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Giù dai tacchi
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E-book152 pagine1 ora

Giù dai tacchi

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Info su questo ebook

Sei giovane, sei bella, la vita ti sorride. Hai piani e progetti per il futuro, hai incontrato l’amore. Tutto sembra perfetto. Insomma, un’esistenza “sui tacchi a spillo”. Poi arriva lei, la malattia, il mostro malefico che ti butta “giù dai tacchi”. E inizia il calvario. Ma stavolta il “mostro” ha fatto male i conti, ha incontrato una tipa tosta, ben decisa a non arrendersi, a non lasciare nulla di intentato. Luisa, nella sua quotidiana lotta, conta due preziosi alleati: il suo amore Riccardo e la cavalla Ciccina. E proprio il rapporto straordinario che instaura con l’animale rappresenta una delle chiavi di volta della sua nuova vita. Un’esperienza incredibile che Luisa e la sua associazione hanno voluto proporre anche agli altri, a chi vive periodi di disagio e di malattia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2023
ISBN9791222430010
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    Anteprima del libro

    Giù dai tacchi - Luisa Belletti

    Prefazione

    Che cos’è una lezione di vita per noi che crediamo di essere normali? E passi per il normali, anche se non vi saranno sfuggite le virgolette. Per noi che crediamo di essere perfettamente autosufficienti (ovviamente fino a prova contraria). Che crediamo di essere invulnerabili. Che dico? Immortali!

    La vita - quella lezione - è sempre pronta a dartela. E non perché sia una carogna: semplicemente perché fa il suo mestiere. Come lo fanno i fiumi, gli alberi, gli uccelli, le cavallette, i fiori: la natura… La vita a volte sa quello che fa e a volte no: sta a noi capire quando abbiamo le armi per ragionarci assieme. Soprattutto quando veniamo messi alla prova. E allora dobbiamo saper distinguere se - appunto - è sufficiente ragionarci e cioè discuterci: oppure la dobbiamo proprio prendere per il bavero. Perché tanto lei ha altro a cui pensare che ascoltare le nostre lagne (motivate o eccessive che siano).

    Luisa Belletti ha optato per le maniere forti. Ah tu, vita, mi fai questo? E allora sappi che io so essere anche più stronza di te: perché dalla mia ho una forza di volontà che tu neanche immagini. Perché ho Riccardo, perché ho una cavalla che si chiama Ciccina, perché ho parecchi angeli che mi stanno vicino: alcuni anche con la faccia burbera e col camice sdrucito (ammesso che ce l’abbiano). Non capisci? Poco male. Sali in macchina con me - vita - ti porto a fare vedere le mie medicine: ma tieniti forte, perché andiamo pianissimo. Un po’ perché mi slitta ancora la frizione dei miei movimenti, un po’ perché voglio che anche tu ti prenda qualche accidente che mi mandano gli automobilisti che hanno fretta: e un po’ perché voglio che impari ad assaporare le cose che credevi di avermi tolto. Cosa dici? Mi hai tolto i tacchi? Allora sappi che, anche se ne sono scesa", mi sento due metri più alta di prima! E più determinata! E - tieniti forte - persino più serena! Per non parlare dei soldi che ho risparmiato col calzolaio.

    Ed è così, nell’estate italiana delle medaglie d’oro (tutte d’oro, pure quelle di metallo diverso: anzi persino quelle non conquistate), che sul podio degli esempi sale anche la campionessa Luisa Belletti. Nella specialità non olimpica - ma forse sì - dell’ io sono più forte di tutto!

    Inutile cercare di batterla. Molto più utile cercare di imitarla. Sempre che siate capaci, banalissimi esseri normali.

    Marino Bartoletti

    «Ho imparato il non attaccamento.

    Ho imparato il valore della resilienza. Ho imparato a moderare l’ostinazione. Ho imparato ad avere fiducia. Ho compreso il valore dei confini per amare di più e più forte.

    Ho compreso che negli occhi degli altri scorgo le mie debolezze e nei contrasti con gli altri posso cogliere ciò che mi manca per essere sempre un po’ migliore. Ho imparato a essere impermanente e a farmi ispirare dall’acqua:

    trova sempre una via, si plasma e nessuno può imprigionarla.

    Ho imparato ad accettare perché l’accettazione è la base di ogni genere di crescita e da cui ripartire rinnovati. Ho imparato a cadere per poi rialzarmi con vesti nuove.

    Ho compreso che sono solo all’inizio del percorso di una delle mie tante vite racchiuse in una e che ho ancora un intero universo da scoprire.»

    Luisa.

    PROLOGO

    Sono in un prato illuminato dalla tiepida luce dell’alba. Attorno a me alberi, cespugli fioriti e quel verde che risana l’anima da ogni ferita. L’aria cristallina mi accarezza il viso e, mentre socchiudo gli occhi, inspiro una brezza fresca e profumata di foglie che traccia nel mio corpo il suo frizzante e rassicurante percorso che si apre all’altezza del mio cuore e deflagra in un’emozione di gratitudine. Sorrido. Guardo il cielo screziato dell’alba. Intorno a me percepisco gli altri abitanti del bosco: alcuni animali camminano tranquilli, altri volano ricamando trame invisibili. Mi sento a casa.

    Sulle mie palpebre socchiuse scende un’ombra, apro di fretta gli occhi e rivolgo lo sguardo verso l’alto. Cumuli di nuvole possenti e scure si rincorrono incalzate da tuoni sordi, violenti. Le tenebre avvolgono l’aria e uno scroscio di acqua gelida mi si rovescia addosso. Gli animali spaventati corrono a rifugiarsi nel fitto della foresta mentre io sono invischiata in una densa e stagnante melma. Non posso muovermi. Ho paura. Grido. In sottofondo fra i rumori del bosco e le mie urla si fa strada una musica lontana. Mi sveglio di soprassalto, strizzo gli occhi e mi rincuoro: è stato un sogno. Sono a casa nella mia stanza da letto, il sole sbuca dalle persiane mentre la radiosveglia inonda la stanza con Ruby Tuesday dei Rolling Stones. Sospiro. Era solo un terribile incubo che ogni tanto si ripropone nella sua parte iniziale e che ultimamente si incupisce e diventa terrificante sul finale. Fisso per un attimo il soffitto, mi riaggancio alla realtà, faccio spallucce e spengo la sveglia. Un nuovo giorno ha inizio, chissà cosa mi aspetta.

    Preparo il caffè. Mentre aspetto che sia pronto mi guardo intorno soddisfatta: la mia nuova casa, il mio spazio, la mia libertà. Me la sono ritagliata addosso, l’ho curata in ogni dettaglio affinché mi assomigliasse: dai colori delle pareti alle tende in tulle, fino al mio magnifico divano rosso.

    Mi preparo per il lavoro. lo specchio mi rimanda l’immagine di una giovane donna di venti anni pronta a conquistare il mondo. Universo, sei mio! È il pensiero che mi accompagna in questo periodo.

    Era luglio del 2004, era il giorno del mio compleanno. Quella sera avrei festeggiato e avrei ricevuto il più bel regalo della mia vita.

    «Così, tutta la polvere sollevata dalla mia tempesta interiore lentamente si dipanò e cominciai a scorgere qualcosa, anzi, a sentire qualcosa… quando dentro di te padroneggia il caos… fermati, respira, osserva.»

    CAPITOLO 1

    Il POTERE DELL’IMMAGINAZIONE

    «Mi scusi, non ho capito, cosa ha detto?»

    «No, mi scusi lei, signorina, ma sa ho la sclerosi.»

    «Ah! Ma si figuri, anche io ho tanta di quella sclerosi!»

    «È malata anche lei?»

    La mia storia inizia così, in una mattina d’inverno, nella pasticceria dove lavoravo e dove oltre a dolci e sorrisi servivo allegria e battute di spirito.

    Faceva freddo quella mattina quando entrò un uomo vestito con una camicia di flanella a quadretti rossi, una camicia da boscaiolo. Indossava scarpe da ‘vecchio’, delle pantofole, anche se non era vecchio. A occhio e croce avrà avuto una cinquantina d’anni. Camminava piano, con tutti i movimenti rallentati e uno sguardo fisso, immobile. L’espressione di chi sembra non vedere ciò che guarda. Mi chiese una torta, ma non fu facile capire cosa volesse: le parole gli si ingarbugliavano sulla lingua. Mentre lui si giustificava spiegando di avere una malattia, io non capivo e come ho sempre fatto la buttavo sul ridere.

    La sclerosi a cui si riferiva quell’uomo è una malattia neurodegenerativa, non il modo di dire di noi romagnoli quando vogliamo intendere di essere arrabbiati. Io non avevo afferrato il senso delle sue parole e lui aveva frainteso la mia risposta pensando di trovarsi davanti una giovane donna malata.

    Rimasi agghiacciata. Ma come? Io? Io che stavo studiando per realizzare il mio sogno professionale di lavorare con le persone disabili e coi bambini, io che avevo la pelle sensibile alla sofferenza altrui al punto da voler dedicare la mia vita ad aiutare gli altri, io, proprio io avevo ferito un uomo malato.

    Tornando a casa la sera, affranta, cercai il conforto nel mio fidanzato, nella mia famiglia, ma quello che ottenni furono sorrisi e battute che tendevano a sdrammatizzare quanto successo. Non servirono. Continuai a pensare a quell’uomo, al suo sguardo immobile, alla sua camminata, al suo dolore.

    Quella notte, per la prima volta, sognai di sprofondare nel fango, di essere paralizzata e non potermi muovere. Fu un sogno nitido, vivissimo, spaventoso. Le sensazioni che provai furono profonde: il freddo che mi si allargava dentro, la paura dell’immobilità. Dormivo, ma sentivo tutto con una chiarezza che era di vita, di presenza.

    Devo aggiungere che ho sempre avuto una fantasia vivida, una capacità di rendere reale (almeno ai miei occhi) ciò che esisteva solo nella mia mente.

    Quando ero una bambina guardavo una serie tv dal titolo Il principe delle stelle e il suo protagonista Matthew Stars mi piaceva così tanto che riuscivo a materializzarlo davanti ai miei occhi, ci parlavo come a un amico. Chiaramente lo vedevo solo io, ma non importava: lui per me c’era, era un compagno reale con cui giocare, ridere, trascorrere del tempo. In generale, la mia immaginazione mi portava a scorgere ombre di fate che saltellavano svolazzando lungo i muri. Con le mie manine potevo disegnare scie scintillanti nell’aria. Unicorni dalla lunga criniera fuoriuscivano dal mio anellino di latta con una lunetta blu pescato come sorpresa nei sacchettini di patatine. Dalle fughe del pavimento sbocciavano fiori colorati e le macchie di umido sul soffitto diventavano streghe che sfrecciavano sulle loro scope fra le nubi della notte. Insomma, per i miei occhi di bambina tutto intorno a me prendeva vita in colorate allegorie. Anche le mie paure facevano lo stesso rendendo reali le immagini della mia mente. I problemi iniziavano col buio, quando calava la notte o, peggio che mai, quando dovevo scendere in cantina. La mia capacità immaginifica mi faceva sentire un pericolo nascosto tra le ombre e, per quanto mi rassicurassero che non ci fosse niente da temere nella mancanza di luce, io restavo preda di un terrore indescrivibile. I miei fratelli più grandi mi prendevano in giro e mi sfidavano ad avventurarmi con loro in cantina, ma la paura che mi assaliva non appena mi affacciavo al buio delle scale mi rendeva incapace di proseguire.

    Era così inconcepibile, in famiglia, questa mia fobia che, allo scopo di farmela scrollare di dosso, venivo canzonata amorevolmente. Vivevo queste prese in giro

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