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Che cos'è la politica?: Dialoghi con Alessandro Biral
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Che cos'è la politica?: Dialoghi con Alessandro Biral
E-book320 pagine4 ore

Che cos'è la politica?: Dialoghi con Alessandro Biral

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Info su questo ebook

Il 21 dicembre 1996 è scomparso Alessandro Biral. A dieci anni dalla sua morte il gruppo di amici e di allievi riuniti nell’Associazione “Alessandro Biral” ha preparato questo volume nel quale ha raccolto testimonianze di amici, di colleghi, di allievi, nonche di quelle sensibilità che hanno saputo avvicinarsi a lui attraverso i suoi scritti. Il tema di fondo è costituito dalla domanda «che cos’è la politica», che ha indubbiamente segnato il cammino di vita e di ricerca di Alessandro Biral.
Alla fine del volume vengono presentati due testi inediti di Biral.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 giu 2017
ISBN9788863364071
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    Anteprima del libro

    Che cos'è la politica? - Filiberto Battistin

    CHE COS’È LA POLITICA?

    DIALOGHI CON

    ALESSANDRO BIRAL

    a cura di Filiberto Battistin

    © il prato casa editrice

    via Lombardia 41/43 - 35020 Saonara (PD)

      tel. 049 640105 • fax 049 8797938

    www.ilprato.com • ilprato@libero.it

    ISBN: 9788863364071

    eBook by ePubMATIC.com

    Indice

    Presentazione

    «… λοιπòν βίον βιώναι μειρακίον εν γωνία τρ ν …»

    «… a vivere il resto della sua vita nascosto in un angolo con tre …» Filiberto Battistin

    Politica e filosofia politica Giuseppe Duso

    La teoria politica e l’uguaglianza dei moderni Lucio Cortella

    Il passato dello Stato, il futuro dell’Amore Pierangelo Schiera

    La misura della felicità Beatrice Bonato

    Platone ovvero della felicità Adriana Cavarero

    Personalità e governo di sé. Weber e l’orizzonte antropologico moderno Matteo Duria

    L’anarchia del potere. Note su un saggio di Alessandro Biral Francesco Mora

    Il grande capovolgimento. Dal primato platonico della politica al primato della tecnica nell’età contemporanea Umberto Galimberti

    Misura (metron) ed equilibrio (isorropia) nell’interpretazione del pensiero di Platone di Alessandro Biral Costanzo Preve

    Abbracciare il Dio misericordioso Roberto Grison

    … Solo perché credo non ci possa essere realtà senza parole che la esprimano… Maya Manaranjan

    Pensarmi bene, sentirmi male Federico Vannone

    Biral e il sapere autentico Michela Bernardi

    Amore e rivoluzione. Una passeggiata ideale con Alessandro Biral Cristina Perissinotto

    Una voce e un corpo Cristina Benedetti

    Il primo «scolaro» Mario Meggiato

    Ho conosciuto un philosophos! Lorenzo Morri

    Lachete Alessandro Biral

    Sulla filosofia pratica ovvero il rispetto verso Aristotele Appunti per una lezione ai dottorandi di Alessandro Biral

    Le visite ai morti

    Alessandro Biral

    Presentazione

    Sergio Quinzio in Religione e futuro ha scritto:

    A parlare di delicatezza sono troppo spesso gli incapaci di forza, e a parlare di forza sono troppo spesso gli incapaci di delicatezza. Non vedere mai più una persona è infinitamente doloroso. Più doloroso ancora sapere che quel dolore finirà per scomparire con il tempo, il consolatore per mezzo dell’incoscienza. La persona che mi ha guardato una volta con sincerità non posso dimenticarla, non posso non accettare la realtà senza di lei. Tanto meno posso accettare una realtà dove è possibile dimenticare e non soffrire più.

    Il 21 dicembre 1996 è scomparso Alessandro Biral.

    A dieci anni dalla sua morte il gruppo di amici e di allievi riuniti nell’Associazione Alessandro Biral, per non dimenticare, ha preparato questo volume nel quale ha raccolto testimonianze di amici, di colleghi, di allievi, nonché di quelle sensibilità che hanno saputo avvicinarsi a lui attraverso i suoi scritti.

    Proprio perché questi testi sono espressioni di uomini e di donne con esperienze di vita e di pensiero diverse, il volume assume la forma di una polifonia, di un componimento a molte voci, ciascuna delle quali esprime una sua speciale melodia.

    Il tema di fondo, il cantus firmus, è costituito dalla domanda «che cos’è la politica?», che ha indubbiamente segnato il cammino di vita e di ricerca di Alessandro Biral.

    Dialoghi con Alessandro Biral’ perché il libro non vuol essere una celebrazione, ma un modo di mantenere viva la presenza di Sandro, attraverso un confronto, anche aspro, con il suo originale modo di pensare la politica, mai scollato dalla vita.

    Alla fine del presente volume presentiamo due testi inediti di Biral.

    Il primo è un’analisi del dialogo platonico Lachete che costituiva una parte integrante di Platone e la conoscenza di sé, Bari 1997. Per motivi editoriali, Biral era stato costretto a tagliarla. Pubblicandola restituiamo al volume dedicato a Platone l’unità letteraria e filosofica pensata dal suo autore. Non è, infatti, possibile sostenere il dialogo con Platone senza essere «animati dalla più esigente, più ridestante, più pervasiva delle passioni: l’amore…che richiama il coraggio». Coraggio che impedisce di essere così vili da nascondere se stessi e di concedere agli altri soltanto parole, costringendo a rischiare tutto «pur di pervenire alla vita migliore, che ai vili, a coloro che rimangono dominati da piccole e banali passioni, rimane pur sempre negata».

    Il secondo è costituito da appunti stesi di suo pugno e preparati per tenere una lezione sulla filosofia pratica di Aristotele a dottorandi in Filosofia. Abbiamo ritenuto conveniente inserirli perché ci sembrano una bella e chiara testimonianza dello stile extra-ordinario con cui Sandro faceva filosofia.

    Filiberto Battistin

    «… λοιπòν βίον βιώναι μειρακίον εν γωνία τρι ν …»

    «… a vivere il resto della sua vita nascosto in un angolo con tre …»

    Filiberto Battistin

    Dunque, per conoscere se stessi occorre non solo una ‘bella testa’, ma bisogna avere un ‘bel carattere’, che ci renda capaci di scorgere le verità più tragiche, ossia innanzitutto quanta bruttezza e deformità c’è in noi stessi. […]

    Si diceva ieri che per Platone il sapere sofistico detiene una forza invincibile e tutti i dialoghi marciano sotto la convinzione che Socrate sarà sconfitto dal sapere oggettivato dei sofisti. Socrate farà comunque opposizione a questo sapere, anche se non pensa di poter cambiare il mondo (nel libro VI della Repubblica Socrate dice che non è il medico a bussare alla porta dei malati, ma viceversa), perché i più si rivolgeranno sempre verso quel sapere che li esenta da ogni fatica e, soprattutto, che li chiude, li ottunde alla conoscenza di sé. Il ricercare se stessi, infatti, è una strada pericolosa, nei propri stessi riguardi, perché nulla ci assicura che non si scopra di esseri brutti, tutt’altro che buoni, ben piantati, forti. Invece, finché non ci guardiamo, non ci cerchiamo, siamo tutti bravi, sicuri (allora si divide il mondo tra quelli che capiscono quanto sono bravo e quelli che non mi capiscono perché sono ignoranti). Si vive nella convinzione di valere molto, di essere un piccolo centro del mondo: quindi, per quale motivo iniziare una ricerca su se stessi, perché correre questo rischio?

    Per Nietzsche ricercare se stessi significa andare contro se stessi, cioè, come per Socrate e Platone, significa andare innanzitutto contro questa presunzione di bellezza, bontà del nostro carattere. E questa strada, che è pericolosa, non la si segue sulla scorta di libri, mentre i più cercano di educarsi accogliendo, a mo’ di recipiente, un sapere libresco che in realtà è nocivo. Socrate, allora, è destinato alla sconfitta perché mai presume che la sua strada sia la strada di tutti, mentre essa rischia di essere esattamente la sua strada e la strada di coloro che accolgono la sua esortazione. Tutti i dialoghi sono costruiti in modo esortativo e non dimostrativo, affermativo: per chi accoglie l’esortazione c’è la possibilità di trovare la propria strada, per gli altri silenzio. […]

    Inseguendo la sua strada, Nietzsche è considerato dai suoi contemporanei un ‘raccontaballe’, un inventore di fantastici, anche se ben scritti, mondi. Quindi passa sotto la condanna accademica e, in questo senso, subisce una sorte simile a quella di Socrate, con la differenza che egli vive ormai in un’epoca di tolleranza e di democrazia e, perciò, non viene ucciso ma messo al bando. Il passo ulteriore è che ritorna nelle Università quando il suo scandalo finisce, perché qualcuno lo neutralizza cominciando a scorgere in lui una teoria, così che, a questo punto, Nietzsche diventa uno dei tanti filosofi, un teoreta. La cultura universitaria è capace di riassorbire ciò che all’inizio ha espulso, e così lo uccide una seconda volta.

    Se Nietzsche e Socrate sono consapevoli di dover far fronte al disprezzo dei loro contemporanei, allora il seguire la propria via per entrambi non è una questione di intelligenza e di capacità tecnica e argomentativa, ma soprattutto di forte carattere, necessario per sostenere questa situazione di disprezzo, di messa al bando, che la città opera nei confronti di Socrate e la cultura accademica nei confronti di Nietzsche. Socrate deve essere coraggioso, come coraggioso si dimostrerà Nietzsche, e questo coraggio deriva a entrambi dalla sensazione di essere giunti almeno in prossimità di se stessi, perché la prossimità con se stessi è – come dice Nietzsche – gaiezza. Il titolo La gaia scienza allude a questo, al fatto che Nietzsche pensa di essere giunto al punto in cui intravede se stesso: e il vedere se stesso è un grande piacere, è gioia, è felicità – come dice Platone – ed è questo che permette ad entrambi di sostenere lo scontro fino all’ultimo esito, di non fare un passo indietro, di mantenere un atteggiamento costante. […]

    Socrate cerca il dialogo con coloro che sono presunti sapienti o che si credono sapienti. Perché colui che più sa, o anzi è sapiente, si pensa e si crede che sappia vivere nel modo migliore. Allora proprio perché incontra coloro che godono fama di sapienti, Socrate è pronto ad essere da loro persuaso, se ci riescono, che non lui, col suo miserabile non sapere, ma loro, con il loro sapere sofistico, schiudono senz’altro la vita migliore. E infatti è così che si presenterà Protagora, dicendo che il suo insegnamento permetterà agli uomini di diventare migliori e di eccellere nella città, di essere l’elite della città.

    Se il dialogo è un confronto per stabilire chi viva meglio, nessuna domanda di Socrate è filosofica, così come la intendiamo noi. Ma se per filosofia si intende il modo migliore di vivere, allora quelle domande sono tutte filosofiche. Se per filosofia si intende la ricerca della vita migliore, tutto Platone è filosofico. Questo è l’unico senso che anche Nietzsche attribuisce alla filosofia: la filosofia non è altro che la ricerca di se stessi, di quale sia la vita migliore. Adesso, invece, la filosofia non ha più questo senso, perché fornisce soltanto un’abilità che servirà per essere venduta. È perché la filosofia è la ricerca della vita migliore che Nietzsche può affermare che la filosofia non vuol dire amore della sapienza, ma amore degli uomini sapienti, ricerca dell’uomo migliore.

    (Alessandro Biral, La felicità. Lezioni su Platone e Nietzsche)

    Se qualcuno mi propone una teoria, direi «No, no! questo non mi interessa». Anche se la teoria fosse vera, non mi interesserebbe – non sarebbe mai ciò che io cerco.

    L’etico non si può insegnare. Se io potessi spiegare a un altro per il solo tramite di una teoria l’essenza dell’etica, allora l’etico non avrebbe proprio alcun valore.

    Alla fine della mia conferenza sull’etica, ho parlato in prima persona. Credo che sia abbastanza essenziale. Là non c’è più nulla da constatare, posso solo intervenire come individualità e parlare in prima persona.

    Per me, la teoria non ha alcun valore. Una teoria non mi dà nulla.

    (Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni)

    Nella nota editoriale al volume, Sulla Politica, il primo pubblicato nella collana Dialoghi filosofici, destinata, in primo luogo, a dare voce e visibilità in testi scritti al modo unico di fare filosofia di Biral nelle aule della Facoltà di Lettere e di Filosofia di Venezia – un ‘modo’, uno ‘stile’ di vita e di pensiero che ha educato e illuminato «molti (dei pochi) che ascoltarono le sue lezioni» –, Lorenzo Morri, che di Biral è stato fedele e appassionato allievo, ha scritto:

    Quando nel dicembre del 1996 Alessandro Biral, professore associato di Storia della filosofia dell’Università di Venezia, morì, probabilmente non furono in molti ad accorgersene nel mondo della ‘filosofia ufficiale’, e dovettero essere ancor meno i lettori e i frequentatori di conferenze, incontri culturali, ‘festival della filosofia’. Poco conosciuto tra gli accademici, infatti era il personaggio, per carattere e per convinzione tanto indifferente alle ragioni della carriera, quanto assorbito dall’insegnamento e dalla ricerca.

    Biral pubblicava poco: una decina di articoli e due libri in trent’anni. Ben piccola cosa rispetto ai normali ritmi di produzione universitaria. Soprattutto, però, Biral scriveva in modo non accademico – non certo nel senso che si dedicasse a invenzioni linguistiche e concettuali alla maniera francese, ma nel senso che la sua prosa era densa eppure limpida, esplicativa (l’epifenomeno di una dottrina autentica, realmente posseduta), e le sue idee erano irriducibili ai filoni del dibattito filosofico-politico alla moda. Perché il suo pensiero non si svolgeva nella dimensione moderna della teoria e della critica, delle opzioni di scuola e del dibattito intellettuale, ma nella dimensione inattuale della parafrasi, della ricostruzione, della chiarificazione degli autori classici (Montaigne, Hobbes, Rousseau, Kant, Aristotele, Platone) a beneficio proprio degli interlocutori del momento (amici, studiosi, studenti conosciuti e sconosciuti…). Ne uscivano, stranamente, letture originali eppure facilmente condivisibili; profonde e peculiari, eppure semplici e con un’invincibile evidenza di ‘giustezza’.

    Il 21 dicembre 2006 segna il decimo anniversario della scomparsa di Alessandro Biral, che, come Nietzsche, ha avuto il destino di vivere in «un’epoca di tolleranza e di democrazia», potendo così godere del privilegio di non venire ucciso, e di poter/voler vivere in una strana ‘zona di confine’, una zona straordinaria, mai piegata alle esigenze dell’accademia, tuttavia pur sempre nell’accademia, sforzandosi di svolgere in modo nobile la sua funzione di professore, o meglio, in un modo delicato e potente che è raro veder coesistere nella stessa persona.

    La sua non è stata certo una vita priva di contraddizioni, quanto piuttosto una vita segnata, per usare un’espressione di Nietzsche, da ‘antinomie esistenziali’, essendo Biral «per fortuna un essere vivo e non un mero apparato di astrazioni».

    E così chi assisteva alle sue lezioni finiva con il sentirsi scuotere l’anima dalle stesse inquietudini del professore: «cos’è ora ciò che sta accedendo in quest’aula? Chi è l’uomo che sta davanti a noi? Cosa stiamo facendo? Che cos’è un corso universitario?».

    Tutte domande che nascevano dall’amore di Biral per gli uomini sapienti e dalla sua cura per gli studenti, amore e cura che nella tollerante civiltà democratica fondata sul calcolo dell’interesse diventano una pietra di scandalo¹.

    L’opera di Biral è sicuramente scandalosa, ma, io credo, che lo scandalo sia costituito dalla sua stessa persona, dal rigore, dalla profondità, dal pudore della sua vita e del suo pensiero, che lo hanno portato a svelare il sancta sanctorum della modernità: il toglimento della vita migliore.

    Che cosa avviene se togliamo il meglio? In primo luogo non esiste più un uomo migliore degli altri, né esiste una vita migliore. La vita diventa unica e tutti gli uomini diventano eguali, mentre prima gli uomini si differenziavano a seconda del modo in cui realizzavano il loro meglio, perché il meglio valeva come metro di misura. Adesso la vita diventa eguale per tutti, si differenzia soltanto per la quantità di cose che uno riesce ad incamerare, non più per ‘qualità’ – come si dice oggi, con una bruttissima espressione, ‘qualità della vita’ (bisognerebbe strangolare chi l’ha inventata…). Le vite sono tutte eguali e l’unica differenza è che c’è chi ha di più e chi ha di meno: tutto qua! Se crolla il meglio, non c’è più un fine, una direzione, un luogo verso cui andare, e allora – sostiene Hobbes – la vita dell’uomo diventa una corsa senza meta e senza senso. Che cosa fanno gli uomini? Corrono e basta, senza potersi mai fermare. E – sostiene sempre Hobbes – l’unica gioia che possono trarre da questa corsa è di paragonarsi agli altri, perché la corsa in se stessa, essendo interminata, priva di fine, non può mai essere una bella corsa. L’uomo guarda gli altri, e se vede uno che gli sta dietro è contento, se vede uno che gli sta davanti prova invidia e sta male. E poiché è doloroso per l’uomo, che è eguale a tutti gli altri, vedersi superato, egli cercherà di sgambettare chi gli sta davanti, di arrestarlo, buttarlo a terra, mentre contemporaneamente gli altri faranno altrettanto con lui. Inoltre – e questo è ancora più importante – se la vita non ha più un fine, per la prima volta, però, in modo netto e violento ha ‘una fine’. Perché? Perché ciò che pone termine alla corsa è la morte. Gli uomini corrono finché non muoiono e la morte coglie l’uomo sempre in un momento di insoddisfazione, lo coglie, cioè sempre in corsa, mai seduto. La morte diventa nell’epoca moderna il più grande nemico dell’uomo – è ciò che mette, comunque, paura e rispetto. Di conseguenza si farà di tutto, da adesso in avanti, per allontanarla, per tenerla fuori casa il più a lungo possibile. Tutte le tecniche sono impiegate nella lotta contro la morte per spostarla sempre più in là, fino a farci morire a 400 anni, ma sani, perfettamente sani!

    (A. Biral, Sulla politica).

    Emmanuel Mounier ha scritto:

    Un’educazione completa deve formare in pari tempo, e con lo stesso movimento, uomini di fede e uomini d’acume, fedeli e indipendenti, fidi e retti. Tra le innumerevoli accezioni della parola «carattere», ve n’è una che designa il coraggio di chi, possedendo una verità maturata con lo sforzo totale della sua vita, è pronto (se occorre) a difenderla da solo contro tutti: il numero di questi eroi del carattere non è mai stato grande, poiché le convinzioni sono leggere e i cuori deboli, ma essi stanno fra quei dieci giusti che, nei peggiori momenti d’abbandono, bastano per salvare una città. (Trattato del carattere).

    Che cosa deve significare per noi, per gli allievi e gli amici, ricordare Alessandro Biral a dieci anni dalla sua scomparsa?

    In primis, ricordare a noi stessi che Sandro apparteneva a quella compagine – così poco numerosa da non riuscire neppure a formare con essa una squadra di calcio! – di uomini rari e profondi, capaci di difendere ad ogni costo la ‘verità’, la loro verità «maturata con lo sforzo totale» della loro vita.

    Uomini di tale pasta sono impegnativi: non si può seguirli nel loro cammino se non impegnandosi in un eguale sforzo di ricerca della propria verità, assumendoli come i nostri maestri, come coloro che mettono alla prova in ogni momento la pochezza della nostra virtù.

    Sono uomini che ci costringono a una continua confessione e purificazione: uomini che non ci danno tregua perché non danno tregua a se stessi. Onorare la memoria di Sandro significa compiere un atto di confessione e di purificazione, facendo risuonare con tremenda serietà, le parole del Lachete che Sandro ha posto all’inizio del suo saggio Platone e la conoscenza di sé:

    Credo che tu non sappia che chi si incontra con Socrate e inizia a dialogare con lui, qualunque sia l’argomento da cui ha preso le mosse, senza rendersene conto, cade sotto la costrizione di non riuscire a terminare il suo discorso prima di aver dato completa ragione di se stesso, del modo in cui vive e in cui ha vissuto. Quando ciò accade, Socrate infatti non lo lascia andare prima di averlo esaminato ben bene. Io che lo conosco bene, so che ciò è inevitabile e so pure che anch’io dovrò affrontare questa prova.

    ‘Dare ragione di noi stessi’ è la prova che dobbiamo affrontare ogni giorno. Stiamo percorrendo questa via?

    Le pagine che ho scritto, ben lungi dall’esibire un ennesimo tentativo di meglio intendere la filosofia di Platone (da nessuna parte esiste qualcosa come la filosofia di Platone), nascono dallo sconcerto che mi ha pervaso nel momento in cui ho visto, proprio specchiandomi in Platone, in quale stato di disordine si agitava la mia anima; esse hanno come fine il ricupero della mia salute. (Platone e la conoscenza di sé).

    Nell’ultimo corso di lezioni su Platone e Nietzsche Sandro afferma che, secondo Platone, chi non vede la divina armonia che governa il mondo, riducendo l’universo a morta materia e gli dei a invenzioni degli uomini, non sta esponendo una ‘teoria’, ma soltanto il disordine che regna nella sua anima.

    Che cosa vediamo, sentiamo, come entriamo in relazione con gli uomini? Qual è lo stato della nostra anima?

    «Per che cosa hai sempre tempo?» chiedeva Socrate agli affaccendati e orgogliosi cittadini di Atene.

    La storia degli ultimi tre secoli può essere letta come il disperato tentativo di alcuni uomini di natura superiore di sopportare il peso della dissoluzione illuministica dell’antica unità di vita, rifiutando la civiltà moderna e cercando di rimanere saldamente ancorati alle radici greche e/o cristiane?

    «Ma io non ho mai superato le soglie del 300 a.C.!» ha detto Sandro nella sua conferenza di Desenzano sulla politica.

    La fedeltà al maestro significa allora un atteggiamento di fuga e di disimpegno dal nostro mondo disincantato?

    Evidentemente no.

    Significa invece assumersi il compito, ben più gravoso della fuga, di non accettare come «destino dell’epoca» al quale è impossibile opporsi, la frammentazione e la spersonalizzazione di noi stessi.

    Significa, ognuno come può, ognuno con la forza che possiede, ognuno con le proprie debolezze, vedere negli uomini e nelle donne che incontra mai una categoria sociale, un ricco, un povero, un insegnante, un imprenditore, ma sempre un uomo unico e irripetibile.

    Significa vivere in paziente attesa dell’inaspettato, in quella condizione di apertura e di accoglienza, che ci consente di sorprenderci di noi stessi e degli ‘altri’, di provar meraviglia dinanzi alle molteplici vie tentate dagli uomini per realizzare una vita felice.

    Che cosa abbiamo trovato nell’incontro con Sandro se non l’amore di un maestro che sopra ogni cosa accoglieva e rispettava la nostra persona, con tutti i suoi limiti e debolezze?

    Mai Sandro ha preteso di imporre i suoi pensieri a qualcuno! Sempre ha amato e ricercato gli uomini capaci di scardinare i suoi pensieri.

    Mai Sandro è rimasto legato a una sua ‘idea’. Sempre, invece, pronto ad abbandonarla, ad accoglierne una di migliore e, soprattutto, sempre pronto a metterla da parte, a tenerla per sé o a rinunciarvi se questa gli sembrava l’unica via per salvare un uomo!

    In lui si sono sposate in modo unico la profondità di pensiero, il gusto per il paradosso, e la libertà dall’ultima tentazione dei grandi: il desiderio della gloria, l’ambizione di apparire, di essere illuminati dalla luce abbagliante dell’opinione pubblica.

    Tutto ciò gli consentiva di confrontarsi con i maestri aderendo alle pieghe più nascoste della loro anima, senza mai interporre tra sé e il testo filosofico alcuna distanza, senza mai cioè avere la pretesa di criticare una filosofia, di coglierne le ‘contraddizioni’ e/o di scioglierle.

    Sandro non ha mai tenuto corsi ‘su Platone’, ‘su Hobbes’, ‘su Rousseau’, non ha mai parlato o scritto su/di, ma ha sempre parlato con…: questo è il segreto della potenza e insieme sobrietà del suo pensiero.

    In ciò consiste il suo modo unico e straordinario di ‘fare filosofia’ – ma non è questo il modo di ‘fare filosofia’ di ogni autentico pensatore? –, perché solo così la ricerca si trasforma in dialogo con i maestri del pensiero. E non vi può essere dialogo senza l’umiltà e la disponibilità di affidarsi alle cure di un sapiente, mettendo sempre alla prova se stessi, chiedendosi se si è in grado di seguire, di comprendere e di far proprio il di lui insegnamento.

    Nel dialogo ‘con…’, il maestro diventa un contemporaneo e tutti i filtri storico-ermeneutici, tutti gli occultanti apparati creati dalle scienze storicosociali e dalla cosiddetta storia della filosofia sono messi da parte.

    La lettura diventa allora una sorta di sfida amichevole: ed ora a noi due, nel silenzio, nell’esclusione di ogni altra voce.

    Così come nel dialogo con la persona amata non si parla di amore, ma ciascuno degli amanti desidera che l’amato si rivolga a lui ‘con amore’ perchè desidera ‘vivere’ l’amore – se amore esiste – nello stesso modo nel dialogo ‘con’ il maestro non è in gioco la conoscenza ‘di qualcosa’, ma una relazione d’amore, di amore per il sapere che è una sola cosa, ed è quindi inseparabile, dall’amore per «gli uomini sapienti».

    Un sapiente parla sempre con amore, perché la conoscenza è sempre un ‘prendersi cura di…’.

    In testa al manoscritto di Platone e la conoscenza di sé, Biral ha scritto: «Il meglio di Platone è che ti inchioda su quello che sei».

    La ‘scelta’ – ma è veramente una ‘scelta’? – di farsi inchiodare dipende sempre dal fine, dalla prospettiva di felicità, e Sandro sapeva bene che la vanità tiene sempre lontano dai chiodi.

    Le letture dei testi, sia nei suoi saggi che nelle sue lezioni, erano condotte con la sapiente regia di un amante del cinema noir: portava il lettore o l’ascoltatore ad identificarsi con il testo, a far proprie le ‘ragioni’ del filosofo, e poi, all’improvviso, il quadro veniva sconvolto, capovolto non attraverso un’argomentazione critica, ma facendo entrare in campo il suo acume che svelava, per usare un termine caro a Nietzsche, «l’istinto» dominante che stava dietro a quella filosofia.

    Ci si trovava, così, sempre dinanzi ad un paradosso: le sue letture dei filosofi, proprio perché erano libere dal pregiudizio della critica e degli apparati interpretativi, restituivano il pensiero dei grandi nella loro autenticità. Sandro amava dire che il suo sforzo era stato sempre quello di mostrare «Platone secondo Platone», non certo Platone secondo Biral, non certo di proporre l’ennesima interpretazione di Platone.

    Per questo motivo

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