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Non ho smesso di vivere mai
Non ho smesso di vivere mai
Non ho smesso di vivere mai
E-book101 pagine1 ora

Non ho smesso di vivere mai

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Info su questo ebook

Vieni mia madre bella
che entriamo nello spazio a bordo della navicella. 
Andiamo dove il tempo è relativo e 
tu mi resti accanto ancora giovane e viva. 
Vieni e annunciamo la novella. 
Abbiamo comprato il biglietto 
al negozio accanto al ferramenta. 
Andremo dove i desideri fanno battere il cuore 
così forte da sembrare veri. 
Staccheremo le nostre mani
davanti alla porta 
dove ci abbracceremo
come fosse l’ultima volta.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2022
ISBN9791220133531
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    Anteprima del libro

    Non ho smesso di vivere mai - Cristina Figuccio

    Prefazione

    IL FIGLIO DEL MONDO

    Mi arriva una notifica: «Vuoi scrivere il romanzo della tua vita?».

    «Sì, lo voglio»

    Voglio che il figlio che non ho mai avuto perché l’ho rimandato indietro con la pillola del giorno dopo, quel bimbo che non ho cercato negli spermatozoi papabili di un uomo – dapprima per paura del mondo, dopo perché lo volevo solo io – voglio che lui, finito per proiezione cosmica nella maternità di un’altra madre, mi ascolti.

    Voglio dare tutto l’amore che ho ricevuto. L’amore di una madre. A lui che sarà un uomo confuso tra l’avere tutto e il non avere qualcosa. A lei che sarà donna solo perché non nata uomo. Voglio consolare il figlio del mondo. Tenerlo stretto al cuore e dirgli: «Scappa e abbi paura quando credi. Sii capriolo e raganella: mimetizzati. Non farti prendere. Sii orso nel letargo, albero che ripara la linfa, difenditi. Datti all’attesa. Abbi il coraggio di avere timore. Sii pure leone, re della foresta, pronto però a consegnare lo scettro in ogni momento. Sii tutte le probabilità e gli imprevisti. Saziati della tua vita, rigurgitala, graffiatela sulla pelle, e col sangue riscrivi l’epigrafe, il riassunto della tua fiera umiltà. Figlio mio, ascoltati: tieni per te le parole necessarie a restare pulsante. Ad amare.

    Figlio mio, figlio dell’Universo. Ama. Ama questa terra, ama tutto di essa e non avrai altro da fare perché non avrai smesso di vivere mai.

    Non dare nulla per ovvio. Sei nato e questa è la tua prima vittoria. Hai un corpo sano, sei a fusione perfetta di cromosomi precisi, accudito da due genitori che, credendo lo potranno fare bene, ti stanno crescendo. Allora rendi onore a questa anteprima. Stai cominciando i tuoi giorni nell’età della plastica riciclata, del rimedio all’abuso in quella parte di ingiusto mondo dove non si muore di fame, né di malattie pediatriche. Socializzerai all’asilo dove le tue turbe verranno attenzionate sul nascere. Andrai a scuola, a calcio, a pattinare, a sciare. Andrai in vacanza istruttiva, poi scegliendo mete tra fette di paradiso. Guiderai automobili. Appartieni a un’epoca storica, a una geografia, che, verosimilmente non conoscerà guerre mondiali, certamente non infibulazioni, né chador. Avrai amori liberi di essere loro stessi dentro e fuori dal letto, matrimoni, convivenze, figli, nipoti. Sarai curato da tumori, infezioni e invecchiamento. Avrai tutele e ricoveri per malattie, incidenti, vecchiaia e morte. Come le hai avute al momento della nascita. Se tutto questo privilegio immenso lo glorificherai usando il buonsenso che giuste sinapsi ti permetteranno, sarai un uomo libero. Nessuno potrà sostituire i tuoi pensieri. Niente potrà spegnere la forza di ricominciare ogni volta che cadrai sul pavimento lucidato a cera e talmente splendente da averti abbagliato. Io, tra qualche tempo, lascerò a te le mie perdite di anni. Facendolo ti dirò che non siamo né i primi né gli ultimi, quindi è andata bene così, va sempre bene così. Che ogni mio errore, distrazione, inadeguatezza, stento, te lo offro perché ti possa servire. Me ne andrò perché bisogna lasciare spazio alla vita quando la vita si sta esaurendo. Spero solo di farlo dandoti un buon ricordo, il ricordo della gratitudine. Voglio dirti che potresti guardare alla mia vita, alla vita di ognuno, con la pretesa di avere di più nella tua. Eppure io ti consiglio, ogni volta che non ti basterà il punto della vita che stai leggendo, di fermarti, e cominciare da capo. Leggi tutto due volte, leggi tra le righe e troverai tante vite dentro una sola. Troverai l’esigenza di ringraziare i tanti inganni adiacenti alla verità, l’incertezza, la paura che ti ha spinto oltre ogni limite per superare te stesso. Guarderai in faccia il tuo destino e quello degli altri. E vorrai rimettere in circolo il tuo non scontato bene. Figlio mio, allora, a te ora il mio ultimo grazie, grazie per avermi ascoltata».

    Capitolo 1

    FRATTURA

    Stavolta, caduta, aspetto che qualcuno mi raccolga

    La questione dirimente è tollerare il dolore che dalla gamba diventata l’arto di un altro soggetto, attraversa tutta la mia esigua lunghezza e arriva diritta al cuore come una lancia a fendenza continua. Ma controllo il respiro e subordino le fitte a ogni boccata d’aria. Decisamente meglio. Così, se pur di notevole portata, lo strazio è sotto la mia gestione. Il freddo no e inizio a tremare. Sono riuscita a sedermi sulla lastra di pietra gelida su cui è atterrato il mio stinco dopo essere caduta e, guardando la mia gamba riconosco subito i segnali di frattura. Li ho visti gli arti spezzati durante le mie assistenze agli anziani. Sembra una frattura scomposta, sporge troppo l’osso, ma non esposta, non è lesa la cute. Menomale, almeno questo. Intanto il bosco si risveglia con quei suoni, i canti dei merli, il passo dei gatti che, tornati dalla caccia notturna, albeggiano calpestando l’humus, il verso stridente della volpe la cui coda folta intravedo intanarsi. Tutti suoni che accompagnano il mio immancabile tè aromatizzato con brioche quando non sono di turno come oggi e faccio colazione le prime ore del giorno per non perdermi lo spettacolo dell’aurora che comincia dalla porta finestra della mia casa di campagna a pochi metri da qui. Appena dietro questa macchia. Forse, però, dovrei dire sarei stata di turno. Infatti raccolgo le forze, è una fatica parlare, e chiamo per avvertire che non potrò prendere servizio. Sarà un problema per le colleghe che si dovranno fermare oltre l’orario per supplire la mia assenza. Lavoro in una struttura per persone disabili e, nel turno che avrei dovuto coprire, 7-14, occorre provvedere alla loro igiene personale. Ma io sono scivolata rovinosamente lungo la crêuza che ho aggredito a morsi di falcate per recuperare il tempo speso a non sapermi alzare dal letto. La notte carica di ansie per mia madre sola a casa non ha dato riposo e la stanchezza mi ha trattenuta sul materasso. Gli ultimi anni con lei sono molto impegnativi. Questo in particolare modo. La sua vecchiaia, la quarta età, pretende un’autonomia che il corpo non agevola più. E io permuto le sue esigenze con la mia tranquillità. La aiuto nello svolgimento delle attività quotidiane, nelle commissioni, nel dipanare beghe burocratiche per uffici, ma soprattutto nella gestione medica delle sue numerose comorbilità. Sono il trait d’union con la normalità. Forse, però, dovrei dire lo sono stata sinora. Perché ora sono caduta e non mi posso alzare. La devo chiamare prima che la voce mi si fermi in gola e fingere, almeno per il momento, che vada tutto bene. Poi mi concedo al buio in cui sono sprofondata e attendo i soccorsi. Tarderanno a giungere sin qui, la zona è impervia. Il luogo dove vivo lo è. Il mio posto nel mondo lo è.

    Un risciò tra il bosco e il cielo

    e dalla borsa mi cadeva la mela

    Vengo issata sulla lettiga, rotola il frutto destinato alla merenda che non farò, il sole sobbalza tra le frasche. O forse sono gli scossoni sullo stradino, i militi cercano di coordinarsi, ma la strada è sconnessa, il cielo scorre come un film. O forse è il finestrino dell’ambulanza che spedito giunge all’ospedale. Visioni surreali di camici bianchi a ruoli invertiti assistono me, che di solito sono l’assistente. E lì riconosco i segni nei loro volti che trattengono ancora la notte. Arrivo durante lo smonto quando c’è il cambio del turno. Riconosco quella delusione, la stanchezza di non poter fare di più, l’andatura forzata, l’articolazione del polso usurato dalle prese in carico ripetute ogni giorno.

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