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La felicità: Lezioni su Platone e Nietzsche
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E-book546 pagine8 ore

La felicità: Lezioni su Platone e Nietzsche

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Info su questo ebook

Il testo è una sorta di diario dell’ultimo corso universitario tenuto dall’autore, prima della malattia, nell’anno accademico 1995-96, presso la Facoltà di Filosofia di Venezia. Sono lezioni dedicate al confronto tra Platone e Nietzsche, dove Biral si propone di svelare la profonda affinità dei due con dissertazioni particolarmente dense di osservazioni e spunti, legati assieme da una penetrante chiave di lettura complessiva; come scrive Lorenzo Morri, curatore del volume, “il contenuto risulta da un corpo a corpo con i testi platonici e nietzscheani …[queste lezioni] raccontano di un Platone e di un Nietzsche che nei libri non si trovano, perché il consuonare con loro dell’anima che qui li legge e commenta li libera dalle gabbie di una filosofia storicizzata e ridotta a disciplina accademica”.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita27 apr 2016
ISBN9788863363241
La felicità: Lezioni su Platone e Nietzsche

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    Anteprima del libro

    La felicità - Alessandro Biral

    Lezioni su Platone e Nietzsche

    (corso universitario dell’anno 1995-’96)

    8. 11. 1995 (da appunti)

    Per Nietzsche, Platone e soprattutto Socrate sono grandi delinquenti. Ci sono alcune pagine famose in cui Nietzsche dice che Socrate era brutto e che questo per un greco era la più grande delle confutazioni. Secondo Nietzsche Platone è colui che inaugura la metafisica, e per lui metafisica è lo sdoppiamento del mondo, o meglio la creazione di un ‘retro-mondo’, un ‘oltre-mondo’ o ‘sovra-mondo’, rispetto a quello in cui viviamo. Questo sovra-mondo diventa il mondo vero, mentre il mondo in cui viviamo diventa il mondo falso, il mondo della semplice apparenza. Nel mondo vero si penetra solo con la ragione, mentre nel mondo falso si rimane legati ai sensi che ingannano sempre.

    Nietzsche intende porsi contro la metafisica e poi, nella metafisica, il suo sforzo è quello di concludere quel cammino che è stato inaugurato da Platone. Egli tenta una filosofia non metafisica, cioè vuol far crollare la duplicazione dei mondi che si produce con la svalorizzazione del mondo sensibile in nome del mondo razionale. Platone, infatti, avrebbe inventato un mondo delle idee che si attinge solo con la ragione. I sensi danno l’immagine di molte cose, mentre le molte cose non esistono nel mondo vero perché lì esistono soltanto le idee. Platone sdoppia: ci sono i filosofi che vivono nel mondo delle idee, che è il mondo vero, mentre gli altri, i non filosofi, vivono nel mondo falso. La conseguenza è che sono i filosofi che dovranno governare, secondo Platone, perché hanno la verità e vivono nel mondo vero, mentre gli altri sono abbandonati all’ignoranza e all’inganno. La teoria delle idee diventa così la chiave di volta su cui poggiare la storia della metafisica.

    Per Nietzsche la storia della metafisica è la storia della filosofia: quindi, chiudere la storia della metafisica - il progetto di Nietzsche - significherebbe porsi al di là della filosofia, forse, oppure inaugurarne una completamente diversa.

    Nel dialogo intitolato Fedro Platone parla contro i libri, perché i libri costringono, insieme a tutto ciò che è scritto, alla memorizzazione e così ottundono l’anima. La memoria delle cose lette è il grande nemico della conoscenza per Platone. C’è, allora, in Platone un criterio di esclusione del lettore?

    Questa domanda mi ha portato a ricordare una serie di aforismi di Nietzsche, tra i cosiddetti Frammenti postumi, in cui questo problema viene costantemente sottolineato. In un frammento dell’Aprile 1885 si legge:

    Le parole sono segni sonori dei concetti; i concetti sono gruppi più o meno sicuri di sentimenti ricorrenti e tra loro intrecciati. Per capirsi non basta adoperare ancora le stesse parole: si devono usare le stesse parole anche per la stessa specie di esperienze interiori - e queste, bisogna averle in comune.

    (Volendo si può riportare un frammento dell’Autunno 1887 che recita: […] Non bado più ai lettori: come potrei scrivere per lettori?… Ma annoto me stesso, per me¹).

    Altrimenti la stessa parola ha un significato diverso per i due che parlano, e quindi essi capiscono la stessa parola ma fraintendono ciò che significa. Non riescono a cogliere nulla del sentimento che muove quella parola e di cui quella parola è il rivestimento sonoro. Continua il testo di Nietzsche:

    Perciò i componenti di un popolo si capiscono meglio tra loro; ossia, quando gli uomini hanno a lungo vissuto insieme in condizioni simili di clima, di attività, di bisogni, un certo tipo di esperienze più facili da capirsi da tutti acquista la preminenza: ne consegue l’intendersi rapidamente.

    Per tutto quello che riguarda un gruppo di sentimenti, la nostra comunicazione è facilissima, tanto facile che non pensiamo più a che cosa siano le parole. E quindi ciò che lega gli uomini tra di loro nel modo più saldo è il bisogno di far conoscere con rapidità e facilità i propri bisogni. Nulla, d’altra parte, resiste - né amicizia né amore - quando si giunge a dire che con le stesse parole si intendono cose diverse.

    […] Quali gruppi di sentimenti stiano in primo piano, è un fatto che condiziona i giudizi di valore; ma i giudizi di valore sono essi stessi conseguenza dei nostri bisogni più profondi.

    Ciò è detto per spiegare perché è difficile capire gli scritti come i miei: le esperienze interiori, le valutazioni e i bisogni sono in me diversi. Io ho avuto per anni rapporti con gli uomini e ho spinto la rinuncia e la cortesia fino al punto di non parlare mai delle cose che mi stavano a cuore. Sì, io ho vissuto quasi soltanto così, con gli uomini.²

    Nietzsche sta dicendo di non aver mai parlato di ciò che sente, dei suoi bisogni e delle sue esperienze interiori, perché non è mai capito. Non è mai capito perché le sue esperienze non sono comuni a quelle dei suoi lettori. Nietzsche scrive, insomma, che i suoi sono libri per nessuno.

    Vi leggo adesso un frammento della Primavera 1887:

    I miei scritti parlano soltanto delle miei proprie esperienze interiori - per fortuna ho vissuto molto. Io sono là dentro, corpo e anima - perché nasconderlo? ego ipsissimus, e a lungo andare, ego ipsissimum.³

    Un altro frammento postumo, questo dell’Autunno 1885:

    Non crediate che io vi inciti a osare la stessa cosa <le stesse cose che ha tentato lui>! O anche solo ad accettare la stessa solitudine. Perché chi va per strade sue proprie non incontra nessuno: ciò infatti comportano le proprie strade. Nessuno che venga in aiuto, e con tutto ciò che gli capita di pericolo, caso, malvagità e cattivo tempo, deve sbrigarsela da solo. Egli ha la propria strada per sé, e anche il suo occasionale umor nero per questo duro e inesorabile per sé: a ciò appartiene per esempio il fatto che neanche i suoi migliori amici vedano e sappiano sempre dove egli propriamente vada […].

    - Mentre faccio qui il tentativo di dare, a coloro che mi sono rimasti finora affezionati, nonostante tutto, un cenno sulla via da me seguita, è opportuno dire anzitutto per quali vie a volte mi si è cercato e si è creduto persino di trovarmi. Si usa scambiarmi con altri: lo ammetto; del pari, ammetto che mi si renderebbe un grande servizio, se qualcun altro mi difendesse e mi tenesse al riparo da questi scambi. Ma, come ho detto, devo aiutarmi da me: perché mai altrimenti si andrebbe per strade proprie?

    Qui Nietzsche nega di avere mai avuto in comune qualcosa con gli altri e afferma che lo si è sempre scambiato con un altro. Se è vero che Nietzsche ha sempre parlato soltanto di se stesso, e ha parlato in modo tale che è difficile capirlo, questo significa che non ha scritto alcuna teoria. Nietzsche non ha mai scritto una dottrina. In Platone si ritrova la stessa cosa perché ritorna continuamente il detto socratico conosci te stesso e tutta la sua filosofia non è nient’altro che la conoscenza di sé. Ma se conoscenza di sé significa conoscenza del sé proprio di ciascuno, cioè dell’ego ipsissimus, non dell’ego universale alla Cartesio - se è così, anche Platone non ha mai scritto una teoria delle idee e, in generale, teorie.

    Né Nietzsche né Platone hanno mai scritto qualcosa di filosofia. Quindi che cosa sono? Nessuno dei due ha voluto proporre una teoria ad un pubblico di lettori.

    9. 11. 1995 (da appunti)

    Vi leggo un frammento di Nietzsche dell’Aprile-Giugno 1885:

    Qui parla una filosofia - una delle mie filosofie - che assolutamente non vuole essere chiamata amore per la sapienza, ma che ambisce, forse per superbia, a un nome più modesto, un nome perfino antipatico, che già di per sé può contribuire a far sì ch’essa rimanga quello che vuole essere: una filosofia per me - con il motto: satis sunt mihi pauci, satis est unus, satis est nullus. - Questa filosofia infatti insegna a se stessa l’arte del diffidare e scrive sulla porta di casa mémnes’ apisteîn .

    (Per Nietzsche una delle più funeste invenzioni e costrizioni dell’umanità fu il doversi ricordare di qualcosa). Un altro frammento del 1887:

    Io tento una giustificazione economica della virtù. - Il compito è di rendere l’uomo utile il più possibile e avvicinarlo, fin dove si può, a una macchina infallibile […].

    Qui la prima pietra dello scandalo è la noia, l’uniformità che ogni attività macchinale comporta. Imparare a sopportarla - e non solo a sopportarla - imparare a vedere la noia circondata da una superiore attrattiva: è stato questo finora il compito di ogni organizzazione scolastica superiore.

    Il compito dell’Università, per Nietzsche, è quello di rendere sopportabile agli studenti la noia, di renderla anzi più che sopportabile, cioè dotata di un’attrattiva.

    Imparare qualcosa che ci non interessa; e sentire in quest’attività oggettiva il proprio dovere; imparare a valutare il piacere e il dovere come tra loro separati - è questo l’inestimabile compito e la funzione dell’organizzazione scolastica superiore. Il filologo è stato perciò finora l’educatore in sé, poiché la sua attività stessa favorisce il modello di una monotonia dell’attività che va fino al grandioso. Sotto la sua bandiera il giovane impara a sgobbare: prima condizione di quello che un giorno sarà la valentia dell’adempimento meccanico del dovere (come funzionario statale, marito, scritturale di ufficio, lettore di giornali e soldato). Una tale esistenza ha bisogno forse più di ogni altra di una giustificazione e trasfigurazione filosofica; i sentimenti di piacere devono essere svalutati da qualche istanza infallibile come se fossero di rango inferiore; il dovere in sé, forse addirittura il pathos della venerazione per tutto quanto è spiacevole - e questa esigenza si esprime in modo imperativo, come al di là di ogni utilità, diletto e opportunità…

    Il senso di questo brano è che l’Università ha, secondo Nietzsche, il compito di preparare l’uomo a essere una macchina perfetta in una società macchinale. Per preparare bene a questo, essa dà un’educazione pertinente, cioè dà cose oggettive, che sono quelle che non suscitano interesse perché sono separate. Il disinteresse accompagna la noia e, allora, chi si annoia circonfonde questa noia della sacra aura del dovere.

    Nietzsche fa in molti passi una strana affermazione: questo cammino verso l’ego ipsissimus è poi un cammino contro se stessi, e nessuno più di me è andato contro se stesso. Platone e Nietzsche concordano nel fatto che centrale diventa il se stesso, cioè l’ego ipsissimus - secondo le parole di Nietzsche - e il conosci te stesso - secondo le parole di Socrate (conosci te stesso era un’iscrizione sul tempio di Delfi e diventa il detto che Socrate farà proprio, e che anche Platone farà proprio e porrà all’ingresso della sua filosofia). In un dialogo Platone dice che il motto conosci te stesso è pieno di enigmi, perché gli dei parlano agli uomini sempre per enigmi, e bisogna quindi saperlo sciogliere. Ma la soluzione dell’enigma del conosci te stesso sta nella conoscenza di sé, e tutto sembra tornare così in un circolo vizioso.

    In ogni caso è in questo che concordano Nietzsche e Platone: però ciò non toglie che, per Nietzsche, Platone rimane colui che ha dissanguato l’Europa perché ha aperto il mondo metafisico. Platone rimane sempre all’inizio di un lungo errore che per Nietzsche si chiama verità. Quello che gli uomini hanno sempre chiamato verità, in realtà, è un errore.

    Nei suoi ultimi frammenti Nietzsche ritorna non tanto su Platone, sul quale il suo giudizio rimane fisso, quanto su Socrate, perché comincia a nutrire dei dubbi sulla stroncatura a cui lo aveva sottoposto (È noto, e lo si può vedere anche oggi, quanto egli [Socrate] fosse brutto. Ma la bruttezza, un’obiezione di per se stessa, è tra i Greci quasi una confutazione⁷). Forse anche Nietzsche, a forza di insistere nella ricerca di sé, aveva in qualche modo trovato un punto di svolta che lo riportava vicino a quell’uomo enigmatico che ora gli diventa Socrate. Nietzsche non è più sicuro che Socrate sia proprio così, quale lo aveva liquidato, perché in realtà è un uomo enigmatico che ha molte anime. Scriverà da qualche parte che Senofonte si era addormentato sulla prima anima di Socrate, mentre Platone sulla seconda. Ciò vuol dire che per Nietzsche Socrate è multiforme. (Questo giudizio di multiformità va sfumato o tenuto come uno degli aspetti in cui si può presentare Nietzsche. La multiformità sarà per lui, poi, un pregio. Chi è l’essere più multiforme che esista? Nietzsche stesso).

    ***

    Da dove sono nate tutte le cose? Se la filosofia inizia con questa domanda, Socrate sarebbe colui che capisce che la via dei predecessori è sbagliata e ne tenta una nuova. Sarebbe, cioè, colui che capisce che non bisogna più partire dalle cose, ma dall’uomo stesso. Però, attraverso questa via, Socrate s’impiglia in una valanga di aporie e i dialoghi platonici che presentano il Socrate vero sono tutti dialoghi che finiscono senza soluzione e, per questo, sono detti aporetici (aporia significa blocco della strada).

    Secondo la storiografia filosofica questi dialoghi aporetici sarebbero i dialoghi giovanili di Platone, cioè risalenti al periodo in cui egli era sotto la piena influenza di Socrate; e, quindi, in essi Platone riporta fedelmente quello che ha sentito dire da Socrate (prima fase del suo pensiero). Poi Socrate muore e Platone si sente libero dall’influenza del maestro e, in qualche modo, comincia a tentare di sciogliere le aporie socratiche (seconda fase e gruppo centrale dei suoi dialoghi). La soluzione di tutte le aporie sta nella teoria delle idee: le idee sono la chiave di volta per risolvere tutti i dilemmi non sciolti di Socrate. Platone ha un sistema di pensieri che si inscatolano uno dentro l’altro e che si presentano come un vasto edificio ben costruito. Poi, però, nella terza fase, egli ripensa alle sue idee e scopre che non tutto è così funzionale e, allora, attua una revisione della teoria delle idee, che coprirebbe i dialoghi della tarda maturità dedicati al tentativo di conservare le idee rivedendole, però, in una chiave che non dia più luogo ad un baratro tra le idee ed il mondo reale.

    Ciò che permette a Platone di distanziarsi da Socrate, insomma, sarebbe una teoria, la teoria delle idee. Ma ciò che Socrate era, in realtà, non era altro che una serie di risposte date ad un problema che esiste indipendentemente da Socrate, che esisteva prima di lui e che probabilmente esisterà ancora dopo di lui. Successivamente Aristotele comincerà ad attaccare Platone, e nascerà così la competizione tra l’Accademia e il Liceo.

    Invece per me - ma quello che dico io è tutto sbagliato - i dialoghi di Platone sono tutti contemporanei fra loro: non nel senso che Platone li ha scritti tutti assieme, ma nel senso che trattano e affrontano costantemente un medesimo problema. E questo è il problema che Platone stesso trova davanti a sé, il problema di imboccare la sua propria strada. C’è bisogno di molti tentativi per imboccare e percorrere questa strada, c’è bisogno di molte domande; anzi è una strada che funziona soltanto domandando e rispondendo alle domande che si fanno. Quindi, per me, quella suddivisione in tre fasi è il risultato di una visione oggettivistica della filosofia, e questa visione inizia dopo aver tolto la filosofia cristiana: la filosofia veramente oggettiva è quella di Cartesio, di Kant, di Hegel. Essi sono ‘oggettivisti’ e fanno scienza in senso vero e proprio.

    10. 11. 1995 (da appunti)

    Perché per insegnare mi pagano? Perché l’unica utilità di quello che so sta nel venderlo. Io possiedo un sapere per me inutile, che è utile solo finché riesco a venderlo. Sono come un fornaio che fa il pane sperando di poterlo vendere: tra un professore e un qualsiasi commerciante non c’è differenza sotto questo aspetto. Ma, allora, è strano che io continui a studiare, se so che il mio sapere mi è utile soltanto per ciò che ne ricavo vendendolo.

    Prendiamo come testo di riferimento Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione)⁸, in cui Max Weber spiega agli attoniti professori tedeschi dell’inizio del ‘900 come negli Stati Uniti non si distingua il professore universitario dall’erbivendola. Weber dice questo: il professore non si deve interessare del modo in cui il sapere venduto potrà essere utile a colui che lo acquista - e in ciò non si comporta diversamente da un’erbivendola; chi acquista il sapere lo fa per acquisire competenze tali da trovare ‘sbocchi’ professionali, ovvero per trovare il modo di vendere a sua volta il sapere comprato. In altre parole, l’Università produce un sapere in sé inutile. Io non traggo giovamento da ciò che so; ciò che so non è un bene per me e non è il bene mio proprio, tant’è vero che lo acquisisco per poi rivenderlo allo scopo di ottenere denaro, perché è solo col denaro che posso accedere al campo della soddisfazione dei miei desideri. La scienza in sé non è un bene per nessuno, ma può essere usata in vari modi per trovare in questi usi un qualche giovamento.

    Per Weber la scienza moderna ha come caratteristica essenziale quella di non avere attinenza con la nostra vita: essa è uno strumento di cui disporre, ma è uno strumento che di per sé non prescrive il criterio del suo uso; si colloca nella nostra testa, eppure ci rimane estranea. La scienza non riguarda il nostro modo di vita, ciò che noi dovremmo fare, ma solo ciò che potremmo fare disponendo di essa. Detto altrimenti: la scienza non impone il suo uso, ma si offre all’uso limitandosi a prevedere vantaggi e svantaggi di determinate azioni (così per esempio fa l’economia). La scienza, insomma, è avalutativa (di questa idea è anche Nietzsche): si limita a descrivere e collegare fatti, fenomeni, cifre ecc.

    Giudizi di valore e scienza sono ambiti che si escludono reciprocamente. Il professore, dunque, non deve interferire con la vita degli studenti, non deve offrirsi come modello di vita. La scienza, infatti, dà solo potenza, nel senso greco della parola. È dýnamis, cioè dischiude una serie di possibilità, tutte tra loro equivalenti, ma decidere quale di esse mettere in atto dipende poi da noi, non dalla scienza. Perciò la decisione - osserva Weber - non è mai scientifica.

    Allora vediamo che, proprio perché la scienza è solo potenza e non mette in campo la nostra vita, diventa accessibile a tutti. Richiede solo un po’ di intelligenza, ossia un po’ di abilità compositiva, combinatoria, di concetti, cifre, diagrammi ecc. Invece in Platone è essenziale il fatto che ci si rivolge sempre a qualcuno, e ciò significa che il sapere che Platone sta proponendo non si indirizza a tutti. Ma già questo rivela che egli vuol parlare di un sapere che riguarda la nostra vita. Dunque, i dialoghi di Platone ci parlano di noi stessi, anche se per molti che vi partecipano o che li leggono non saranno altro che dei libri - e Platone lo sa benissimo.

    ***

    Protagora è un personaggio molte volte presente nei dialoghi. Platone gli dedica un intero dialogo, il Protagora, ma anche parti e momenti centrali di altri, in particolare del Teeteto. L’inizio del Protagora non mette in gioco che cosa Protagora dica e sostenga, perché Platone, in fondo, non pensa che Protagora abbia una teoria. Ciò che è in gioco è il modo con cui Protagora si presenta ad Atene: egli giunge a fare affollate conferenze a pagamento. Ora, già questo aspetto - il pagamento - agli occhi di Platone è un indizio stupefacente del fatto che l’uomo che si ritiene più sapiente, Protagora, ha un sapere che non gli è utile, se è vero che lo vende.

    (C’è una stretta somiglianza tra la forma dialogica di Platone e la forma aforistica di Nietzsche, con un’importante differenza, però: mentre Platone - cioè, Socrate - poteva trovare degli interlocutori, Nietzsche non ne trova più nessuno. Perciò, la grande disperazione di Nietzsche è la solitudine, ed è la solitudine che dà luogo all’aforisma, come la non solitudine di Socrate dà luogo al dialogo. Al contrario, i filosofi oggettivisti si riconoscono a prima vista perché scrivono trattati: l’oggettivismo si manifesta nella forma del trattato).

    Il racconto inizia con Socrate che sta dormendo e in piena notte Ippocrate, un giovane che frequenta abitualmente Socrate, si precipita a casa sua per dargli la grande notizia che Protagora è arrivato ad Atene. Ippocrate manifesta l’intenzione di andare a sentire le lezioni di Protagora e Socrate gli dice che basta dare a Protagora quattrini per essere resi sapienti da lui. Socrate, cioè, provoca Ippocrate sul tasto dei soldi, perché ha intuito che il giovane è disposto a spendere sia i soldi propri sia quelli degli amici per diventare sapiente:

    Per Zeus e per tutti gli dei! Se non dipendesse che da questo! Non risparmierei proprio né il denaro mio né quello degli amici! Ma sono venuto da te appunto per questo, perché tu interceda presso di lui in mio favore. Io sono ancora troppo giovane e per giunta non ho mai visto Protagora e non l’ho mai sentito parlare; quando venne qui la prima volta, io ero ancora un ragazzo.

    All’inizio del dialogo, insomma, è in gioco il problema di cosa sia il sapere: e non si tratta di una questione tecnica, cioè di un problema teorico, ma di un problema di vita, della vita di Ippocrate in questo momento. Ippocrate, infatti, per diventare sapiente è pronto a pagare e Socrate allora lo trattiene (è ancora notte) e si mette a chiacchierare con lui cercando di fargli capire che cosa significhi il fatto che uno vende il suo sapere.

    Qual è il presupposto della vendita? Per uno la vendita è possibile soltanto se il suo sapere è genericamente rivolto a tutti, aperto a tutti. Questo implica, forse, che il sapere di Protagora debba poter essere trasferito da lui a chi ascolta? In altri termini, Protagora pensa forse che vendere il suo sapere significhi trasferirlo, conservandolo tale quale è, dalla testa di uno alla testa di un altro? Certo, Protagora è convinto di questo. Chi vende presuppone la trasmissibilità del sapere, e - guarda un po’ - l’Università odierna viene appunto definita una organizzazione di trasmissione del sapere.

    Ma se Platone fa capire che il suo sapere non è trasmissibile, allora il suo che tipo di sapere? È possibile un sapere che non si trasmette? E che cosa implica, posto che esista, un simile sapere? Socrate non dice mai quello che realmente pensa in proposito, perché vuole che sia Ippocrate a porsi il problema e a tentare una risposta; vuole cioè che sia Ippocrate a rendersi conto, per come ne è capace, della difficoltà della questione di cosa sia il sapere. A questo scopo, allora, gli domanda che cosa intenda diventare andando da Protagora.

    Questo atteggiamento è una costante di Socrate e va sotto il nome di maieutica. La maieutica è contenuta tutta nell’affermazione di non sapere: Socrate, infatti, una volta dichiarerà di essere sterile, ma di poter aiutare gli altri a partorire ciò che hanno dentro di loro. Dunque, l’affermazione di Socrate di non sapere niente non deve dar luogo ad una grande costruzione di concetti, perché indica soltanto qual è il suo atteggiamento nei confronti di coloro che incontra. Significa che Socrate aiuta gli altri a far emergere da loro il sapere, se lo hanno. Il non saper niente è un atteggiamento, è un disporsi davanti agli uomini e alle cose. Tenete presente che, per Platone, il sapere è sempre un modo di atteggiarsi e nulla di più (non concetti, ma atteggiamenti), e il non sapere è l’atteggiamento con cui uno provoca l’altro a far emergere quello che ha dentro di sé.

    In questo caso, il problema è che c’è un uomo che si presenta come venditore di sapere e Socrate vuole spingere il giovane Ippocrate a far emergere, a rendersi conto che, a dispetto di ciò che sembra, non conviene essere allievi di Protagora perché il suo sapere rischia di non essere adatto a lui (a Ippocrate).

    Quando Socrate dice non so nulla, in realtà parla di se stesso, perché parla di un suo atteggiamento che, essendo costante, coincide con il suo modo di vita. Se questo è vero, allora in Platone è assente ogni traccia di teoria, perché tutto ciò che viene detto riguarda sempre qualcuno in particolare e il suo modo di stare ed essere, quindi i suoi atteggiamenti e le sue disposizioni (héxeis, in greco). Platone non parla circa qualcosa che esista indipendentemente da lui, qualcosa come un problema filosofico, ma parla di Socrate, o meglio è Socrate che parla di sé (Platone fa sempre parlare Socrate, non dice mai niente a proprio nome). Quindi, Platone e Socrate sono interscambiabili: non parlano di qualcosa di esterno, di recepito e assunto da altri, ma parlano soltanto di se stessi.

    Detto in altri termini: vedere nei dialoghi di Platone un edificio filosofico è un inganno; se si è in grado di vederci un uomo, è già fin troppo.

    15. 11. 1995 (da appunti)

    Platone e Nietzsche dedicano tutti i loro sforzi a delineare che cosa intendano per conoscenza di sé.

    Nel Fedro Platone pone un problema circa i libri; o meglio, partendo dalla scoperta dell’alfabeto, mostra i molti dubbi che Socrate ha nei confronti dell’uso della scrittura e nei confronti dei libri, che gli paiono poter costituire un danno per gli uomini in quanto li costringono, in qualche modo, a fuoriuscire da se stessi. Il libro ci dà l’impressione che leggendo noi possiamo educarci, imparare, migliorare, quando, invece, secondo Platone, noi facciamo esperienza di come tutta questa lettura rappresenti soltanto un carico per la memoria (la più perversa delle nostre facoltà, come dice Nietzsche), la quale poi si stanca, cede e dimentica. Allora, il libro, che dovrebbe sostenere la memoria, in realtà ci induce a dimenticare, rischia di non esserci di giovamento, ma di danno.

    Di un suo conoscente che per spiegare che cosa sapesse indicava i libri della sua biblioteca Montaigne diceva: guarda quello stolto: crede di diventare sapiente con la sapienza altrui, e con ciò intendeva dire che il sapere non è mai il sapere comprabile, acquisibile, percepibile da altri. Ma se c’è qualcosa che merita il nome di sapere, questo è il sapere propriamente nostro, quello che proviene da noi soltanto e non certo dall’esterno.

    Muovendosi su questa strada Platone non costruisce contro i sofisti una sua dottrina, un’altra dottrina (come se i sofisti avessero una dottrina da sconfiggere), perché non gli interessa affatto la dottrina dei sofisti, se mai ne possiedono una. A Platone interessa propriamente come si presentano i sofisti, ossia chi sono i sofisti.

    Chi è un sofista? Il sofista è uno che vende il suo sapere - ciò significa che del suo sapere ha una nozione precisa -, e così abbiamo scoperto che il suo sapere non gli è utile, altrimenti non lo venderebbe. Vendere il sapere, però, non vuol dire avere trovato con ciò la sua utilità, perché quello che se ne ricava sono soltanto soldi e l’avere soldi presenta il problema di come utilizzarli: i soldi non sono utili di per sé, ma sono utili se spesi in un certo modo. Se è vero che il sapere che posseggo non mi è utile, d’altro canto anche i soldi che ricevo vendendolo non mi sono immediatamente utili: per questo vengono ceduti per comprare altre cose. I soldi pongono il problema del loro utilizzo. C’è una domanda costantemente ripetuta nei dialoghi di Platone: che cosa è propriamente utile all’uomo? che cos’è il bene dell’uomo? Cercare che cosa sia il bene dell’uomo per Platone equivale sempre a cercare che cosa torni propriamente utile, quando, a chi e come qualcosa torni utile.

    Se il sapere è vendibile, se è soltanto vendibile, noi dobbiamo essere formati per essere dei buoni contenitori, in modo che il sapere trasmesso si depositi dentro di noi e venga conservato tale e quale, senza subire danni, proprio come una merce. La trasmissibilità implica la conservazione. Ora, l’idea di garantire lo stato di salute, di conservazione della cosa trasmessa è il terzo punto importante a comparire nel Protagora.

    Mentre Socrate e Ippocrate attendono il giorno per poi recarsi insieme da Protagora, Socrate approfitta per fare alcune domande a Ippocrate. La prima è quella decisiva: non sai che Protagora vende? Ippocrate risponde che questo non gli interessa poi tanto perché di soldi per pagare Protagora ne ha; ciò che lo preoccupa semmai è che a causa della sua giovane età Protagora rifiuti di farselo allievo. Questo timore, comunque, è assolutamente infondato. Allora, arriva la seconda domanda di Socrate, che gli chiede: da chi credi di andare e per diventare che cosa?, ossia chi è mai Protagora? E allo scopo di rendere più chiara la domanda Socrate dice:

    […] Supponi, per esempio, che tu avessi intenzione di andare dal tuo omonimo Ippocrate di Cos della famiglia degli Asclepiadi e di offrirgli del denaro come compenso perché si occupi di te; e se qualcuno di domandasse: Dimmi, Ippocrate, […] chi è mai l’Ippocrate al quale tu stai per offrire una mercede?, tu che cosa risponderesti?

    Io direi che gliela offro perché è il medico Ippocrate, disse.

    E fai questo con l’intenzione di diventare che cosa?.

    Un medico, disse.

    E invece se tu avessi l’intenzione di andare dall’argivo Policleto o dall’ateniese Fidia e di dare loro un compenso perché si occupino di te, e se qualcuno ti chiedesse: chi sono mai Policleto e Fidia perché tu pensi di offrire del denaro a costoro?, tu che cosa risponderesti?.

    La risposta sarebbe: scultori.

    E fai questo per diventare che cosa?.

    Evidentemente per diventare scultore.

    E io continuai: E sia! Ma se ora, andando ambedue da Protagora, saremo disposti a dargli del denaro come compenso perché si occupi di te, […] se qualcuno, mentre ci stiamo andando, ci chiedesse: Ma ditemi, o Socrate e Ippocrate, chi è mai Protagora perché abbiate in mente di dargli così tanto denaro?, ebbene che cosa gli risponderemmo? E quale nome sentiamo dare a Protagora? E Se Fidia è il nome di uno scultore e a Omero dovremo dare il nome di poeta, quale nome dovremo dare a Protagora? Gli daremo il nome di sofista, o Socrate!, disse.

    Dunque, noi andiamo a offrirgli del denaro proprio per il fatto che è un sofista?.

    Senza dubbio è così.¹⁰

    Allora Socrate chiede a Ippocrate:

    E se qualcuno ti domandasse ulteriormente: Tu vai da Protagora per diventare che cosa?, cosa gli risponderesti?.

    E Ippocrate, arrossendo (si era già fatto un po’ chiaro, in modo che lo si poteva vedere), disse: se in un certo qual senso il caso è simile ai precedenti, evidentemente per diventare sofista.¹¹

    Andando dai sofisti si diventerà sofisti, si acquisirà una merce. L’importante, però, è che Ippocrate sia arrossito: ora si vergogna del suo entusiasmo per Protagora, si rende conto che c’è qualche problema celato dietro questa figura così insigne e famosa e ricca di successo ad Atene e nelle altre città. Si vergogna di essersi lasciato trasportare troppo dall’entusiasmo e di aver impiegato poca riflessione su quello che stava per fare.

    Socrate gli dice: Tu non ti vergogni a presentarti ai Greci in qualità di sofista?, e Ippocrate risponde: Sì, per Zeus, se devo dire proprio il mio pensiero!. Ippocrate non vuole diventare un sofista perché non vuole acquisire un sapere che lo renda commerciante. Finora, infatti, egli ha ricevuto un’educazione che non produce vendita, ma che si riflette unicamente su chi compie il percorso dell’educazione, ossia rimane dentro di lui. Ippocrate non accetterà mai di andare in giro per le piazze di Atene a vendere il sapere, e questo punto verrà chiarito dalla frase successiva in cui Socrate dice:

    Forse, o Ippocrate, ritieni che l’insegnamento che avrai da Protagora non sia diverso da questo, ma piuttosto che sarà simile a quello che hai ricevuto dai maestri di lettere, musica, ginnastica - discipline che hai imparato non per esercitare l’arte come uno del mestiere, ma per educazione, come si conviene ad un uomo libero.¹²

    Qui compare una differenziazione ben chiara, che Ippocrate fa propria: esiste un certo tipo di insegnamento che migliora colui che lo riceve. Questo tipo di insegnamento è quello a cui spetta il nome di paideía, ed è questo il tipo di educazione che qualcuno riceve e riesce a trattenere in sé. La paideía per Socrate e per Ippocrate è l’educazione propria di un uomo libero.

    In Grecia non libero è colui che fa un lavoro. Così, tutti coloro che svolgono un lavoro, cioè fanno quello che sanno fare in cambio di una mercede (fabbri, calzolai, carpentieri, medici ecc.), tutti costoro svolgono un’attività illiberale, e ciò definisce la loro condizione non libera, ma non in senso giuridico, bensì in relazione alle necessità della vita. Praticano un’attività, un’arte, perché hanno bisogno di soldi (e queste sono le arti illiberali). Esistono, però, delle arti o dei saperi (termini identici in Platone) che non danno luogo a nessun tipo di mercede, e queste sono quelle tipiche di un uomo libero. Quindi, l’uomo libero è colui che gioisce di un sapere che rimane in lui, che non viene venduto. Ippocrate è un giovane di buona famiglia che pensa, andando da Protagora, di poter ricevere qualcosa di paragonabile all’educazione in ginnastica, lettere, musica; qualcosa di simile a quello che fino ad allora aveva ricevuto. La sua risposta all’ultima osservazione di Socrate ce lo conferma: Proprio una cosa di questo genere mi sembra che sia ciò che io desidero imparare da Protagora!¹³.

    Il punto, però, è che bisogna capire che cosa Protagora propriamente insegna e qual è il tipo di sapere di cui è maestro riconosciuto. In altre parole, Socrate intende mettere Ippocrate in guardia poiché il solo ascoltare Protagora potrebbe essere pericoloso, e per farlo usa una serie di analogie con le merci. La domanda di Socrate pone in gioco il termine anima (e anima è termine che torna anche in Nietzsche, il grande assertore del corpo contro l’anima, salvo sostenere, poi, che il corpo stesso è una gerarchia di anime…): il sapere, infatti, non è come le pere o le mele, ma rischia di essere qualcosa di diverso proprio perché la nostra anima non è come un cesto per la spesa, non è un mero contenitore neutralizzante, bensì c’è il pericolo che il suo assetto venga alterato, guastato, modificato da ciò che introduciamo. L’anima, per i Greci, è la nostra vita, quindi interferire con l’assetto dell’anima, metterle di fronte delle cose, riempirla, può in qualche modo alterare la nostra vita: non è mai un’operazione neutra, come invece è neutro l’atto di acquistare al mercato delle merci.

    Ecco, allora, la domanda di Socrate: se uno si riempie di un sapere acquistato, non è che guasti la sua anima? non è che modifichi tutta la sua vita? non è che cominci - detto in termini platonici - a non vedere più se stesso? Acquisire un sapere impersonale, credendo che sia il vero sapere e che di quello ci si deve nutrire, non sarebbe il massimo ottundimento di sé? In conclusione, se il sapere che l’acquirente acquisisce gli è di danno proprio in quanto lo ascolta e lo riceve, non è allora chiaro che chiunque dovrebbe preoccuparsi di chi va ad ascoltare?

    16. 11. 1995 (da appunti)

    Ippocrate si vergogna della prospettiva di diventare uno che gira per le piazze, per le aule di Atene, della Grecia, vendendo la propria sapienza o i propri saperi. Comincia a rendersi conto che da Protagora non acquisirà mai un sapere del tipo di quello al quale fino ad allora era stato educato. Comincia, cioè, a farsi strada nella sua mente la differenza tra un sapere che educa e un sapere che non educa; e quello che si vende, evidentemente, non risulta educativo - è proprio per questo, infatti, che lo si vende, che è trasmissibile. Ciò che educa, invece, non è trasmissibile, non è sotto il segno dell’impersonalità, che sola rende possibile la trasmissione. Ippocrate, insomma, reputa l’insegnamento di Protagora non degno di un uomo libero, perché per un uomo libero sono indicate le arti liberali come la musica, le lettere, la ginnastica.

    Nietzsche si affida a una visione vulgata di Platone, ma in relazione a questo problema non ha nessuna esitazione: riconosce che quella che lui chiama scienza moderna, che si caratterizza per la sua impersonalità e quindi per la sua perfetta disponibilità per chiunque, è null’altro che educazione per schiavi. Anche la scienza che si vende è educazione, ma educa schiavi, educa cioè gli uomini ad abituarsi a sopportare la noia e, dunque, a sopportare per tutta la vita un lavoro macchinale in una società macchinale, una società in cui non si richiede niente se non l’esecuzione di compiti molto ristretti e brevi. La scienza, secondo Nietzsche, finisce per essere creazione di una gigantesca massa di schiavi.

    (Per Nietzsche, poi, sarebbe sorprendente se tutto questo - che milioni di uomini siano ridotti in schiavitù proprio attraverso l’insegnamento scientifico - non avesse un senso. Ma se c’è un senso, questo può essere dato soltanto da quello che Nietzsche chiama sovrauomo, normalmente tradotto con superuomo, colui che sta al di sopra dell’umanità. L’umanità non ha valore perché è ridotta ad una massa di schiavi - è l’umanità della contemporanea società industriale. Così, per Nietzsche, se gli uomini, che sono schiavi, vogliono avere un senso, ciò sarà possibile perché domani serviranno un padrone, non un uomo qualsiasi, ma uno che si pone al di là dell’umanità).

    ***

    Nietzsche è convinto che il sapere formi l’uomo. Per lui, la cosiddetta indifferenza del sapere moderno non regge: comunque il sapere educa. Ma il problema è che può educare bene o educare male, poiché nell’educazione è sempre implicito un bene o un male. La scienza forma tipi di uomo: l’educazione impartita è il sapere - termine che Nietzsche usa in modo generico come Platone (in questo essi sono assonanti).

    Che l’uomo non sia una sostanza immobile, un’entità metafisica, qualcosa che rimanga indenne da tutto ciò che lo circonda, questo è un punto in comune tra Nietzsche e Platone. Per Nietzsche non esiste una miserabile metafisica della sostanza uomo, dato che l’uomo non è una sostanza come pensava Cartesio (e contro Cartesio lancia i suoi ultimi strali, in quanto costui è quello che strappa l’ego all’uomo, che rende l’ego un’entità pensante). Non esiste l’uomo immobile che si crea da solo a partire da sé, per forza interiore; al contrario l’uomo è sempre fatto a partire dal modo in cui è educato. L’uomo è quello che sa, direbbe Platone, o diventa quello che sa - questo lo si vede bene nell’Alcibiade e nel Gorgia. Per Platone quello che uno sa è proprio quello che uno è compiutamente: essere e sapere si identificano.

    Una piccola traccia di questo fatto compare nello stesso Protagora quando, prima che Ippocrate si vergogni di aver dovuto ammettere che se va da Protagora diventerà solo un sofista, Socrate gli ripete più volte la domanda: da chi credi di andare e per imparare che cosa? Chi sono Policleto e Fidia per dare loro del denaro? Chi è mai Protagora, per essersi messi in testa addirittura di dargli un patrimonio in cambio delle sue lezioni?. Chi è Protagora? equivale all’espressione che cosa propriamente insegna?: per insegnare, infatti, bisogna sapere, e quindi chiedere chi è Protagora è esattamente lo stesso che chiedere che cosa egli sa - perché sarebbe ben strano che uno insegni ciò che non sa. Così Fidia e Policleto non erano scultori e, poi, anche altro, come pensiamo noi moderni che distinguiamo in loro lo scultore dalla persona (termine questo di origine kantiana, contro il cui spessore metafisico Nietzsche si scaglierà violentemente).

    Noi siamo portati a non porre questa identificazione tra ciò che si sa e ciò che si è, siamo portati a pensarci al di fuori del sapere che possediamo. Per indicare l’identità, la personalità i Greci usavano il termine héxis, che i Latini hanno tradotto con habitus: comportamento saldo, duraturo e costante. Allora, il mio essere professore è sì un habitus, ma è solo uno dei molti che posseggo, nel senso che io vario il mio comportamento e il mio presentarmi esattamente a seconda delle persone che incontro. Il mio essere professore è una parte molto ridotta della mia vita: quindi come potrei dire a Platone io sono quello che so? Infatti, io in realtà sono ben altro, e sono al di fuori del mio sapere dato che non ci vorrà mica un sapere per parlare con gli amici? Noi siamo portati a distinguere costantemente l’uomo dal professore (il mio caso), come voi siete abituati a distinguere voi stessi dall’essere studenti: in voi non vi è identificazione, né riduzione alla figura di studente.

    Ma così che cosa accade? Accade che scopro di aver perso ogni identità, nel senso che mi faccio a fette e faccio a fette chiunque io incontri, perché in me distinguo tanti aspetti, che spesso non sono neanche comunicanti tra loro: nel momento in cui faccio il professore non sono in comunicazione con il me che cerca un amico con cui giocare a calcio. Io ho comportamenti diversi e i due aspetti sono solamente intrecciati tra di loro. Così, se comincio a chiedermi ma, allora, dove sto veramente? qual è l’aspetto, la fetta di personalità con cui veramente mi identifico?, mi trovo in difficoltà, non so propriamente cosa rispondere. Anche per voi vale la stessa domanda: se molteplici sono gli aspetti della vostra personalità, se vi ‘affettate’, qual è la fetta vera? E vera non secondo una logica astratta e metafisica, ma nel senso di propriamente vostra.

    ***

    Nel vivere in così tanti ambiti siamo in qualche modo salvaguardati da una serie di regole, che impariamo molto presto e che ci permettono, appunto, di intrattenere rapporti con varie persone, a seconda degli ambiti, senza mettere in gioco niente di proprio. È evidente, dunque, che voi non potete riconoscervi in questi ambiti perché in essi vi avvalete di regole che trovate già in vigore e che predeterminano il vostro comportamento. Ma quand’è, allora, che questa molteplicità di atteggiamenti si blocca? Quand’è che io posso dire: con questo mi identifico, qui ritrovo me stesso? Quando, insomma, trovo veramente un me stesso tra i molti ambiti in cui trascorro? Dov’è che cadono gli abiti che indossiamo soltanto e appare il nostro vero habitus, quello che ciascuno di noi ha come suo?

    Vedete come la ricerca di noi stessi sia sempre implicita e sempre in funzione. A provarlo è il fatto che queste domande ve le siete poste, no?, se non in modo esplicito almeno implicitamente! Per quanto si faccia a fette il mondo intero, c’è una fetta in cui cercate di riconoscervi.

    Sembra che sia l’organizzazione della nostra società ad imporci questo ‘affettamento’, nel senso che ormai la vita socializzata è altamente razionalizzata: quando voi andate in un luogo vi si richiede un comportamento adatto al funzionamento del luogo in cui andate, e questo funzionamento è altamente razionale perché per lo più dipende da macchine (la razionalità per Nietzsche è sempre una macchina). Allora, come per gli ambiti, lo stesso problema compare con le persone: con quali persone siamo veramente noi

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