reiterare abitudini che rassicurano lui ma non me: truccarmi, pettinarmi, provare i sorrisi allo specchio, fare l’amore con il massimo del trasporto racimolando energie come fossero coriandoli sparsi, dispersi nelle piazze ormai vuote quando il carnevale è finito da un pezzo.

    «E se avessi davvero l’elefantiasi? La filariosi? Se mi fossi presa uno di quei parassiti che entrano nel sistema linfatico? Hai visto in che condizioni era quella gente, alcuni non riuscivano nemmeno a camminare» dico.

    «Ma tu non stai così, hai solo le caviglie gonfie!»

    «E se facessi la fine loro?»

    «È gente dei paesi tropicali».

    «Magari l’ho presa a Bali, a forza di mangiare tutta quella frutta».

    «Quattro anni fa?»

    «E allora? Il parassita si è annidato nel cervello fino a oggi».

    «Ecco spiegato perché ti sei rimbecillita».

    Levo le gambe dal cruscotto, metto un piede sul ginocchio opposto. Sollevo l’orlo della tuta, tiro giù un pezzo di calzino e scopro un lembo di pelle della caviglia. Ci affondo due dita dentro. Non riesco a sentire le ossa.

    «Smettila di controllarti in continuazione» dice lui.

    Mi ritiro giù i pantaloni.

    «Passa di là» gli dico.

    Al bivio lui svolta a sinistra e imbocca la strada litoranea che costeggia il parco della Sterpaia. Entrambe le carreggiate sono sgombre, a perdita d’occhio ci sono terreni disseminati di piccole paludi, in cui appaiono qua a là le sagome lattee degli uccelli migratori; verso la costa i pini formano una catena di ombrelloni verdi, a malapena intaccati dal vento, anche se i loro tronchi sono attorcigliati come grosse anaconde di pietra; e in mezzo a tutto si ergono le due torri dell’Enel, bianche e rosse, romantiche come due fari, tossiche, ancorate a un paesaggio che non potrebbe farne a meno.

    «Andiamoci adesso».

    «Dove?»

    «Al mare».

    «Allora dobbiamo tornare indietro, abbiamo superato l’ultimo svincolo».

    «Qui l’acqua è troppo bassa... arriviamo a San Vincenzo».

    «Ma come fai con i vestiti? Te li bagni? È meglio passare da casa».

    «Tanto mi devo spogliare». Tiro su il maglione, e scopro la pancia: la pelle tesa, l’addome gonfio. «Hai sentito che ha detto il dottore? L’acqua mi deve arrivare fino a qui».

    Durante certe burrasche invernali il mare di San Vincenzo si carica di toni di un blu intenso, e in alcuni punti il fondale si smorza, diventando del colore dei vetri consumati dalla sabbia; guardando il promontorio che va verso Livorno si vedono le onde mangiare la spiaggia a grandi morsi come denti bianchi e liquidi. Bisogna stare attenti, così mi ha detto la gente del posto: proprio a ridosso della riva ci sono delle buche che ti risucchiano a tradimento, e ogni anno ci scappa il morto; succede anche a chi sa nuotare: finisce in mezzo a un mulinello e quello ti porta a largo, o sul fondo. I bagnini sanno che questo è un posto impegnativo per lavorarci, non possono guardare all’orizzonte in modo blando, né avere il tempo di fare una pausa; spesso sono affiancati a qualcuno che ha assistito a una rianimazione andata male, e ha poggiato l’orecchio per ascoltare il cuore di un bambino come si fa con una conchiglia vuota.

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