Una Breve Abitudine
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Anteprima del libro
Una Breve Abitudine - Filiberto Battistin
FILIBERTO BATTISTIN
UNA BREVE
ABITUDINE
Un particolare ringraziamento al mio caro allievo Andrea Parmeggiani, i cui interventi su F. Kafka hanno portato dentro il libro la freschezza e la potenza di pensiero di una giovane anima.
INDICE
Premessa
Tutto scorre e Nulla passa
PREMESSA
La stesura di questo libro ha avuto uno svolgimento inaspettato; attraverso impercettibili mutamenti mi sono via via allontanato dal progetto originario, fino a ritrovarmi nella stessa condizione di scrittura dell’autore degli Essaies, l’amico Michel de Montaigne: «Non sono tanto io che ho fatto il mio libro quanto il mio libro che ha fatto me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita; non avente per fine l’utilità di terzi ed estranei, come tutti gli altri libri» (M. de Montaigne, Saggi).
A ripensarci bene, parlare di progetto originario è esagerato, in quanto ciò che mi ha spinto a scrivere è stato all’inizio il continuo risuonare nel mio mondo interiore di una canzone della tradizione dalmata: Ča je daleko do kuće, ‘come è lontana la via di casa’, che avevo pensato anche come titolo del libro.
È il canto nostalgico di un picaferaj giunto sulle soglie della vecchiaia, che sente ogni giorno che passa venir meno le proprie energie.
Un libro da autunno della vita, da scrivere con uno stile che prendesse a proprio modello la saggezza dei proverbi popolari, senza far ricorso ad alcuna, dotta o meno dotta, citazione, e a lunghe catene argomentative.
E all’inizio ho proceduto in questo modo, fino a quando, mentre scrivevo un breve pensiero, mi è sorto improvvisamente alla mente l’idea che la vita non sia altro che una breve abitudine, parafrasando il titolo di un aforisma di F. Nietzsche. Per chi ha un rapporto di intimità con il filosofo tedesco, il senso dell’ossimoro appare subito chiaro: mai pensare di essere arrivati alla meta, sempre avanti, sempre pronti a lasciar morire una forma di sé per assumerne una nuova, mai posare la testa su di un comodo guanciale di piume. Sulla lastra che ricopre la tomba di H. Marcuse in un cimitero di Berlino leggiamo weiter gehen. Il grande filosofo esorta il visitatore delle sue spoglie mortali ad andare sempre avanti, a non fermarsi mai, a raccogliere e portare avanti il testimone da lui lasciato in eredità in una staffetta metaforica dell’umanità la cui meta si colloca al di là di ogni orizzonte conosciuto.
Come definizione della vita, una breve abitudine, assume, per me, un ben altro significato, se vogliamo meno eroico, meno battagliero, slegato dal pathos per le sorti magnifiche e progressive
dell’umanità, più intimo, pacato, tenue come i cieli friulani affrescati dal Tiepolo. Non tuoni e fulmini ma un cielo celeste pastello solcato da candide nubi.
Provo a far comprendere quello che mi è accaduto, facendo ricorso ad una metafora: improvvisamente dalla soluzione puramente teorica, composta da tutte le concettualizzazione sulla brevità e finitezza della vita, allo stesso modo di quello che avviene nella precipitazione chimica, si è separata una sostanza sotto forma di un derivato insolubile, che è diventata la rivelazione del mio me stesso.
Ho vissuto un istante di verità, rispetto al quale tutta la mia vita precedente è diventata irrilevante.
Chi sono io? Un vivente la cui sostanza è una breve abitudine chiamata vita.
Questa rivelazione, forse perché la breve abitudine dura già da molti anni, non mi ha terrorizzato, non mi ha spinto a ricercare consolazioni in una presunta vita eterna, né ha generato uno stato d’animo di rassegnazione; al contrario, ha suscitato in me una sensazione mai provata prima di meraviglia per l’essere vivo, che mi spinge a godere di ogni istante, nell’attesa di entrare a far parte del museo delle ombre.
Cercare di esprimere con parole, immagini, concetti la sensazione di meraviglia che domina il mio mondo interiore è un’impresa impossibile da compiere, perché il linguaggio non può che essere una pallida traduzione degli stati dell’anima. Rimane, e non può essere altrimenti, uno scarto, una differenza incolmabile tra la sensazione dell’anima e le parole con le quali cerchiamo di renderla manifesta. Più eloquenti delle parole sono gli occhi, il volto i gesti, allo stesso modo che l’espressione ti amo, presa di per sé, è generica e vuota, se non è resa significativa da un calore che nessuna parola è in grado di manifestare. All’inizio non sta la parola ma l’ineffabile, l’indicibile, ciò che non si può esprimere per mezzo di parole, l’enigma destinato a rimanere senza soluzione, il ‘non so che’ che domina la nostra vita e la rende meravigliosa.
La soluzione dell’enigma metterebbe fine allo stato di meraviglia, quello stato che ha uno delle sue manifestazioni più potenti negli occhi incantati dei bambini che ancora non sono in grado di esprimere con le parole la loro condizione di viventi alla scoperta del mondo.
Il libro è diventato così un esercizio di vita e insieme un esercizio di morte.
Certo, l’esercizio riesce facile fino a che si gode di una buona salute, ma non per questo è il caso, almeno per me, di invocare dolore, sofferenze e sventure come fonte insostituibile di conoscenza – tanto faranno la loro comparsa in ogni caso, fino a condurmi alla morte.
Trattandosi di un libro di utilità personale
attraverso il quale formo me stesso, il mio ‘lettore perfetto’ è l’amico che accolga con un benevolo sorriso il mio continuo peregrinare, il mio saltare di qua e di là, i miei continui cambiamenti di tono e di stile, il mio contraddirmi dopo poche pagine, perché anche lui ama le domande destinate a rimanere senza risposte.
Tutto scorre e Nulla passa sono due verità complementari?
Tentare di procedere su questa via del pensiero dove conduce?
La vita è l’unione di queste due verità?
Ča je daleko do kuće: la saggezza popolare insegna che ogni età della vita possiede una propria condizione dello spirito.
I saggi di ogni tempo e di ogni luogo hanno insegnato la stessa verità: lavora su te stesso, indaga te stesso, cerca te stesso e allora troverai la verità.
Chi sono i più
? Coloro che non intraprendono questo cammino.
Chi intraprende la la via della verità giunge a porsi questa domanda: che cosa la vita chiede vuole da me? La domanda sulla quale i più
fondano la loro vita è: Che cosa voglio dalla vita? Se si rimane fermi a questa domanda non ci si libera mai del proprio io
. Chi non si libera del proprio io è un vivente pericoloso per sé e per gli altri.
Tutte le grandi opere nascono dalla compiuta liberazione del proprio io: allora rimane solo l’opera.
L’opera compiuta è una sorta di specchio universale: specchiandosi in essa tutti possono riconoscere la verità, ma non è possibile specchiarsi in essa se non liberandosi del proprio io.
Se il modo di vivere ha il suo fondamento sulla domanda, Che cosa la vita vuole da me?, allora si smette di parlare, meglio, non si ha più la pretesa di affermare il proprio punto di vista, e l’ascolto diventa la nostra posizione nel mondo.
L’ascolto ci pone in relazione con gli uomini, gli animali, le cose, gli dei, e ogni nostra affermazione assume la forma di una risposta ad una domanda che la pluralità degli esseri ci pone.
Che cosa significa allora pensare? Stare in relazione con il mondo, rispondere alle domande che il mondo ci pone, il mondo nella sua inscindibile unità di natura, storia, spirito.
Gli spiriti più elevati contengono in sé il mondo, e per questo, nello scorrere del tempo, pongono le domande più profonde e radicali che sono, nello stesso momento, sempre le stesse e sempre diverse.
Dato che Tutto scorre e Nulla passa, ogni domanda è posta sempre dal presente che contiene in sé tutto il passato, ma ne il presente ne il passato esistono.
Allora la ricerca dell’origine, del principio dal quale ogni cosa scaturisce, non può essere esaustiva, forse, il principio non esiste, se non come un nostro bisogno di sfuggire alla nostra responsabilità dinanzi al presente, che in ogni momento cessa di esistere.
Se dico: dall’unità, dall’eguale, dall’eterno, dall’infinito scaturisce il molteplice, il diseguale, il divenire, il finito, forse, non mi pongo così al di fuori della vita?
Viceversa, se rimango sempre fermo alle urgenze del presente, non rischio di assolutizzare il presente, di trasformare un qualcosa che sempre passa nell’eterno?
L’alternativa, io
governo la vita, la vita mi governa, è un’alternativa sensata?
È meglio pensare: la vita mi governa e io governo la vita come un’inscindibile unità?
Cosa significa, la vita mi governa? Che sono un vivente condizionato e limitato, che le condizioni della mia esistenza non sono state poste da me, e che queste condizioni mi limitano, mi governano, determinano la direzione e l’orizzonte del mio cammino nel mondo.
Se il nostro è un tempo contato e storicamente determinato, in che cosa consiste il governo delle nostre vite?
Che cosa è in nostro potere? Solo ciò che per noi è possibilità è in nostro potere, ma le nostre possibilità sono sempre le stesse, o è possibile per noi ampliare la sfera di ciò che è in nostro potere?
Lo sviluppo delle tecniche è lo sforzo senza fine di ampliare la sfera delle nostre possibilità?
Questo sforzo è destinato a naufragare dinanzi ad un orizzonte insormontabile, ad una necessità che toglie a noi ogni possibilità di scelta?
Tutte le religioni salvifiche sono il tentativo di superare la morte in quanto orizzonte invalicabile?
La tecnica è la religione del nostro tempo?
Che cosa spinge l’uomo mortale a desiderare un’infinita durata nel tempo in un sovra-mondo o nel ritorno all’originaria unità?
Che vi siano rarissimi uomini dotati di un ingegno straordinario è fuori di dubbio. A loro l’umanità è debitrice del proprio sapere in tutti gli ambiti. La grande maggioranza degli uomini è dotata di una media intelligenza, incapacità di pensare da sé, ma capacità di comprendere i saperi creati dalle grandi menti. Vi è poi un numero cospicuo di uomini ottusi, incapaci di comprendere, ma capaci di compiere operazioni e azioni sotto la guida di altri.
Decisamente la natura ama la diseguaglianza. Le differenze di talenti o di carismi sono, per ora, insopprimibili.
Perché, in nome dell’eguaglianza, non si dovrebbe cercare di sopprimerle?
Rispetto al medioevo, vi è nell’età contemporanea una mancanza di rispetto verso le differenze di sapere: vi è una tendenza ad abolire la netta distinzione tra chi sa e chi non sa esercitare una scienza, una tecnica, una conoscenza.
Questa tendenza viene da coloro che non hanno mai acquisito un sapere autentico, dagli ignoranti, che in quanto tali, credono di poter sapere tutto e invidiano e odiano tutti coloro che possiedono un sapere.
Il regno degli ignoranti è la rete. Il più cretino smanettando con un telefonino è convinto di acquisire sapere.
I cretini informatizzati distruggeranno il mondo: come fermarli?
Secondo Kant, in quanto l’uomo è dotato di libero arbitrio, ogni volta che qualcuno compie un’azione vi è un nuovo inizio, l’instaurazione di uno stato di cose del tutto imprevedibile, perché completamente sciolto da ogni rapporto di causalità con il passato. Il passato non determina il presente. L’uomo quando agisce è un vivente extra-temporale, non condizionato dal proprio passato. Ogni predizione del futuro è allora impossibile, quindi è impossibile una filosofia della storia che determini il significato e il fine della presenza dell’uomo nel mondo?
E per quanto riguarda le nostre singole vite? La risurrezione è sempre possibile, la vita è una continua risurrezione, un continuo nascere a nuova vita?
Se io dico: per me la vita è finita, dichiaro con ciò che non potrò più accedere a una vita nuova?
L’assenza del pensare dialettico produce tutte le forme di fanatismo: il bicchiere è nello stesso momento mezzo pieno e mezzo vuoto. Ma se ogni azione è una scelta, la struttura dell’azione è per sua natura la negazione della dialettica? L’azione è sempre un aut-aut? Ogni azione nega il suo opposto? Vado o non vado al cinema? Telefono o non telefono?
La stragrande maggioranza di coloro dei quali sostengono che l’io non esiste, che dietro l’azione non vi è alcun soggetto, non si sono ancora liberati dal proprio io, perché non hanno ancora risolto il rapporto con la propria terra natale, con i propri genitori, e con l’altro sesso.
Platone sostiene che l’unica virtù che ‘i più’ devono acquisire è la moderazione, la temperanza, il saper tenere a freno le proprie passioni e l’essere capaci di farsi governare dai saggi, da coloro che sanno ben deliberare per sé e per la città.
Quando assistiamo al giocoso incontro tra due cani che si scatenano in un rincorrersi a perdifiato, la vita vuole ricordarci che stiamo partecipando ad una festa: via i musi lunghi e mettiamoci a danzare.
Quando noi diciamo ‘è più forte di me’, chi è questo ‘me’ e chi è questo ‘più forte’?
Pensare dialetticamente significa: ogni volta che affermo qualcosa come vero, so che che anche il suo opposto è vero.
Ma è proprio così deleterio e dannoso essere dei viventi oscillanti, mancare di coerenza, rovesciare continuamente i propri punti di vista?
‘I più’ non possono fare altro che ricercare il potere: mancando di talento e di una grande passione, il loro massimo godimento è avere la forza di costringere qualcuno a fare ciò che essi vogliono. In tal mondo, si sentono dei grandi uomini.
Essere stanchi di noi stessi significa che le passioni che ci animavano si sono esaurite; solo nuove passioni possono farci uscire dallo stato di letargia.
Non si può pensare agli altri che a partire da se stessi.
Gli elargitori di teorie assomigliano a quel cattedratico che alla fine della sua conferenza contro il tabagismo si accende con voluttà un sigaro avana.
Lo stile di vita degli zingari ci ricorda che la vita può essere veramente un’altra cosa rispetto alla nostra.
Per quanto possiamo spostare i confini, molte cose resteranno per sempre invisibili alla nostra vista e al nostro udito.
Chi è un teologo? Nei nostri tempi, un uomo intellettualmente disonesto. Soltanto nei nostri tempi? Sentite cosa scrive Voltaire nel 1765 alla voce Teologo, del suo Dizionario filosofico: «Ho conosciuto un vero teologo: possedeva le lingue dell’Oriente, ed era, per quanto possibile, istruito sugli antichi riti delle nazioni. I bramini, i Caldei, gli ignicoli, i Sabei, i Siriani, gli Egizi non gli erano meno noti degli Ebrei; le diverse lezioni della Bibbia gli erano familiari; per trent’anni aveva tentato di conciliare i Vangeli e di accordare i Padri. Cercò di scoprire l’esatto periodo in cui fu redatto il simbolo attribuito agli apostoli, e quello che va sotto il nome di Atanasio; come furono istituiti uno dopo l’altro i sacramenti; qual era la differenza tra la sinassi e la messa; come la Chiesa cristiana si divise dopo la sua nascita in vari partiti, e come la società dominante bollò tutte le altre come eretiche. Sondò le profondità della politica che si immischiò sempre in queste dispute; e distinse tra la politica e la saggezza, tra l’orgoglio che vuol soggiogare gli spiriti e il desiderio di illuminare se stessi, tra lo zelo e il fanatismo.
La difficoltà di ordinare nella sua testa tante cose, che per natura sono confuse,