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La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86: Lezioni sulla rivoluzione francese
La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86: Lezioni sulla rivoluzione francese
La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86: Lezioni sulla rivoluzione francese
E-book723 pagine11 ore

La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86: Lezioni sulla rivoluzione francese

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Info su questo ebook

I due volumi sono il frutto della trascrizione delle lezioni tenute da Alessandro Biral sulla Rivoluzione Francese, il curatore si è attenuto il più fedelmente possibile al parlato, limitandosi solamente all’eliminazione di alcuni intercalari e a minimi interventi correttivi, soltanto quando la lettura avrebbe altrimenti rischiato di apparire poco comprensibile. Il testo che ne è risultato presenta quindi quelle ripetizioni, imprecisioni sintattiche e grammaticali,  che sono tipiche del linguaggio parlato. Per questo, risulta ad un tempo più facile, ma anche più difficile da leggere. Più facile, perché rispecchia l’andamento delle lezioni, le ripetizioni, le esemplificazioni, il linguaggio piano, alla portata degli studenti; ma anche più difficile, perché richiede un piccolo sforzo di immaginazione: il lettore deve entrare un po’ nelle vesti del narratore, deve saper cogliere il senso delle argomentazioni. L’interesse di Alessandro Biral per la Francia rivoluzionaria trae origine dal fatto che ai suoi occhi la rivoluzione francese manifesta una caratteristica particolarmente importante per un filosofo della politica: la pratica del governo vi si presenta senza quei veli che, in altri periodi, ne adombrano i luoghi ed i riti. I dibattiti delle Assemblee rivoluzionarie spesso infatti anticipano ed estremizzano i grandi temi della democrazia contemporanea, primo fra tutti quello dell’uguaglianza.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 giu 2017
ISBN9788863364095
La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86: Lezioni sulla rivoluzione francese

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    Anteprima del libro

    La società senza governo - VOLUME SECONDO - 1985-86 - Lorenzo Furano

    volume secondo

    LA SOCIETÀ SENZA GOVERNO

    LEZIONI SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE

    VOLUME SECONDO – 1985-86

    di Alessandro Biral

    A CURA DI LORENZO FURANO

    © il prato casa editrice

    via Lombardia 43 - 35020 Saonara (PD)

    tel. 049 640105 • fax 049 8797938

    www.ilprato.com • info@ilprato.com

    ISBN: 9788863364095

    eBook by ePubMATIC.com

    Indice

    1. Tocqueville e gli inizi della rivoluzione

    2. Il progetto di riforma e l’opposizione nobiliare

    3. La rivoluzione secondo Soboul

    4. Illuminismo e opinione

    5. Aulard: la Storia politica della Rivoluzione

    6. La convocazione degli Stati Generali

    7. Stati Generali, Stati particolari e rappresentazione

    8. Elezione e sistema rappresentativo

    9. Regolamento elettorale e cahiers

    10. La selezione dei rappresentanti del Terzo

    11. La nascita dell’opinione pubblica e della critica

    12. Calonne e il gioco dell’opinione pubblica

    13. Voto e opinione vera

    14. Giustizia, politica – La paura dei briganti

    15. La Grande Paura

    16. Vagabondi e briganti

    17. La falsa notizia del Patto della Fame

    18. La falsa notizia della congiura aristocratica

    19. Lefebvre e l’idea del complotto

    20. Sieyès: Che cos’è il Terzo Stato?

    21. L’equivalenza nobile-brigante

    22. Taine e Aulard. La Dichiarazione dei diritti

    23. La Dichiarazione dei diritti e la libertà

    24. Libertà, felicità e meccanicismo

    25. La costruzione meccanica dell’uomo

    26. Legge, diritto e libertà naturale

    27. Il voto e la realizzazione dell’uguaglianza

    28. Potere e libertà

    29. Uguaglianza e dispotismo

    30. Dispotismo e antico regime

    31. Politica e interesse

    32. La realizzazione della società dell’anarchia

    33. Il sistema elettorale censuario

    34. Una rivoluzione borghese?

    35. Rappresentazione ed uguaglianza: la nascita del leviatano

    36. Virtù politica e virtù privata

    40. Popolo, governo e legislatore

    41. Uguaglianza, politica e religione

    43. I Costituenti e la Chiesa

    44. La costituzione civile del clero

    45. Rivoluzione ed epurazione

    46. La società senza governo

    03.04.1986 Stato di natura e stato sociale

    04.04.1986 Papato, impero, guerre di religione

    09.04.1986 Locke: politica, religione, tolleranza

    10.04.1986 Locke e Rousseau

    11.04.1986 Rousseau e lo stato naturale dell’uomo

    16.04.1986 La pietà in Rousseau

    19.12.1985 Fourier

    Bibliografia

    Avvertenza per il lettore

    Volutamente, nella trascrizione delle registrazioni mi sono attenuto il più fedelmente possibile al parlato, limitandomi solamente all’eliminazione di alcuni intercalan e a minimi interventi correttivi, soltanto quando la lettura avrebbe altrimenti rischiato di apparire poco comprensibile 11 testo che ne è risultato presenta quindi quelle ripetizioni, imprecisioni sintattiche e grammaticali, che sono tipiche del linguaggio parlato. Per questo, risulta ad un tempo più facile, ma anche più difficile da leggere. Più facile, perché rispecchia l’andamento delle lezioni, le ripetizioni, le esemplificazioni, il linguaggio piano, alla portata degli studenti; ma anche più difficile, perché nchiede un piccolo sforzo di immaginazione: il lettore deve entrare un po’ nelle vesti del narratore, deve saper cogliere il senso delle argomentazioni. Deve cioè entrare nell’atmosfera dell’aula in cui le lezioni si sono tenute e più che leggere, deve ascoltare il testo, il quale riporta il solo linguaggio delle parole, impoverito però di quel fondamentale accompagnamento non verbale che è costituito dalla gestualità e dall’inflessione della voce. Si perde così il senso di alcune battute, che la semplice lettura non pud riuscire a farci cogliere e che solo l’ascolto delle registrazioni, può almeno in parte restituirci.

    Le lezioni sono state numerate con lo stesso criterio delle registrazioni originali, per non perdere la corrispondenza con i nomi dei files, in cui sono state trasformate. I titoli hanno invece solo un valore indicativo, e richiamano il o gli argomenti ritenuti più importanti trattati nel corso della lezione.

    Voglio infine esprimere un ringraziamento ad Arrigo, le cui registrazioni hanno reso possibile il presente lavoro.

    1. Tocqueville e gli inizi della rivoluzione

    Riprendiamo il capitolo primo Libro terzo del libro di Tocqueville L’Antico regime e la Rivoluzione, un libro così spettacolare per quelle che sono le conseguenze. Abbiamo visto e abbiamo cercato di spiegare come a questo capitolo si possa arrivare, attraverso una ricostruzione ex post, una serie di appunti. E abbiamo visto in attività sul suolo francese un gruppo di letterati che ha delle caratteristiche peculiari: guarda come distintivo di onore l’estraneità a tutta la vita pubblica e l’affermazione in positivo della propria indipendenza. Questi letterati sono dominati da un’idea e questa idea impongono o fanno fissare nella testa dei francesi. Quest’idea è che un sistema politico, o un corpo politico o una associazione politica deve essere costruita o può essere costruita a partire da principi semplici; e quindi il problema di una vita associata può essere risolto allo stesso modo, in cui si risolve un problema geometrico.

    Il punto base, il cardine, è da Tocqueville individuato nel diritto naturale, il quale a sua volta si incardina sul principio dell’uguaglianza. Allora questi letterati, qualunque cosa scrivano, scrivano canzonette o grossissimi trattati di metafisica, su questo concordano: sulla possibilità di ricostruire la Francia a partire dal principio di uguaglianza. Su questo c’è una concordanza straordinaria, secondo me. Per cui quest’idea dell’uguaglianza, che da tre millenni rimbalzava nelle teste degli uomini, scrive sempre Tocqueville, si fissa sul suolo francese nella seconda metà del Settecento. Questo, vi ripeto, è il dato più inteso come una causa immediata e recente che presiede allo scoppio della rivoluzione. Come dire allora che le idee, o questa particolare idea, ha avuto un effetto immediato nello scoppio rivoluzionario e quindi una propria autonomia di azione. Se aggiungiamo poi che, sempre secondo Tocqueville, i cahiers dell’89 e, in particolare, i cahiers della nobiltà, sono tutti pervasi di filosofia o di letteratura, allora possiamo anche capire come la filosofia o la letteratura per Tocqueville rischi di essere una delle cause principali e che la rivoluzione, stranamente, incomincia ad assumere agli occhi di Tocqueville un andamento filosofico, come se la rivoluzione fosse una filosofia in azione, la filosofia in azione. E su tutto questo ritorneremo per altra via.

    Adesso seguiamo Tocqueville, proprio in questo capitolo, che sarebbe da leggere, anche perché è scritto bene. E quelli che lo hanno già letto, lo dovrebbero rileggere. In ogni caso, secondo Tocqueville – ci siamo qui fermati l’ultima lezione – due sono le cause di questo strano tono, di questo tono della letteratura o filosofia – sono termini assolutamente sinonimi – o meglio, dell’assunzione da parte della filosofia dell’idea di uguaglianza, come cardine base, punto di partenza per la deduzione del sistema associato, del sistema politico. In primo luogo, secondo Tocqueville la visione da parte di questi letterati di tanti privilegi abusivi e vincoli, come si leggerà riguardando la Francia e vedendo tutte le irregolarità, tutte le bizzarrie che esistono, le cose assurde, ingiustificabili, per reazione tendono invece ad un sistema regolato secondo uniformità. E, secondo me, questa è la spiegazione debole, anzi non è per niente una spiegazione. Ma per voi, che siete più giovani e più inesperti, deve valere come spiegazione finché non ne trovate una migliore.

    La seconda causa è molto più interessante ed è di più difficile confutazione. Qui infatti Tocqueville ritiene che causa della funzione dell’idea di uguaglianza sia lo stesso modo di essere dei philosophes, e come fossero lontani dalla vita politica. Anzi, ponevano proprio come loro prerogativa, come segno della loro distinzione, come loro caratteristica, l’assoluta estraneità da tutti i poteri, dai grandi, dai mecenati da qualsiasi rapporto con qualsiasi interesse che potesse in qualche modo alterare la ricerca della verità. E quindi il puro amore per la verità, il puro amore per le lettere o per le arti, per la filosofia, per la conoscenza. Erano lontani dalla vita pratica, e quindi nessuna esperienza poteva intervenire come correttivo per tale fuga nell’astrazione semplificante. Nulla li faceva consapevoli degli ostacoli che l’ordine delle cose esistenti poteva frapporre anche alle riforme più auspicabili.

    Qui Tocqueville introduce un elemento un po’ differente: l’idea di uguaglianza si fissa, anche per questa loro posizione, ma si fissa e si radica e diventa poi passione politica proprio perché esterni all’azione politica; non hanno nessuna esperienza delle cose e quindi pensano che la loro idea, proprio perché molto semplice, possa essere facilmente applicabile in realtà. E qui Tocqueville crede di aver spiegato come si formi nella testa dei letterati l’idea dell’uguaglianza sociale.

    Un altro problema da chiarire, secondo Tocqueville, è: come mai questa idea adesso si diffonde fuori dalla testa dei letterati e comincia a penetrare nella testa di tutti gli altri francesi? Cioè cerca di spiegare l’Illuminismo come diffusione dei Lumi o della letteratura o di questi principi. La causa della diffusione è molto semplice e, secondo me, straordinaria. Vale a dire che questa idea si diffonde perché i francesi sono da tempo ormai estraniati da ogni pratica politica. I francesi sono buttati fuori perché tutta l’attività di governo è stata occupata, monopolizzata dalla monarchia attraverso i suoi agenti. Quindi, se vogliamo, tutti i francesi si trovano quasi nella stessa condizione dei letterati – anche se non sono letterati per professione – perché ormai anch’essi sono lontani dalla vita politica. E quindi non hanno più l’esperienza delle cose, non sanno più maneggiare gli affari, non sanno più quanta fatica costi far passare un qualsiasi provvedimento e quindi, lontani anch’essi dalla politica, vengono conquistati dall’idea dell’uguaglianza, che vuol dire, per Tocqueville, prima di tutto, l’idea della semplicità, dell’uniformità.

    Cosicché i francesi, spoliticizzati ma scontenti dello stato delle cose – e questo bene o male abbiamo cercato di spiegarlo nelle lezioni precedenti – perché son scontenti, trapassano nella filosofia e dalla filosofia ritornano alla realtà, col risultato di fare un completo bagno filosofico e di vedere poi la realtà con gli occhi o le lenti della filosofia.

    Per Tocqueville, il risultato è che i filosofi prendono nella seconda metà del Settecento le redini dell’opinione pubblica, e si trovano a spendere quel poco che spetterebbe ai politici. Ecco allora che si spiegherebbero i cahiers dell’89 e perché i cahiers della nobiltà sono i più radicali per un certo tipo di affermazioni e rivendicazioni. Per esempio, sui diritti inalienabili nell’uomo i cahiers della nobiltà sono molto più lucidi, quindi più radicali, proprio nella loro forma, dei cahiers del Terzo stato. Il fatto che i cahiers della nobiltà e i cahiers del Terzo poi assonino tra di loro il tono filosofico, si spiega col fatto che i francesi erano anch’essi trapassati alla filosofia. Il risultato è che, secondo Tocqueville, i nobili si metteranno – come nell’89 si mettono – alla testa di una rivoluzione che li farà scomparire. Questo perché ormai da tempo, da alcuni decenni, vedono la realtà con gli occhi della filosofia, ma questa filosofia è mortale per loro; perché questa filosofia è centrata sull’idea di uguaglianza, e la nobiltà è l’incarnazione stessa della disuguaglianza.

    Ma prima di arrivare all’89, cerchiamo di fissare meglio questi risultati di Tocqueville con le parole stesse di Tocqueville.

    La Francia dà ormai uno spettacolo ben strano. Il mondo politico rimane diviso in due regioni, prive di comunicazione: nella prima si amministra e nella seconda si formulano principi astratti su cui ogni amministrazione si deve basare. Quindi in una regione si portano avanti gli affari, si dirigono gli affari, nell’altra regione si dirigono i timoni. Allora tra il modo di portare avanti gli affari e il modo in cui si dice come dovrebbero essere portati avanti gli affari si apre un abisso: sono due mondi senza comunicazione tra di loro. In tal modo allora, sopra la città reale, ancora dotata della sua vecchia costituzione, caotica, bizzarra, con leggi diverse, contraddittorie, classi separate, delimitate, si veniva man mano costruendo una società immaginaria, in cui tutto appariva semplice e coordinato, uniforme e più conforme alle leggi della natura. E a poco a poco l’anima della folla disertò la prima, la società reale, per ridursi alla seconda, ci si disinteressò di ciò che esisteva per pensare soltanto a ciò che avrebbe potuto esistere, e si finì per vivere con l’immaginazione nella città ideale costruita dagli uomini.

    Tale situazione, per cui si vive da una parte nella realtà, ma con l’immaginazione si vive da tutt’altra parte, è quella che, secondo Tocqueville, contribuì maggiormente a determinare lo spirito della rivoluzione. E per determinare lo spirito della rivoluzione vedremo adesso tutti gli avvenimenti che partono con l’89 e che si chiuderanno solamente con Napoleone. Allora si spiega così quell’affermazione, più volte ripetuta da Tocqueville, a mo’ quasi di ammonizione personale, che la rivoluzione è essenzialmente filosofica, che non bisogna dimenticarsi mai del carattere essenzialmente filosofico della rivoluzione. E chiude il Capitolo primo del Libro terzo, con questa osservazione singolare, che in qualche modo cercherò di ripetervi, durante il corso: È davvero singolare, scrive di Tocqueville, che noi abbiamo serbato le abitudini mutuate dalla letteratura, pur perdendo quasi del tutto il nostro antico amore per le lettere. Spesso ebbi occasione di meravigliarmi per lo spettacolo offerto da uomini che, pur poco o nulla avendo letto dei libri del ‘700, come di ogni altro secolo, e disprezzando anzi sovranamente tutti gli scrittori in genere, serbavano, con fedeltà degna di miglior causa, i peggiori difetti e l’impianto generale cui aveva aperto la via, prima ancora della loro nascita, lo spirito letterario. Tocqueville si sorprende cioè di una cosa, in modo particolare; lo sorprende il fatto che molta gente, molti politici, con cui lui aveva dimestichezza e rapporti appunto politici, pur disprezzando la letteratura, pur non avendo mai letto niente di tutta la letteratura del Settecento, proponessero, in modo del tutto inconsapevole, esattamente gli stessi atteggiamenti e le stesse idee e lo stesso impianto e le stesse esigenze della letteratura del Settecento. Ed è di fatto molto strano. Allora, se riusciremo a ripetere questa esperienza qui dentro, e a mostrare come se esiste qualcuno di noi che non ha detto niente dei testi del Settecento, pur ne condivide in parte gli atteggiamenti, allora la meraviglia di Tocqueville è esattamente la nostra, e potremo allora spiegarci questo strano fenomeno. Ragazzi, a questo punto possiamo trarre una prima conclusione: secondo Tocqueville ciò che portò i francesi alla rivoluzione, come causa generale, principale, di lungo periodo, quella che regge tutto l’impianto, fu l’accentramento. Ma se l’accentramento monarchico portò i francesi alla rivoluzione, la rivoluzione fu una filosofia messa in pratica. O, meglio, la rivoluzione fu l’educazione letteraria trapassata alla massa. Ma è da osservare che, nella costruzione che ne fa Tocqueville – e questa osservazione ci farà penare, mi farà penare, voi molto meno, purtroppo – questa letteratura o questa filosofia non è per Tocqueville un’espressione in concetto di un qualche interesse reale. Se avete capito un po’ l’andamento, quei brevi passi che vi ho riportato, la filosofia – la filosofia illuministica tanto per intenderci – non traduce in concetti, non esprime in concetti un settore della realtà, la realtà nel suo complesso, l’interesse di una qualche classe privilegiata. Perché la filosofia non è altro che una città immaginaria separata e senza comunicazione con la società letteraria. Questo ha detto Tocqueville.

    Tenendo conto poi di quello che aveva detto rispetto alla condizione dei letterati questo risulta ancora più chiaro: i letterati sono persone senza grado sociale, senza ricchezza, senza onori, senza responsabilità, senza potere, e che vantano tutte queste assenze come pregi, come loro qualifica specifica che li differenzia dai letterati di altri secoli, o dai letterati al servizio al potere della loro società.

    Questo ovviamente si scontrerà, lo vedremo forse in seguito, con quella che è l’associazione quasi dominante all’interno degli storici della rivoluzione francese – e non solo degli storici della rivoluzione francese – i quali intendono la filosofia e la filosofia illuministica come l’espressione dell’interesse di una classe. I più bonari – i più buoni no – invece sostengono che la filosofia illuministica è l’espressione in concetti della realtà complessiva francese, più che di una classe o di un ceto. Ma è questo che Tocqueville sta negando. Ora, lo straordinario è che Tocqueville lo neghi prima ancora che si rafforzi, si dimostri teoricamente, o si cerchi di mostrare teoricamente, l’origine sociale della filosofia. L’origine sociale della filosofia, intendendo che esiste una società, più o meno scassata, più o meno aggiustata che esprime una filosofia, o molte filosofie, ognuna delle quali riflette l’interesse di un qualche raggruppamento. Questa è una lezione quasi codificata, quasi normale, da decenni, la più evidente linea di spiegazione della filosofia. E adesso che siete informati, che siete diventati un po’ più grandi, incominciate a pensare cosa può essere mai invece una filosofia che non esprime una realtà sociale. E dopo cercherò di mostrarvi come diventi possibile parlare di una filosofia che esprime in concetti una società, e perché mai una società ha bisogno di passare ai concetti per esistere.

    È importante allora capire che tutti i cahiers, tutta la letteratura dei cahiers è, per Tocqueville, letteratura. Col risultato strano, se voi ci pensate, che Tocqueville fa capire, anche se non lo scrive, che è inutile che voi cerchiate nei cahier lo stato reale dei bisogni, delle attese, delle prefigurazioni dei francesi reali. Quello che voi trovate è lo stato immaginario dei francesi; tutti vivono speranze immaginarie, le loro prefigurazioni immaginarie. Quindi i cahiers non sono lo specchio di una grande nazione, della svolta storica del suo destino, ma sono null’altro che l’espressione di francesi che ormai vivono tra le nuvole. Ed è un insegnamento abbastanza sconcertante, con una vis abbastanza sconcertante, e soprattutto sconcertante per tutti coloro che invece nei cahiers – gli storici di professione – vanno sempre a cercare quello che i francesi invece di fatto volevano. Certo che i francesi vogliono questo, nei cahiers. Ma ciò che vogliono è qualcosa di immaginario. Non esprimono nessuna esigenza reale, radicata sul suolo di Francia, ma sono radicati sulle nuvole. E qui vedete che i problemi cominciano ad accumularsi, e la tentazione di buttar via Tocqueville prima o poi arriva, di liquidarlo perché Tocqueville pone troppi problemi. In ogni caso, l’importante per Tocqueville è riuscire a stabilire finalmente, contro le sue prime credenze, che i cahiers dell’89, quelli della nobiltà, non esprimono affatto un programma riformista. Infatti concludeva quell’analisi dicendo ai nobili che bastava essere plebei per fare la rivoluzione. Dopo si correggerà; i nobili faranno la rivoluzione, il loro guaio è che saranno sterminati.

    Ma se i cahiers nell’88-’89 non esprimono un programma aristocratico, allora quella famosa prima parte – vi ricordate, ne abbiamo parlato – la famosa prima parte dove va a finire? Per Tocqueville le fasi della rivoluzione sono due: la prima l’amore per la libertà, la seconda l’amore per l’uguaglianza; la prima è aristocratica, la seconda è democratica, ricordate? Ma se i cahiers sono tutti nell’ottica dell’uguaglianza, quindi nell’ottica della democrazia, della prima stupenda, generosa fase, che ne è? Sembrerebbe scomparire di colpo.

    In realtà, ecco qui la novità che incomincia a emergere, la prima fase, secondo Tocqueville, va arretrata nel tempo. Non è più dall’89 al ‘91, come pensano i liberali nella prima metà dell’Ottocento, ma tra l’87 e l’88, settembre, ottobre dell’88, quindi dal gennaio febbraio dell’87 fino a settembre-ottobre dell’88.

    Questo arretramento della prima fase negli anni ‘87-’88 è di grande interesse perché è poi diventato di nuovo classico di tutti gli storici della rivoluzione, che quanto meno, hanno tenuto presente che esiste una pre-fase, una prima fase che va dall’87 alla fine dell’88.

    Allora l’89 ha un prologo. Ma poiché questo prologo è un prologo aristocratico – ci si batte in nome della libertà politica, non in nome dell’uguaglianza e quindi è la fase positiva per Tocqueville – gli altri storici, che a distanza di tempo riprenderanno questa suddivisione, in quale modo parleranno di questa pre-fase positiva? Ovviamente parleranno in senso contrario. Questi due anni segnano la reazione aristocratica o la rivoluzione superiore, rivoluzione all’incontrario. I più malevoli o i più – chiamateli come volete, non esprimo dei giudizi –la chiamano anche rivolta o reazione aristocratica. Vale a dire che gli anni dall’87 all’89 diventano ovviamente massimamente negativi per gli storici che riprendono poi la scoperta, chiamiamola così, di Tocqueville. L’importante è, per tutti quegli storici, di cui ho fatto anche i nomi, nella prima lezione, molto, molto più astratta, cioè per Soboul, Mathiez e gli altri, Lefebvre i grossi, questa prima parte, aristocratica e reazionaria, diventa essenziale perché essa ed essa soltanto ha fatto precipitare la Francia nella crisi rivoluzionaria. Detto in altri termini, nell’interpretazione contraria a quella di Tocqueville, l’87-’88 sono due anni di inasprita reazione aristocratica che precipita lo svolgimento degli avvenimenti francesi verso la rivoluzione. Cioè la rivoluzione non ci sarebbe stata se non ci fosse stata una grande reazione aristocratica.

    Perché questo? Com’è possibile questa interpretazione? È possibile questa interpretazione sulla base di Tocqueville, ma ormai su altri toni, sul fatto ormai che la Francia fosse mossa ormai da tempo da fattori storici molto profondi, e in particolare un trend di tipo economico che mutava, lentamente ma inesorabilmente lo status di cose francesi. Questo trend mutava non solo la società, con la società e le sue istituzioni, che viene da tutta la sua normazione giuridica, come direbbero questi storici, e avvia il crollo di un sistema di tipo feudale, e avvia la Francia verso una forma economica di tipo capitalistico, contro una forma economica di tipo feudale. Questo trend, questa causa profonda che muove la Francia in modo inesorabile troverebbe nell’87 uno schieramento fortemente contrario. Ecco la reazione, e qui si chiama reazione. Quindi nobiltà, alto clero e chi per loro scendono in campo per bloccare questo sviluppo storico. Sul punto di perdere il loro potere, la loro funzione, in una ultima disperata battaglia scendono in pochi.

    Questo tipo di interpretazione cosa permette? Permette forse, questo è lo straordinario, di impiegare tutto quello che era il refrain. Perché? Perché, a differenza di Tocqueville, adesso la nobiltà, e in ogni caso l’aristocrazia – sono termini molto discutibili – l’aristocrazia, diventa un avversario potente. Potente non tanto per la posizione sociale di cui ancora gode – perché anche tutti gli storici ammettono che la nobiltà ormai ha ricevuto dei colpi molto duri dall’organizzazione sociale – ma occupa una posizione ancora potente perché è disperata, cioè perché è pronta all’ultima mossa, e perché in gran parte può servirsi del potere dello Stato, lo dico tra virgolette perché sono espressioni davvero incomprensibili, e quindi può usare il potere dello Stato in tutte le istituzioni per bloccare l’emancipazione della borghesia e delle forze che dalla borghesia sono traenti.

    Improvvisamente la nobiltà diventa una grande potenza. Questo spiegherà allora perché per ristabilire il trend storico vi sia bisogno della violenza, l’89 e tutte le date. Perché questa aristocrazia moribonda, proprio perché sta morendo, tenterà tutto e tutti i mezzi per abbattere o per bloccare il trend. E non esiterà un attimo a ricorrere ai mezzi più infami pur di battere le forze contrarie. Ricorrerà, ad esempio, nell’89 ad avvelenare tutte le farine di Francia. Se questo, quello di far morire 26 milioni di persone, fosse un modo per bloccare un trend storico non lo so. In ogni caso, questa è una notizia che i francesi danno per certa.

    Al di là di questo, adesso vedete che tutti i delitti che si susseguono, sui quali non dobbiamo arretrare, perché sono avvenimenti di una violenza sconcertante, che ancora oggi, a distanza di due secoli, sconcerta e lascia parecchio perplessi, questi avvenimenti adesso trovano la loro giustificazione. E la loro giustificazione sta nel disperato, ultimo tentativo di tutte le forze aristocratiche coalizzate tra di loro. Così la prima fase, per Tocqueville, serve, in un’altra ottica, a spiegarci tutti gli elementi. E con questo gli storici cercheranno di spiegare il fatto che durante la rivoluzione non è che si neghi soltanto alla nobiltà il titolo di essere nobiltà, ma si nega alla nobiltà il diritto di esistere, che è un po’ diverso. E questo è un punto determinante, perché è un’azione un po’ più pesante.

    Allora, lo strano è che la rivoluzione dell’89 non è più una rivoluzione, ma se vogliamo usare i termini in un significato neutrale, cioè meramente meccanico, meramente descrittivo, la rivoluzione dell’89 diventa una reazione a un movimento nobiliare. In ogni caso c’è un qualcosa che interrompe l’87-’88, una reazione. Detto in termini più descrittivi, l’89 incomincia ad apparire in questi storici come un percorso tutto determinato da questo esempio reattivo. Gli avvenimenti dell’89 saranno una difesa della società francese così come si preannunciava contro tutti coloro che osano ostacolare il trend di sviluppo economico e sociale. In questo però Tocqueville e gli altri storici in qualche modo concorderebbero: l’87-’88 è un periodo di lotta nobiliare o lotta aristocratica, che mette capo a determinazioni di tipo aristocratico. In realtà, è qua che incominciano invece tutte le grosse difficoltà, che cominciano ad accumularsi fino a sotterrarci. Perché Tocqueville proprio su questo ‘87-’88, che sono i due anni che sarebbero cari al suo cuore, perché in fin dei conti è l’ultimo disperato tentativo di salvare la Francia dal dispotismo, da un’oppressione cupa, centralizzata, onnipotente. Proprio perché sono gli ultimi due anni in cui i francesi hanno dimostrato un attimo di generosità, Tocqueville incomincia a studiarli nei singoli avvenimenti, per riuscire a mostrare ai francesi, proprio il tessuto in sé, il nucleo intero di questa ultima grande riforma. Tocqueville incomincia l’analisi di questi due anni, ‘87 e ‘88 e nell’esaminare i singoli avvenimenti scopre che questa lotta per la libertà è una lotta assolutamente strana, bizzarra e incoerente.

    2. Il progetto di riforma e l’opposizione nobiliare

    La rivoluzione ora comincia un po’ a cambiare volto, perché si incomincia a studiare analiticamente i due anni ‘87 e ‘88 e da questa analisi particolare dei fatti salta fuori il risultato sorprendente che, vi dicevo ieri, Tocqueville fissa con questi tre termini: è una lotta, quella dell’87-’88, bizzarra, incoerente e irregolare.

    Perché? Perché lì è la data di inizio: la convocazione da parte del Re o del suo ministro delle finanze, dei notabili. Ciò che il re propone, o meglio, ciò che Calonne propone su invito del re, sono, scrive Tocqueville, tutte le misure conformi allo spirito del tempo, e cioè abolizione della corvée, riforma della tassa, soppressione delle vingtièmes, che sono delle tasse particolari che è inutile qui adesso analizzare, a cui erano riuscite a sfuggire le cosiddette classi privilegiate, e al posto di tutte queste abolizioni propone un’imposta territoriale unica, stabilita secondo i criteri moderni, dice Tocqueville, addirittura i nostri criteri di una imposta fondiaria, un catasto. Quindi è una riforma finanziaria che si basa sul principio dell’uguaglianza, perché adesso questa imposta territoriale colpisce tutto, sulla base del reddito effettivamente goduto. Non solo questo. Il re propone di togliere tutte le dogane interne, e quindi far valere soltanto le dogane esterne, cioè proprio dei confini rispetto agli altri Stati europei. E poi accetta o propone che siano le assemblee provinciali, a cui abbiamo già accennato, a caricarsi del peso maggiore dell’amministrazione.

    Tutte queste proposte sono nello spirito del tempo, e sono proposte che vanno contro i privilegi e cercano di catturare i privilegiati e ricondurli a una norma comune. Ebbene, tutte queste misure sono combattute dai notabili. I notabili dovevano esprimere un parere su queste riforme: erano auspicabili, erano utili? E i notabili le combattono tutte. Eppure, scrive Tocqueville, sono i notabili ad avere il favore popolare. Scritti, libelli, canzonette, manifestazioni e via dicendo sono numerosissimi e sono tutti a favore dei notabili. Scrive Tocqueville: spettacolo singolare. Quelle riforme che saranno fatte nell’89 sono adesso violentemente combattute con il favore popolare. Calonne, ministro delle finanze, non capisce niente e non capisce soprattutto come mai delle proposte che avrebbero dovuto suscitare il favore popolare abbiano invece un rigetto così violento da parte di tutti. Allora scrive un Avvertimento alla nazione francese, che fa pubblicare e diffondere ai quattro angoli di Francia, Avvertimento nel quale spiega che tutte le riforme hanno solo un senso, quello di togliere i privilegiati in quanto privilegiati e far soggiacere i privilegiati a delle leggi comuni. Quindi, come scrive Calonne, tutte queste riforme sono un carico per i ricchi e un sollievo per i poveri, perché non introducono nuove tasse ma ridistribuiscono vecchie tasse in modo più giusto. E non solo; aggiunge che il clero, in particolare, per la prima volta nella storia di Francia, avrebbe finalmente pagato le tasse come tutti gli altri, perché anche il clero è composto di cittadini e non si capisce perché alcuni cittadini non contribuiscano agli oneri della vita sociale.

    Eppure, nonostante questo Avvertimento, l’appoggio ai notabili accresce e si incendia. Col risultato, di nuovo sorprendente, che ciò che i notabili difendevano col favore popolare era esattamente tutto ciò che l’89 spazzerà via in un colpo solo. E tutto ciò che proponeva invece il re e che è così aspramente combattuto ritorna sui principi stessi della rivoluzione. … E, una volta eliminati i notabili, i Parlamenti terranno la stessa posizione dei notabili e allargheranno l’incendio a tutta la Francia. L’unico contenuto allora di questa lotta, che nell’88 vede di fronte il re e i suoi ministri e i Parlamenti, è esattamente questo: che i Parlamenti insegnavano al popolo il malgoverno della monarchia e la monarchia insegnava al popolo i crimini dell’aristocrazia. … [registrazione interrotta]

    3. La rivoluzione secondo Soboul

    In un libro scritto a più voci – da quattro autori – dal titolo: Sanculotti e contadini nella rivoluzione francese, edito da Laterza e credo esaurito, abbiamo visto come Soboul definisca la rivoluzione come una rivoluzione borghese, che permette l’affermazione del modo di produzione capitalistico. Questa affermazione è poi spiegata attraverso una lettura delle varie fasi della rivoluzione stessa e qui, secondo me, sorgono i problemi. In ogni caso, prima seguiamo il discorso di Soboul e dopo vediamo quali annotazioni si possono fare.

    Allora adesso non mi ricordo più bene dove ero arrivato, ma in ogni caso la prima tappa è costituita dal fatto che, già a partire dall’estate del ‘90, la politica di compromesso tra l’alta borghesia, la grande borghesia e l’aristocrazia non è più possibile e perciò la grande borghesia al potere vuole fermare la rivoluzione. E questo già sottolineatelo, perché dovremo tornare su questa affermazione. E la ferma con delle misure restrittive, misure che mi sembra di aver già indicato quali sono. Ma la resistenza dell’aristocrazia rende impossibile tale politica di compromesso. Perché? Perché vi è l’appello allo straniero da parte della monarchia, il re che scappa, anche se non ce la fa e, purtroppo per noi, è tornato indietro. E appunto questi tradimenti dell’aristocrazia rendono impossibile alla borghesia continuare la sua politica di compromessi. Per cui da questa prima crisi, il settore dirigente della borghesia viene spazzato via ed emerge una seconda generazione borghese, socialmente differente. Un elemento più combattivo, sostituì – parole esatte di Soboul – i grossi borghesi con gli altri. E con gli altri è appunto la definizione che viene data a questo gruppo dal convento dove si trovavano.

    Bene, questa seconda generazione è reclutata in gran parte tra la media borghesia colta degli avvocati e dei giornalisti, legata alla borghesia degli affari, cioè armatori, commercianti, banchieri. La quale borghesia degli affari ha tutto l’interesse alla guerra, perché la guerra assicura grandi forniture, per cui questi dichiarano guerra all’Europa; una guerra che sappiamo non finisce più, una guerra permanente, che finirà soltanto con il crollo di Napoleone. Quindi contate gli anni che dura la guerra europea. Perché questo? Anche perché questa borghesia aveva tutto l’interesse a distruggere l’aristocrazia ovunque fosse, ovunque trovasse rifugio, anche quindi al di là delle frontiere di Francia, fino a portare la lotta di classe sul piano dell’antico regime europeo. Ma la guerra deluse i calcoli di questa borghesia, che è quella girondina, tanto per intenderci, perché negli antagonismi sociali si verificò una nuova incrinatura. Continua così: I rovesci della primavera del 92, attraverso i quali si intravide la necessità di una alleanza con le classi popolari per assicurare la vittoria, indicano l’incertezza e la malafede dei giacobini. Perché i giacobini acconsentono sì a fare appello al popolo, e quindi a servirsi del popolo, ma nei limiti in cui il popolo si atterrà agli obiettivi assegnati dalla borghesia. Così mentre la crisi nazionale moltiplica lo slancio rivoluzionario delle classi popolari, la borghesia girondina, aggrappata senza riserve alla libertà economica, si inquieta nel vedere i sanculotti esigere il calmiere generale delle derrate, cioè la regolamentazione. Proprio per questo i girondini si staccano dal movimento popolare. Scrive Soboul: per egoismo di classe la borghesia girondina rifiutò l’aiuto del popolo. – Sottolineate egoismo di classeCosì si avverarono le previsioni di Robespierre, secondo il quale era necessario, prima di combattere l’aristocrazia oltre le frontiere, combatterla all’interno. Ma per combatterla anche all’interno vi è necessità di legarsi al popolo. E la Gironda non vuole, abbiamo appena visto, sempre per egoismo di classe, ripetuto nel capoverso successivo. E quindi ricorre ai sanculotti un’altra frazione della borghesia, la terza, che si accinge a ordinare, a disciplinare l’ardore popolare nell’organizzazione del governo rivoluzionario e della dittatura giacobina. Da questa frazione borghese doveva venire la salvezza della rivoluzione. Quindi siamo nel ‘92-’94, la repubblica giacobina, o la dittatura giacobina, termini quasi equivalenti anche per gli stessi contemporanei. Ecco così il 10 agosto del ‘92 i sanculotti e la classe media giacobina. Anche qui in primo luogo era la grande borghesia, in secondo luogo una borghesia già un po’ più bassa, degli affari, adesso siamo arrivati alla classe media giacobina, insieme ai sanculotti spazzano via la monarchia, che è il sostegno dell’aristocrazia. Ed è un’insurrezione che, se non è proprio contro la Gironda – girondini secondo strato borghese – avviene tuttavia senza la Gironda, e tale astensione della Gironda in questa lotta equivalse alla sua sentenza di morte. – I girondini infatti saranno processati e decapitati tutti – Infatti, per paura del popolo la Gironda cerca di salvare il re e cerca di accordarsi con l’aristocrazia per produrre la grande controrivoluzione. La grande borghesia si unì dietro ad essa, cioè alla borghesia girondina. Ancora una volta – altra affermazione da tenere presente – l’interesse di classe aveva il sopravvento sull’interesse nazionale. Come la monarchia il 10 agosto, così la borghesia girondina, divenuta il sostegno indiretto dell’aristocrazia e un ostacolo allo slancio nazionale, fu tolta di mezzo da un moto popolare disciplinato dalla piccola e media borghesia". Siamo insomma arrivati in fondo in questi strati borghesi perché abbiamo anche la piccola borghesia.

    Qui il problema diventa complesso perché si tratta di determinare la posizione sociale della borghesia montagnarda. È una borghesia intransigente, questa è la definizione, poco sociologica, più di tipo moralizzante, perché è una borghesia che vuole la vittoria a tutti i costi. Perché nella vittoria sta la loro salvezza, la sua salvezza, della borghesia.

    Adesso state attenti, c’è un’altra osservazione da sottolineare. Avendo approfittato della rivoluzione, specialmente della vendita dei beni nazionali, questi borghesi sapevano di perdere tutto dal ritorno dell’aristocrazia. Quindi è una strana borghesia questa, perché è una borghesia che ha approfittato della rivoluzione. Ma la borghesia convenzionale, questa, di piccoli profittatori, come piccola e solo piccola borghesia, è dominata dall’esterno dai giacobini e dai sanculotti, che nel ‘92-’94 sono l’anima e la carne del governo rivoluzionario.

    E adesso con un passaggio che io ancora non capisco – ma questo non dovrei dirvelo – elemento dirigente di questa è la media borghesia, ben incarnata da Robespierre, ben rappresentata da Robespierre, che col legame, la fraternità con i sanculotti porta a termine o vuole portare a termine la rivoluzione borghese. Esempio tipico di questa borghesia media è il falegname Duplay. È lui che fa questo esempio, io non ci avrei mai pensato a questo falegname, che era uno dei più duri giacobini, uno dei più puri, proprio di quelli che non scherzavano neanche un po’, ed era difficile anche scherzare con Robespierre. Perché? Perché questo falegname Duplay non soltanto aveva un reddito dipendente dal lavoro dei suoi operai, ma ricavava dagli affitti degli appartamenti circa 10-12.000 lire al mese.

    Ecco, questo sarebbe il rappresentante della borghesia giacobina. I sanculotti ne sono il sostegno e poi, secondo questi interpreti, fanno tutta la rivoluzione nella fase estrema. Infatti, scrive Soboul che i sanculotti hanno fornito alla borghesia la massa rivoluzionaria indispensabile per distruggere la vecchia società e che il loro spirito di classe li portava contro l’antico regime, ma per la loro posizione sociale, erano in contrasto con la borghesia. Allora, erano uniti alla borghesia dall’odio contro l’antico regime, però, per la loro posizione sociale erano in contrasto con la borghesia. Perché? Perché la loro mentalità è precapitalistica. E così, mentre la borghesia voleva, reclamava la libertà economica, questi neanche per sogno, perché i sanculotti insistono sempre per regolamentare tutto l’ambito dell’antico regime. Non solo. Erano pre-capitalisti nel senso che volevano la proprietà e mai e poi mai avrebbero accettato di essere declassati dallo sviluppo capitalistico, perché lo sviluppo capitalistico avrebbe portato a trasformarli in salariati, e quindi a perdere quel minimo di indipendenza, di proprietà sulla bottega, su tutti gli strumenti che ancora possedevano. In questo senso allora i sanculotti, per la loro posizione, segnano una corrente autonoma all’interno della rivoluzione, autonoma rispetto alla corrente borghese. Cosicché l’alleanza tra la borghesia dei proprietari e sanculotti è contraddittoria e destinata a sciogliersi, a spaccarsi. Non appena la vittoria appare prossima l’alleanza è disciolta, la borghesia riprende la sua libertà di azione e abbandona i sanculotti. E con questo abbandono c’è anche la fine del governo rivoluzionario, siamo al ‘94. Ma il ‘94 segna anche la liquidazione di questa borghesia giacobina, il periodo che comincia con il terrore bianco, il terrore contro i giacobini.

    Allora il Soboul qui si ferma a proposito dei sanculotti. Perché? Perché nella storiografia intorno agli anni ‘20 e ‘30, i sanculotti erano stati visti e interpretati come proletari e quindi il movimento sanculotto era stato inteso come un movimento proletario, e quindi con rivendicazioni già socialiste. Soboul dice che questa è una lettura assolutamente sbagliata. I sanculotti non rappresentano l’avanguardia di un movimento storico, non sono la prefigurazione del movimento operaio e proletario dell’800; i sanculotti, parole sue, sono una retroguardia, una retroguardia che difende le posizioni di una economia tradizionale e poi non formano neanche una classe, perché sono figure di diversa collocazione, perché sono lavoranti di bottega, operai, giornalieri, bottegai, artigiani proprietari e piccoli borghesi. Ciò che li unisce e salda è l’odio per l’aristocrazia e, state attenti di nuovo, l’odio per il sistema capitalistico. Abbiamo detto prima che tenevano alla propria indipendenza. Quindi i sanculotti sono ostili al capitalismo tuttavia sono attaccati all’ordine borghese perché vogliono rimanere proprietari. Ma proprio perché sul piano sociale e sul piano delle rivendicazioni sociali sono una retroguardia, sul piano politico, e siamo su un piano molto differente, sono l’elemento democratico più avanzato – sottolineate anche questo, mettetelo tra virgolette. Sono l’elemento più avanzato, e questo dovremo spiegarlo, ma poiché le loro posizioni sono reazionarie, sono destinati a morire tutti col nuovo modo di produzione. Quindi le loro rivendicazioni, la loro stessa esistenza fisica doveva portarli alla sconfitta e alla liquidazione definitiva quando si afferma il nuovo modo di produzione capitalistico. Saranno spazzati via, altra affermazione da tener presente, mentre l’evoluzione capitalistica portava al potere la borghesia. E qui sui sanculotti basta.

    E adesso si passa ai contadini, altro elemento in gioco in questo grande dramma. La posizione dei contadini è analoga a quella dei sanculotti. Perché? Perché la rivoluzione contadina si sviluppa nel quadro della rivoluzione borghese e non la supera mai, ma, se non la supera mai nelle proprie rivendicazioni, neppure si identifica o si risolve completamente nella rivoluzione borghese. Questo vuol dire che anche la rivoluzione contadina ha un andamento autonomo, ha una propria autonomia, esattamente come le rivendicazioni dei sanculotti avevano un certo margine di autonomia. In questo Soboul fa propria la tesi di Lefebvre, il quale proprio sui contadini ha dato le sue cose migliori. Ma perché la rivoluzione contadina ha un margine autonomo? Perché i contadini, già a partire dall’89, si oppongono ad ogni trasformazione capitalistica delle campagne. E invece quello che cercano e quello che hanno già, e quello che avranno ancor di più durante la rivoluzione, è l’acquisizione di proprietà e, ovviamente, di una piccola proprietà. La forza di questa rivendicazione fu tanto grande che la borghesia dovette transigere.

    Così, adesso state attenti, altra frase su cui riflettere: la rivoluzione, trionfante altrove, non realizzò nelle campagne che un compromesso. Nelle campagne abbiamo un movimento autonomo che si batte contro il capitalismo e contro lo sviluppo capitalistico, che si batte di nuovo quindi per una situazione come quella esistente, quindi di nuovo entro l’antico regime. Cosicché nelle campagne il capitalismo non si realizza. Qui si poteva fermare un attimo, qui Soboul non ha tanto da inventare, perché ormai esiste una bibliografia economica terrificante sul problema dell’estrema suddivisione del territorio francese in mano a tanti piccoli contadini. E proprio a questa suddivisione si attribuisce il fatto che la Francia conosca lo sviluppo capitalistico nelle campagne con un ritardo mostruoso rispetto all’Inghilterra e rispetto alla stessa Germania. Quindi che lo sviluppo capitalistico sia stato intralciato in Francia nelle campagne è un dato storico.

    Detto questo, ormai siamo arrivati quasi alla fine del saggio. Il bilancio allora che ne trae Soboul è che la rivoluzione ha distrutto l’aristocrazia, ma ha distrutto pure le parti della borghesia che facevano parte integrante dell’antico regime. Di natura borghese, insiste, la rivoluzione ha assicurato il trionfo dell’economia capitalistica e ha rovinato tutte le categorie sociali connesse al sistema economico tradizionale. Infatti, senza parlare delle misure contro le persone, dei massacri, delle esecuzioni, la nobiltà sparì come ordine sociale. Ma scomparve pure tutta quella borghesia che si basava sulla rendita fondiaria e sulla venalità delle cariche, e quindi anche quella borghesia finanziaria legata alla riscossione delle imposte, quindi comunque legata allo Stato. E anche questa affermazione è assolutamente stupefacente: la Convenzione giunse il 24 agosto del 1793 a sopprimere le società per azioni, dunque la forma più progredita di capitalismo. E, sempre per parlare della distruzione degli strati borghesi, si pensi appunto per misurare i conti che la rivoluzione borghese portò ai borghesi, a certi settori della borghesia, alla notevole ripercussione dell’inflazione sulle ricchezze acquisite. Infatti la borghesia tradizionale investiva i propri risparmi in prestiti ipotecari e in titoli di debito pubblico. Dopo – se voi leggete con attenzione vedete che questi prestiti a un certo punto diventano un po’ forzati. E ovviamente investendo in questi titoli, in questi prestiti il risparmio svanisce e l’inflazione raggiunge, per quanto riguarda l’assegnato, livelli spaventosi.

    Tutti questi avvenimenti ci spiegano l’adesione della borghesia dell’antico regime alla controrivoluzione e quindi il fatto che questa borghesia condivise con l’aristocrazia la causa e anche la sorte. Col risultato che, se consideriamo la classe che aveva diretto la rivoluzione e ne trasse profitto essa appare radicalmente trasformata. Alla preponderanza della ricchezza acquisita si è sostituita la preponderanza dei dirigenti della produzione degli scambi. Appariva cioè, alla fine del decennio rivoluzionario, in prima fila una nuova borghesia: i capi dell’industria i dirigenti del commercio e della politica. Con la conclusione, anche questa da sottolineare, che la borghesia che scatenò la rivoluzione non fu quindi la stessa che ne trasse profitto. E con questo siamo arrivati alla fine, salvo il fatto che Soboul sottolinea che questo è il carattere drammatico e dialettico della storia.

    Allora cerchiamo un attimo di ricompattare questo discorso, cioè di analizzarlo un po’ più in distanza, se siete riusciti a capire qualcosa.

    E la prima cosa che può sorprendere è l’affermazione che la rivoluzione è partita nell’89 e già dall’estate del ‘90, scrive, si assiste a una politica del compromesso tra borghesia e aristocrazia e la grande borghesia si dà da fare per fermare la rivoluzione. Cosicché l’andamento della storia rivoluzionaria – questo sarebbe per Soboul – sta nel fatto che nuovi gruppi borghesi, (che l’analisi sociologica riesce in qualche modo ad individuare), via via prendono in mano la bandiera della rivoluzione. Ma ogni volta che cosa avviene? Che quelli che governano, che dirigono la rivoluzione, questi prima o poi cascano, crollano, o la tradiscono, come scrive Soboul, cosi che la bandiera passa in nuove mani, fino ad arrivare al punto che tutta la borghesia è investita dai dieci anni della rivoluzione e nessuno di questi strati borghesi arriva fino là, perché è una borghesia assolutamente diversa e nuova quella che ne avrà i vantaggi.

    Ma questa non è forse la cosa più importante. La cosa più importante è quello che Soboul dice a proposito del ‘92-’94, vale a dire del periodo del governo rivoluzionario, la fase estrema della rivoluzione. Perché? Perché, arrivati al ‘92-’94, la grande borghesia, la borghesia affaristica è spazzata via, perché ha tentato i compromessi con l’antico regime e con l’aristocrazia. Per cui la rivoluzione ha come sostenitori da una parte la piccola borghesia giacobina e dall’altra la massa dei sanculotti.

    Ma sui sanculotti che cosa ci dice Soboul? Ci dice che costoro non avevano nessun interesse reale rivoluzionario anche perché in realtà erano dei reazionari, anzi, in realtà le loro rivendicazioni erano tutte per una economia di tipo tradizionale, erano avversi ad ogni trasformazione. Con il risultato quasi stupefacente – adesso lo dico io, ma ovviamente dopo ognuno ha le sue opinioni – che la rivoluzione è sostenuta da masse reazionarie, e ovviamente è sostenuta da una piccola borghesia, la quale è sempre esistita, perché gli scribacchini, i cancellieri, portieri (sono quelli che sono giacobini) sono sempre esistiti dappertutto, da tutte le parti, anche nella Grecia antica insomma c’erano gli scrivani, gli avvocati, gli oratori. Ma questa piccola borghesia non esprime nessun interesse capitalistico, così come il Soboul me la vende, perché interesse capitalistico lo può esprimere chi di fatto cerca di portare avanti un modo di produzione completamente differente, da cui questa piccola borghesia è tagliata assolutamente fuori. Ma la frase ancora più sbalorditiva è quella che Soboul ripete tre volte – a quanto mi ricordo – a proposito dei giacobini, ed è sostanzialmente questa: la borghesia giacobina, per egoismo di classe, rifiutò l’aiuto del popolo e quindi, per egoismo di classe, tradisce la rivoluzione e si allea con l’aristocrazia. Allora qua io, evidentemente, non ho capito bene il discorso di Soboul, perché se la rivoluzione è borghese, i borghesi giustamente devono esprimere un interesse di classe, quindi un egoismo di classe per portare avanti la rivoluzione. E quindi sarebbe stato giusto dire che per egoismo di classe la borghesia portò avanti la rivoluzione. E invece Soboul dice esattamente l’inverso: per egoismo di classe la borghesia girondina tradisce la rivoluzione. I girondini, ma anche i giacobini per egoismo di classe tradiscono la rivoluzione. E prima dice rivoluzione, poi invece sostiene che tradisce lo slancio nazionale o lo slancio della nazione.

    Allora, se questo egoismo di classe dei girondini è vero egoismo, autentico, sano, questo vuol dire che l’interesse sano, borghese, è diverso da quello della rivoluzione. Se per essere egoisti si tradisce la rivoluzione questo vuol dire che la rivoluzione non è una rivoluzione borghese. Per un borghese, egoista è un’idea che va fino in fondo, ma duramente, senza fermarsi mai, e non ogni volta tradirla. E questo dà l’impressione che la rivoluzione fosse molto di più della borghesia e dell’interesse borghese capitalistico. Il quale interesse borghese capitalistico è da Soboul fatto tradire sin dall’inizio; già nell’89 la grande borghesia tradisce, secondo Soboul, e quindi sono stati sempre stati gli strati inferiori quelli che portano avanti la rivoluzione.

    Vi è poi un’altra affermazione sorprendente, quella relativa al 24 agosto del 1793, quando si sostiene, ed è vero, questo si riscontra, che la Convenzione giunse, in quella data, a sopprimere le società per azioni, la forma più progredita di capitalismo. Ora è bello anche questo, nel senso che nella fase proprio dura della rivoluzione, che deve andare nel senso dell’affermazione del capitalismo, una delle tante norme anticapitalistiche è proprio questa. Non solo verrà regolamentata tutta la vita politica francese e non ci sarà foglia di pero o di melo che non sia regolamentata e catalogata, nella Francia del ‘94. Ma tutta la finanza viene messa sotto controllo a un punto tale che vi sarà una catena di disastri, di bancarotte successive. Nel ‘93 allora questa rivoluzione borghese produce, attraverso i propri protagonisti, delle misure antiborghesi e anticapitalistiche – e questo a proposito delle affermazioni generali.

    Se poi guardiamo le affermazioni particolari scopriamo che nel decennio rivoluzionario il capitalismo, che è il senso e il significato e il bilancio della rivoluzione per Soboul, per il quale la rivoluzione francese fu ciò che permise di far crollare il vecchio modo di produzione e di far partire a pieno regime il nuovo modo di produzione. Però Soboul mi dice anche che il 92% della popolazione rimane esterno, estraneo a questa trasformazione capitalistica, perché la trasformazione capitalistica non passa nelle campagne francesi, che rimangono invece regolate secondo procedure del tutto tradizionali.

    Cosicché quell’affermazione sorprendente, secondo me sbalorditiva quasi, che la rivoluzione, trionfante altrove, non realizzò nelle campagne che un compromesso. Ma per lo storico è tremendo, veramente incredibile, scrivere trionfante altrove, perché lo storico ha il dovere di indicare dove trionfa questa rivoluzione, cioè il modo di produzione capitalistico. Perché a questo punto non sembra che neppure nelle città si sia realizzata, visto che, in fin dei conti, i sanculotti giocheranno sempre con tutte le loro forze contro ogni tipo di innovazione. Col risultato che il ‘93-’94, la fase più intensa di difesa della rivoluzione, così chiamata dalle stesse fonti, e di trionfo della rivoluzione, quindi anche di vittoria sembra, è la fase in cui la rivoluzione è negata nella sua sostanza. Se è vero che la sua sostanza materiale è la trasformazione capitalistica, dal ‘92 al ‘94 troverete tutti gli atti, tutte le leggi, tutti i decreti e tutte le forze, così come le ha definite Soboul, che vanno contro questa trasformazione. Quindi proprio il ‘93-’94 è, nella sostanza, la negazione della rivoluzione.

    Però questo saggio, che non appare gran che coerente, tra le premesse e lo svolgimento, è di notevole importanza – sempre a mio parere, ai miei occhi, per quello che ho capito io – e quindi merita tutto l’interesse, e non può essere assolutamente buttato via, primo perché è il sunto e il bilancio dell’attività di un grande studioso come Soboul, e in ogni caso una sua dichiarazione di metodo riguarda le categorie interpretative, ognuna per leggere dieci anni di storia francese. E anche perché è il bilancio dell’intera scuola di Soboul, e quindi di una cattedra prestigiosa come quella della Sorbona e di una rivista altrettanto famosa e prestigiosa come gli Annali della Rivoluzione Francese. Perché di grande interesse? Perché in fin dei conti arriva a due affermazioni, che vedremo che ci inchiodano. La prima affermazione è questa: la rivoluzione, se bene o male avete capito, avete seguito, mi sono spiegato bene, non riesce mai a identificarsi con l’egoismo di una classe, perché semmai è vero il contrario, che l’egoismo di qualsiasi classe la tradisce. Ma col risultato sorprendente che chiunque tradisca la rivoluzione per egoismo personale, sarà dalla rivoluzione stritolato. Ogni volta che uno strato, così lo chiama, borghese, una frazione della borghesia si ferma e dice basta, sono stanca, viene tolta di mezzo. E non soltanto in modo metaforico, nel senso che rimane indietro, come alle Olimpiadi, ma proprio tolta fisicamente. Come dire che la rivoluzione, come esattamente scrive Soboul, va al di là dell’interesse egoistico perché è uno slancio nazionale. Questo è il suo termine, estremamente problematico, e cercheremo un po’ di scioglierlo. Che cosa è nazionale, qui? Il termine nazione è un altro di quei termini che schiantano dieci tori in un colpo solo, ma in ogni caso, in prima approssimazione possiamo dire che nazionale indica qualcosa che sta sopra, che non è toccato, e anzi dovrebbe dominare gli interessi particolaristici in una società. Quindi che è sovra partitico, sovra egoistico, sopra tutte le fazioni, e che quindi è l’interesse generale. Cioè la rivoluzione incarnerebbe l’interesse generale della nazione, l’interesse di tutti in ugual modo e nel medesimo tempo.

    Ma – e questa è forse l’ultima cosa che vi dico – questo slancio nazionale, questa tensione così estrema, così drammatica, verso il bene di tutti, il bene di tutta la nazione, il bene di tutti i francesi contemporaneamente, nel saggio di Soboul appare come privo di una vita propria, non è cioè uno slancio genuino, in positivo, che abbia una sorgente. Perché? Perché è messo in movimento, reagisce come reazione ad una forza, cioè all’aristocrazia. È sempre l’aristocrazia che conduce il grande gioco, è la potenza dell’aristocrazia che costringe già la borghesia nell’89 a intervenire, abbiamo così la pre-fase. Ma anche dopo, ogni tappa è data dal fatto che la borghesia al potere, stanca, si allea con l’aristocrazia. L’aristocrazia le tenta tutte, aspetta lo straniero, chiama tutte le potenze straniere a intervenire in Francia, e quindi la borghesia ogni volta deve mettersi in movimento, ed è allora che lo slancio nazionale piglia il sopravvento.

    Il vero motore della rivoluzione, già in questo saggio, ma si ripeterà poi praticamente secondo me in tutti gli studi di questa scuola e delle scuole che le sono vicine, come quella di Lefebvre ma pure anche Mathiez, il vero motore di questa straordinaria rivoluzione è esattamente il suo avversario, cioè l’aristocrazia. E questo è sorprendente perché, – ripeto in modo molto meccanico – la rivoluzione appare sempre come una reazione. Non ci sarà fase della rivoluzione che non verrà spiegata attraverso il fatto che gli aristocratici attaccano, allora bisogna muoversi: è la regola.

    Proprio per questo, insomma, almeno attraverso il racconto che vi ho fatto e che dopo rivedremo poi in particolare, proprio per questo questa prima fase, che è una clamorosa, incredibile scoperta di Tocqueville, e a cui Tocqueville è condotto contro tutto quello che pensava, contro tutti i suoi ideali, tutto quello che credeva, tutto quello a cui dava valore, questa prima parte, che poi lo stesso Tocqueville è costretto ad abbandonare, perché non tiene più, secondo la sua visione, perché non è certo una lotta per la libertà, no, questa è la lezione di Tocqueville. Questa prima fase, invece, diventa assolutamente essenziale per tutti gli altri storici, perché è già in essa spiegato il meccanismo, il motore della rivoluzione. Cioè la rivoluzione finirà quando l’aristocrazia sarà tutta liquidata, ma liquidati anche tutti coloro che con l’aristocrazia bene o male hanno dei rapporti segreti.

    E – l’ultima cosa che non vi avevo detto, ve la dico adesso, mi ero dimenticato e ve la dico adesso – ed è sorprendente, sempre relativamente ai fatti, che la rivoluzione fu una rivoluzione che distrusse l’antico regime, distrusse una forma di produzione, distrusse tutte le classi e affermò il dominio della borghesia su tutte le altre classi – così afferma Soboul – questa rivoluzione arriva al suo termine soltanto quando non la borghesia domina, questo è straordinario, ma quando in Francia nessuno può più dominare al punto tale che la Francia verrà tenuta insieme, mantenuta unita soltanto attraverso l’esercito e attraverso una dittatura militare.

    La fine della rivoluzione non è il dominio della classe politica, è il dominio di un generale, che si sostiene e si legittima, e qui Furet ha ragione da vendere, attraverso la guerra, e basta.

    4. Illuminismo e opinione

    Il problema è riuscire a capire come è possibile che la verità si faccia opinione, e come sia possibile parlare di opinione vera, che, come vi dicevo l’ultima volta, appaiono due termini contraddittori che non possono stare assieme.

    I testi degli illuministi, di questi straordinari personaggi sempre citati e sempre meno letti – forse giustamente anche – sono sempre ripieni di questo termine opinione. Prendendone uno a caso, ed è vero, assolutamente a caso, senza dover cercare molto, per esempio D’Holbach, che è uno dei cosiddetti grandi illuministi, in ogni caso un illuminista, grande o piccolo non importa, in un testo pubblicato nel 1773, dal titolo Sistema sociale o Principi naturali della morale e della politica fa questa semplice osservazione, che è assolutamente patrimonio comune di tutto l’Illuminismo. Inizia pigliandosela con Montesquieu. E se la piglia con Montesquieu, a proposito di un tema particolare, cioè dell’influenza del clima sui costumi e sulle istituzioni politiche. Bene, sostiene D’Holbach, Montesquieu non ha capito niente. Perché? Perché il clima non ha nessuna influenza sui costumi e sulle istituzioni, quindi sul sistema sociale complessivo. Non è il clima che fa l’uomo ciò che è, non è il clima che determina i costumi. Il fattore decisivo – qui è D’Holbach, ve lo sto leggendo – è l’opinione, e l’opinione non è che la fusione di idee trasmesse e perpetuate dall’educazione, dalla Chiesa e dal governo. L’opinione vera è quella che si fonda su ragione ed esperienza. L’opinione falsa è quella che si basa sull’ignoranza; e l’ignoranza, quindi l’opinione falsa è la vera ed unica causa di tutti i mali morali e quindi di tutti i mali sociali. Infatti, se la terra è in preda a tiranni che la saccheggiano, e se i popoli gemono nell’infelicità e nella miseria è perché sono dominati da false opinioni. Tutto quindi, ci mostra la necessità di combattere l’opinione falsa per sostituire ad essa l’opinione vera.

    Quello che D’Holbach afferma in questo testo è patrimonio comune, è ripetuto, e da allora in poi sarà per forza ripetuto secondo me da tutti fino ad oggi, esattamente perché l’opinione è questa grandezza sconosciuta che ancora oggi ci domina. Ma questo testo di D’Holbach ci permette di capire già un passaggio rispetto alla tematica antica e medioevale, perché per la tematica antica e medievale – se vogliamo così, o pre-moderna o pre-illuministica, adesso non so proprio ben definire – l’opinione gioca sì un ruolo, ma riguarda per lo più la fama, la reputazione; e la fama e la reputazione delle persone sono legate all’opinione. E l’opinione è cosa vana, evanescente, muta senza sosta, non si capisce da dove viene, cresce col percorrere del tempo, cresce col trascorrere delle persone, viene trasmessa. Adesso l’opinione non è soltanto padrona della reputazione, come è secondo la vecchia tradizione, ma determina la forma complessiva di una associazione, cioè determina l’istituzione, cioè determina ciò che l’uomo è, non ciò che l’uomo appare, perché tale è appunto la reputazione. E quindi vuol dire che qui l’opinione è caricata di molto più valore di quanto non la carichi l’apparenza. Ripeto, che se per la tradizione l’opinione gioca sull’apparenza, qui invece l’opinione gioca su tutte le strutture, quindi su ciò che l’uomo è, sul modo in cui l’uomo sta con gli altri.

    Questo è, secondo me, un passaggio decisivo, per chi vuole veramente studiare questo problema. Pochi, pochissimi, quasi nessuno ha studiato questo problema, questo è il punto su cui bisogna spostare i termini della ricerca. Ma allora veniamo all’opinione falsa, secondo D’Holbach. L’opinione falsa è un’opinione che deriva dall’ignoranza e che porta l’uomo a fare ciò che è contrario al proprio interesse. Per esempio spinge i regnanti, i governanti, a fare guerre, o a intendere la propria grandezza nello sfarzo, nella ricchezza esteriore. E questo va direttamente contro il proprio interesse. Come spinge i sudditi a vivere in una condizione di tremenda infelicità, magari assumendo opinioni false, come quella religiosa, per esempio, che scarica nell’al di là la felicità e dice: fin che state qua siate infelici e cercate soltanto moneta per star bene nell’al di là. Cercare moneta significa pagare la decima al prete. Ecco un’altra opinione falsa. L’opinione falsa in generale quindi è contraria agli interessi di ciascuno in particolare e di tutti in generale.

    Ma cosa vuol dire con questo? Vuol dire che l’opinione falsa non ha radici nell’uomo, cioè non proviene dalla sua intelligenza, non si radica in qualche sua convinzione, cioè non è sua ma gli proviene dall’esterno. Infatti D’Holbach ha guardato le tre fonti esterne: l’esempio, la Chiesa e il governo. E quindi avete le passioni e la forza. Questi sono gli strumenti attraverso i quali l’opinione entra nella testa degli uomini, suscitando passioni. Ecco la Chiesa che suscita terrificanti passioni, terrificanti punizioni, terrificanti castighi e attraverso questa paura tutto induce ad andare contro l’interesse; ed ecco il governo che dispone di tutti i mezzi della coercizione per di impiantare determinate opinioni rispetto ad altre. Quindi l’opinione – e questo è il suo carattere tradizionale, se volete – è qualcosa di superficiale, di esterno e di superficiale, cioè è dentro la testa dell’uomo, ma non ha radici. Però questa opinione falsa è tenace, e

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