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La contraffazione della politica: La paura della fine, la tutela del bios e il potere della socializzazione
La contraffazione della politica: La paura della fine, la tutela del bios e il potere della socializzazione
La contraffazione della politica: La paura della fine, la tutela del bios e il potere della socializzazione
E-book170 pagine2 ore

La contraffazione della politica: La paura della fine, la tutela del bios e il potere della socializzazione

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Info su questo ebook

Quale rapporto corre fra il pensiero politico degli antichi e il destino biopolitico dell’Occidente? La biopolitica discende dal legame, istituito dagli antichi, fra la vita e la polis, come sostiene Agamben? Oppure l’assunzione e la cura del bios in quanto opera del politico sono radicate nel rifiuto della metafisica del sommo bene sul quale si fonda la modernità? O, infine, la politica dei moderni è una contraffazione della politica, e tale contraffazione ha piuttosto a che fare – come crede Quinzio – con l’escatologia cristiana e il mancato ritorno del Messia? A partire dall’indagine sulla funzione che i concetti di vita, paura della fine e potere ricoprono nella teoria politica di Hobbes, il volume cerca di rilevare le tracce delle antiche pratiche di cura, conoscenza e governo di sé e degli altri all’interno dell’attuale politieía, culminando nell’idea secondo cui il bene che la biopolitica insegue, individuabile nell’elusione della morte, rappresenta la contraffazione dell’oramai superato sommo bene degli antichi metafisici.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita30 nov 2016
ISBN9788863363593
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    Anteprima del libro

    La contraffazione della politica - Ivan Dimitrijević

    1.

    LA TUTELA DEL BIOS

    1.1. Diversi sono i motivi che rendono la critica della società moderna tracciata da Frank Lloyd Wright adatta ad aprire la ricerca sui rapporti fra la paura, la vita e il potere politico. In primo luogo, in virtù della sua concisione, che non guasta in un’epoca segnata dalla proliferazione delle parole. In secondo luogo, perché mette in evidenza, senza disperdersi in astruse spiegazioni teoretiche, la centralità e l’onnipresenza della paura nella vita moderna. Infine, per il fatto di introdurre il tema dell’interazione fra la coercizione e l’approvazione – talvolta entusiastica, talaltra rassegnata – dell’attuale ordine politico ed economico. Pur di neutralizzare le cause dei suoi timori, l’uomo accetta di tremare dinanzi agli apparati disciplinari predisposti dal potere sovrano. Se in tal modo elude la paura dell’«altro», della natura o della propria natura, in compenso la sua vita si trova soggetta a un potere-sapere che si legittima per il fatto di porsi al servizio della Vita:

    Inesorabile – sopra di lui, accanto a lui, sotto di lui, ed anche nel cuore di lui mentre dorme, vi è la paura. Paura. La paura che senza requie batte nel suo tassametro del triplice canone; canone per il terreno, canone per il danaro, canone per essere vivo, ognuno dei quali pungola l’ansioso «consumatore» nella sua incessante lotta per o contro un fatale aumento di produzione. Produzione senza riguardi, produzione che spinge alla bancarotta dei consumi o alla follia; incremento insaziabile e gratuito al potere. Stare al passo, questa è ora tutta la «mercede» che spera. Non tanto di più. Egli, che è in certo modo lo schiavo del salario, riduce la sua vita in catene o si dà da fare ad asservire l’esistenza degli altri per poter mantenere i privilegi superficiali a cui ha coscientemente, frivolmente sottoscritto e che spesso gli sono stati magnificati come una grande, benefica «impresa libera», impresa alla quale lo rimandano continuamente i suoi onnipresenti uomini politici. L’umanità depreda forse qui l’umanità? L’inumanità dell’uomo verso l’uomo sembra anche l’elemento caratteristico dell’unico «sistema economico» che il cittadino inurbato conosce finora o che è stato incoraggiato ufficialmente a conoscere dal governo. Così egli considera scontato il «sistema», come considera scontato tutto¹.

    1.2. In principio dell’Etica Nicomachea Aristotele delimita il campo d’indagine delle sue lezioni sulla politica chiarendo che l’epistēmē politikē concerne le azioni. L’individuazione dell’oggetto della scienza politica nella sfera pratica produce una conclusione apparentemente sorprendente: dal suo insegnamento saranno estromessi coloro che non governano se stessi.

    Della scienza politica il giovane non è un discepolo adatto; giacché egli è inesperto della vita pratica, mentre la nostra ricerca muove da essa e tratta di essa. Inoltre, essendo incline alle passioni, ascolterà invano e inutilmente, poiché lo scopo della politica non è la teoria ma l’azione. Non v’è alcuna differenza se egli è giovane di età oppure di carattere; poiché questa mancanza non dipende dal tempo, ma dal vivere seguendo le passioni e dal seguire ciascuna di esse. Per tali persone la conoscenza è inutile, come pure a chi è intemperante (Eth. Nic., 1095a 4-9)².

    Trattando delle azioni e nelle azioni avendo il fine, le parole della scienza politica non convogliano un significato preesistente che va semplicemente carpito con l’intelletto. La scienza politica non è riducibile né alla logica né alla retorica. Nessuno può udire altro da ciò che è, e nessuno è altro da come ha sempre agito. Al fine di trarre vantaggio dalle lezioni sulla politica, il discepolo deve aver già acquisito l’esperienza della vita pratica. Soltanto la conoscenza diretta delle azioni consente di ricondurre a sé le parole che interessano la vita nella città. Tale conoscenza preliminare risulta imprescindibile in quanto le azioni, esibendo una grande molteplicità di variabili e varianti, mai si lasciano assimilare pienamente alle categorie di cui il discorso giocoforza si serve. Il contesto sociale e storico, lo status dell’agente, le persone coinvolte, l’intenzione, l’esito – tutto ciò pertiene alla vita pratica e soltanto coloro che ne hanno sperimentato personalmente la mutevolezza possiedono il sapere tacito che, fungendo da fondamento comune al maestro e al discepolo, consente di avviare la ricerca sulla politica. Dalla strutturale inesattezza della scienza politica Aristotele deduce che il suo insegnamento non debba essere universale e indistinto.

    Dato che per il giovane i termini che designano le azioni rappresentano dei meri concetti privi di riferimento nella concretezza della vita, saranno le sue passioni a fornirgli la chiave d’interpretazione dei discorsi sulla vita pratica. La permeabilità alle passioni tipica dell’anima giovane fa sì che i termini della scienza politica assumano il significato che la passione dominante vi imprime. Il giovane definisce lo scopo della politica a partire dai propri desideri e paure. L’inesperienza del mondo pratico conduce all’incomprensione delle intenzioni del maestro e converte le lezioni in un discorso teoretico meramente astratto (solo del mondo teoretico ognuno può avere esperienza indipendentemente dalla sua propria virtù), di modo che il discepolo finisce per ricercarvi la mera consistenza logica che, una volta assimilata, accresce sì la potenza del suo intelletto e della sua capacità persuasoria, senza tuttavia renderne più bella e virtuosa l’anima e, di conseguenza, lasciandone immutato l’agire. Il servo delle passioni, l’uomo non autarchico, riduce la scienza politica al possesso del potere inteso come strumento più efficiente con cui appagarle. L’intemperanza acquisisce un sapere che la giustifica teoreticamente e un artificio che le consente di dispiegarsi senza freni. Il giovane di carattere risolve la scienza politica in una scienza dell’esatto acquisto e uso del potere.

    Al discepolo che identifica la scienza politica con l’ennesima teoria – senz’altro con la teoria più vantaggiosa, dato che rende sapienti rispetto alla presa e all’utilizzo proficuo degli uffici della città –, il sapere politico si rivela non solo inutile ai fini dell’acquisizione dell’abito dal quale promanano le azioni belle e virtuose, ma addirittura dannoso. Il giovane confida di aver assimilato la dottrina che dà il potere sulla città perché ne ha compreso i concetti ed ha acquisito la capacità di adoperarli secondo logica. Ma i discorsi della scienza politica sono effettivamente comprensibili solo da chi è già virtuoso o almeno incline alla virtù: da chi governa le proprie passioni. La scienza politica non pertiene alla mente, bensì all’anima intera, all’intero modo di vivere, al sé dell’uomo. «L’allievo deve saper ricondurre a sé tutti i termini del discorso, perché solo così può capire davvero; se invece non lo fa, il discorso muore, diventa logica, mera coerenza tra concetti. (…) Troviamo qui la stretta identità tra la cosa detta e colui al quale il maestro si rivolge»³.

    «La cosa detta» della scienza politica, il suo compito e fine consistono nella ricerca e nell’attuazione del bene umano più alto, del meglio – la vita felice. L’identità fra i discorsi sulla virtù e il diventare felici funge da principio e scopo del sapere politico. Perciò questa scienza esibisce un carattere al contempo pratico e contemplativo e implica un’interazione continua fra il conoscere e l’agire. La felicità vi si staglia come il compimento della natura dell’uomo inteso, in accordo con la tradizione, come vivente politico (zōon politikón). La scienza politica s’identifica quindi con l’arte del rinvenimento e della realizzazione della vita buona.

    La felicità costituisce il compito della politica poiché il vivente perfeziona la sua vita nella città. Quest’ultima adempie alla propria funzione in virtù del buon governo la cui attuazione spetta ai cittadini edotti nella «scienza architettonica»⁴. Ma i giovani di carattere tendono a scambiare la felicità con i piaceri, i successi, la buona reputazione, la vita lunga sana e sicura, gli onori, il potere – con tutto ciò che è l’opinione sulla felicità condivisa dai più, l’opinione generata dalle passioni –, e perciò confinano la scienza politica a uno strumento logico-concettuale idoneo a realizzare tali forme inconsistenti del meglio. Qualora venissero in possesso del potere che il sapere politico dischiude andrebbero a deturpare la città sovrapponendo al bene pubblico il bene delle loro passioni. Le passioni infatti comandano la propria soddisfazione presentandola come il bene più urgente. Il governo dei giovani finirebbe col confondere il bene e il male, il bene individuato dalla ragione e il bene delle passioni. Piombando nell’indistinzione i riferimenti etici, tale governo priverebbe i cittadini di ogni metro di giudizio. In una città tanto sfortunata i sudditi, avendo da sempre esperito la mescolanza del bene e del male, non potrebbero più far ricorso all’esperienza pratica e, per di più, verrebbero educati a identificare la felicità con la soddisfazione della passione prevalente. Privi di ogni criterio di valutazione, ancor più facilmente cadrebbero preda dei discorsi che, ammantandosi di «scientificità», adoperano gli argomenti della scienza politica allo scopo di eccitare le passioni.

    1.3. Aristotele, dunque, assegna al vivente politico una sua opera propria (tò érgon toū anthrópou). Nondimeno la conferma del fatto che l’uomo in quanto tale possiede una sua opera specifica, la cui attuazione eccellente lo rende compiutamente felice, non viene esibita senza esitazioni:

    Tuttavia, se pur il dire che la felicità è il sommo bene [tò áryston] sembra qualcosa di ormai concordato, tuttavia si sente il bisogno che sia ancor detto qualcosa di più preciso intorno alla sua natura. Potremmo riuscirci rapidamente, se esamineremo l’opera dell’uomo. Come infatti per il flautista, il costruttore di statue, ogni artigiano [pantì techníte] e insomma chiunque ha un’opera e un’attività [érgon ti kaì prāxis], sembra che il bene e il buono [tagathòn kaì tò eū] risiedano nella sua opera [en tō érgo], così potrebbe sembrare anche per l’uomo, se pur esiste qualche opera a lui propria [érgon autoū]. Forse dunque all’architetto e al calzolaio vi sono opere e attività proprie, mentre non ve n’è alcuna propria dell’uomo, bensì egli è nato inattivo [argòn] (Eth. Nic., 1097 b 22-30)?

    Quale è l’attività o l’operazione che può essere assegnata all’uomo e ad egli soltanto? Quale opera, differenziandolo da altri viventi, ne definisce la natura? Oppure, come si domanda Aristotele (sia pure rigettando immediatamente tale ipotesi), l’opera propria dell’uomo non esiste e il vivente politico nasce piuttosto inoperoso (argos), privo di un agire che ne riveli l’identità, senza un compito la cui messa in pratica gli faccia conseguire tò áryston? In tal caso l’uomo sarebbe un essere di pura potenza (dýnamis) che attualizza la propria natura indefinita e priva di scopo intrinseco mediante il potenziamento perpetuo delle sue facoltà⁵. Soltanto qualora fosse in grado di esercitare il proprio érgon, l’uomo potrebbe operare per il meglio diventando felice in atto. Se la sua opera gli venisse a mancare, resterebbe escluso dal cerchio della felicità pur essendovi da sempre attratto e si vedrebbe destinato all’eterna privazione dell’áryston pur potendovi sempre contare in potenza. Disponendo di tutto il necessario per essere felice e alla vita felice mirando, non diventerebbe mai uno con se stesso.

    L’importanza della relazione fra politica, felicità e opera dell’uomo è stata rilevata da Giorgio Agamben. Nel breve e denso saggio L’opera dell’uomo Agamben afferma che la fondazione della politica sul nesso opera-atto-felicità rappresenta l’origine del destino biopolitico dell’Occidente. Se la politica è concepita come l’attività razionale cui spetta soddisfare l’universale domanda di felicità, essa – in quanto scienza architettonica – è giocoforza legittimata ad avocare a sé tutto il potere disponibile. Al fine di architettare le condizioni nelle quali il vivente recupera tò áryston, la politica si vede costretta a ridurlo all’impotenza, disattivando così ogni forza avversa all’attuazione dello scopo. La tensione all’áryston che caratterizza la politica giustifica questo mezzo «biopolitico» e i viventi, accecati dalla sublimità dello scopo, finiscono per considerarlo razionale, necessario e l’unico di cui dispongono. Della vita precipitata nell’impotenza la politica si fa custode e produttrice, lasciandola tuttavia disarmata dinanzi alle proprie decisioni; la include nella città al solo patto di poterla sempre escludere.

    Il vivente non ha alcun potere da opporre alla sovranità e rinuncia a ogni forma di opposizione perché soltanto il potere sovrano risulta in grado di preservarne la vita e fargli acquisire tò áryston. Il potere deve potere tutto proprio in quanto è l’unico a poter attuare le potenzialità naturali. Tuttavia, da quando il vivente – deluso dal continuo differimento della felicità – ha smesso di prestar fede nell’attuazione politica del bene, la sua relazione con il potere sovrano si è andata sempre più incentrando sulla paura. Nonostante il potere non sia più in grado di legittimarsi mediante la promessa dell’attuazione della felicità, esso ancora può tutto. Il suo poteretutto comporta che in ogni istante il vivente possa essere posto fuori dalla sfera del diritto. Ciascuno può diventare un’eccezione ed essere respinto, spogliato, rinchiuso, allontanato, classificato come folle, emarginato, messo a morte od esiliato proprio in virtù del fatto che ora la custodia del bios esaurisce i compiti del potere che si incarica di produrre e neutralizzare tutti quegli elementi che, anche in via puramente ipotetica, minacciano la pace, la sicurezza e la prosperità sociale (soltanto nella società la vita giunge a dispiegare pienamente le sue potenzialità). Il potere impone un’unica forma di vita – innocua per il bios – e con ciò stesso trattiene il vivente dal vivere liberamente, impedendogli di esplorare le sue potenzialità ed estromettendo dalla società regolare tutti coloro che non si conformano alle norme generali a salvaguardia della vita. Soggetto alla sovranità che ne preserva la vita, il vivente si ritrova in stato di timorosa soggezione, un supplice addomesticato

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