La filosofia è educazione e l'educazione è filosofia
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La crescita di un uomo non un mero fatto biologico, non è il giungere a maturazione di un ‘corpo’, ma un misterioso processo spirituale, al quale contribuiscono sia energie e forze cosmiche e ancestrali che sfuggono alla nostra capacità di comprensione, sia una storia, della quale, almeno in parte, possiamo diventare consapevoli, che è costituita da saperi che si sono tramandati di generazione in generazione.
Educare un giovane significa metterlo nelle condizioni di entrare in relazione con i saperi creati dall’umanità, con il fine di consentirgli di trovare se stesso, di avventurarsi nel mondo per trovare il suo posto.
È compito di ciascuno di noi, adoperarsi affinché questa avventura non abbia mai fine.
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Anteprima del libro
La filosofia è educazione e l'educazione è filosofia - Filiberto Battistin
Qui comincia l’avventura del signor Bonaventura
Non dobbiamo mai dimenticare come docenti di storia e di filosofia nei licei, che il nostro insegnamento è rivolto a giovani dai sedici ai diciannove anni.
Quando mi capita di tenere delle lezioni o un corso di filosofia nelle cosiddette Università per adulti o della terza età, il mio approccio all’insegnamento è completamento diverso, perché devo rivolgermi a uomini e donne ricche di esperienza di vita, molte delle quali hanno elaborato da tempo il senso della loro vita e della loro morte.
La vita, scrive lo scrittore americano William Faulkner in un suo romanzo, è quella strana avventura che inizia con il sesso e finisce con la morte.
‘Avventura’ è una bella parola per designare la vita, in quanto il suo indicare le ‘cose che devono avvenire’, porta alla luce, nello stesso momento, l’azione rischiosa e straordinaria, il sorprendente e l’inaspettato, il pericoloso e l’inconsueto che a ciascuno di noi capita di sperimentare.
Un giovane di sedici anni si trova all’inizio di questa strana avventura, alle soglie della foresta piena di insidie e pericoli, di incantesimi e di illusioni, che ogni uomo, cavaliere errante, è chiamato ad attraversare.
E tutti dinanzi al pericolo e all’ignoto ci dimostriamo recalcitranti e timorosi: vivere sotto l’ampia ala protettrice dei nostri genitori è bello e rassicurante. I nostri genitori si prendono cura di noi, pensano per noi: che bello essere bambini! e allora perché non rimanerlo il più a lungo possibile?
Uno dei compiti dell’insegnate di filosofia è ‘costringere’ lo studente ad entrare nella foresta, o, per usare la splendida e insuperabile immagine creata da Platone, ‘costringerlo’ ad uscire dalla caverna.
Insisto sul termine ‘costringere’, perché senza un elemento di costrizione nessuna educazione è possibile.
Ma la ‘costrizione’ educativa è sinonimo di liberazione: il vero educatore è il nostro liberatore, è colui che ci porta ad là di quello che siamo.
A questo proposito, Nietzsche in, Schopenhauer come educatore, ha scritto parole che costituiscono un’eterna verità:
«L’uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora
.
Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; infatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinatale dall’eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiungere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l’esistenza senza questa liberazione! Nella natura non c’è creatura più vuota e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio…».
Ogni volta che leggo questo passo mi viene da dire che qui è già detto tutto!
Ma, nonostante ciò, andiamo avanti.
Se, come abbiamo visto, l’insegnamento è una questione di timing, di dire e fare la cosa giusta al momento più opportuno, niente è più in timing che rivolgere questo appello come docenti ai nostri allievi di sedici, diciassette anni che iniziano lo studio della filosofia: a questa età, infatti, un giovane inizia a comprendere di non essere ciò che sta pensando e desiderando ora, inizia confusamente ad intuire di essere qualcosa d’altro.
È in questo mare che dobbiamo gettare le nostre esche, perché possiamo nutrire la ragionevole speranza che qualche giovane anima abbocchi.
Un insegnamento che non aggancia l’anima degli studenti è del tutto inutile, non serve letteralmente a nulla, anzi rischia di guastare le anime degli studenti.
Questo significa che per rendere efficace l’appello, il nostro insegnamento deve partire dall’esigenza imprescindibili di conoscere, per quanto ci è possibile, le anime dei nostri allievi.
È questo la grande lezione di Socrate: educare non significa trasmettere un sapere eguale per tutti, ma, attraverso l’esercizio della maieutica, rendere gli allievi capaci di partorire se stessi.
In tal senso, come Socrate ha mostrato nel dialogo platonico Teagete, la prima domanda che il filosofo-educatore deve porre al suo allievo è: «Ma tu, che cosa desideri sapere?», il che equivale a costringere l’allievo a mostrare la sua anima, a dichiarare quello che è ora, perché il nostro desiderio di sapere prende avvio da quello che siamo o crediamo di essere.
Rispondendo alla domanda, l’allievo ci mostra quale tipo di uomo intende diventare, e dunque ci rivela la prospettiva di felicità che domina nella sua anima.
A questo punto siamo nella condizione conveniente per trovare le domande giuste per costringerlo ad uscire dalla caverna, le domande che fanno crollare l’edificio del suo sapere, che lo privano delle opinioni, dei punti di riferimento che altri avevano posto in lui, le domande che lo gettano in una condizione di disorientamento.
Privato della bussola delle opinioni ricevute, costretto ad abbandonare la caverna, il primo contatto con la luce del sole è per lui doloroso e disperante: ma bisogna passare attraverso l’oscurità, imparare ad orientarsi in essa, per riuscire a vivere alla luce del giorno.
Certo, nella classe non tutti rispondono all’appello e non tutti rispondono allo stesso modo; nostro compito è di essere rispettosi dei ‘tempi’ di maturazione di ciascun allievo.
L’insegnamento individualizzato è nella natura stessa della maieutica, e la lezione di filosofia non può che assumere la forma dialogica: porre domande, ascoltare le risposte, e porre le ulteriori domande in relazione alle risposte emerse.
In tal senso, non si può mai sapere in anticipo quale sarà l’esito di una lezione, dove si andrà a parare, di che cosa si finirà per parlare, perché quello che conta non è ciò di cui si parla, ma le anime di coloro che dialogano: la lezione è un’avventura.
Allora, la prima qualità che deve possedere il docente di filosofia è la capacità di ascoltare.
Solo il docente di filosofia? Se prestiamo ascolto al ‘popolo eletto’, veniamo ad apprendere che l’uomo è un animale rispondente
: vivere significa rispondere all’appello di un qualcosa che ci precede e ci indica una direzione da seguire con il suo domandare.
Un bambino appena nato ci interpella con la sua presenza di essere fragile, bisognoso di ogni cosa, desideroso di vivere: siamo liberi di rispondere a nostro arbitrio e capriccio al suo appello? Oppure vivere è rispondere all’appello in una condizione di difficile libertà
, di libertà impegnativa, di responsabile libertà
?
Con le sue risposte lo studente ci interpella: sappiamo ascoltarlo, sappiamo cercare una risposta conveniente alla sua domanda, o cerchiamo rifugio nel nostro sapere preconfezionato?
Rispondiamo al suo appello come se noi fossimo i custodi e i sacerdoti di una verità che si disvela senza tempo, non potendo perciò mai dirsi passata, futura o contemporanea, o costruiamo insieme allo studente una ‘verità’ che vale nel qui e nell’ora, che è una cosa sola con il nostro sforzo di vivere consapevolmente il nostro presente e di progettare il nostro futuro?
Come può esservi comunicazione senza capacità di ascolto, capacità che non è una tecnica che si può facilmente apprendere partecipando ad un corso di aggiornamento, ma messa in gioco di noi stessi nella relazione educativa?
Che cosa dobbiamo mettere in comune perché ci possa essere effettivamente comunicazione tra docenti e allievi?
S’impara ad ascoltare come s’impara ad amare: per poter ascoltare gli altri ed essere in grado di prestare ascolto al loro appello, di obbedire alle loro domande, bisogna prima aver imparato ad ascoltare se stessi, ad obbedire a se stessi, a governare se stessi, bisogna prima aver ricuperato la salute della propria anima.
Ascoltare se stessi equivale ad essere sinceri con se stessi; è questo è il compito più difficile da realizzare perché un’infermità dello spirito, molto diffusa tra i docenti di filosofia di ogni ordine e grado, è sempre in agguato: il