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La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85: Lezioni sulla rivoluzione francese
La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85: Lezioni sulla rivoluzione francese
La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85: Lezioni sulla rivoluzione francese
E-book711 pagine11 ore

La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85: Lezioni sulla rivoluzione francese

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Info su questo ebook

I due volumi sono il frutto della trascrizione delle lezioni tenute da Alessandro Biral sulla Rivoluzione Francese, il curatore si è attenuto il più fedelmente possibile al parlato, limitandosi solamente all’eliminazione di alcuni intercalari e a minimi interventi correttivi, soltanto quando la lettura avrebbe altrimenti rischiato di apparire poco comprensibile. Il testo che ne è risultato presenta quindi quelle ripetizioni, imprecisioni sintattiche e grammaticali,  che sono tipiche del linguaggio parlato. Per questo, risulta ad un tempo più facile, ma anche più difficile da leggere. Più facile, perché rispecchia l’andamento delle lezioni, le ripetizioni, le esemplificazioni, il linguaggio piano, alla portata degli studenti; ma anche più difficile, perché richiede un piccolo sforzo di immaginazione: il lettore deve entrare un po’ nelle vesti del narratore, deve saper cogliere il senso delle argomentazioni. L’interesse di Alessandro Biral per la Francia rivoluzionaria trae origine dal fatto che ai suoi occhi la rivoluzione francese manifesta una caratteristica particolarmente importante per un filosofo della politica: la pratica del governo vi si presenta senza quei veli che, in altri periodi, ne adombrano i luoghi ed i riti. I dibattiti delle Assemblee rivoluzionarie spesso infatti anticipano ed estremizzano i grandi temi della democrazia contemporanea, primo fra tutti quello dell’uguaglianza.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 giu 2017
ISBN9788863364088
La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85: Lezioni sulla rivoluzione francese

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    Anteprima del libro

    La società senza governo - VOLUME PRIMO - 1984-85 - Lorenzo Furano

    14.11.1984*

    Guerre di religione, coscienza e obbedienza

    La rivoluzione è intesa come esecuzione di un giudizio morale. Chi ha compreso questo aspetto è Koselleck (Critica illuminista e crisi delle società borghese).

    Vista storicamente, l’odierna crisi mondiale (contrapposizione di due blocchi) è un risultato della storia europea. Il presente si può capire soltanto attraverso il passato. Non siamo perciò costretti a scuotere il passato. I due blocchi si dichiarano uno minacciato dall’altro e per difendersi si chiudono su se stessi. È perché entrambi si sentono minacciati che non riescono a svolgere il principio costitutivo della loro Costituzione: la libertà. Ed è in nome della libertà che si contrastano. Per l’Occidente il comunismo è il segno vivente della propria fine e va eliminato; perciò bisogna armarsi.

    Per l’Oriente, se ad Occidente ci si arma, bisogna reagire. Il processo di realizzazione di una società senza classi si blocca per colpa dell’avversario. La piena legittimazione del regime comunista non è raggiunta. Ma è tutto per colpa dell’avversario.

    Anche ad Occidente, se le cose vanno male è per colpa delle risorse dirottate alla difesa. I due sistemi sono quindi incompiuti, il loro principio non è realizzato. Per entrambi è necessario far fuori l’avversario.

    Il mondo si è spaccato in due in nome della libertà, che si può realizzare solo attraverso la guerra. La libertà che porta l’armamento distruttivo, non lo sviluppo della tecnica. L’armamento nucleare è la condizione sine qua non della libertà. Chiede il disarmo, perciò chiede la guerra.

    Cos’è questa libertà? Secondo Koselleck la chiave di questa contrapposizione è tutta avvolta nel secolo XVIII. La condizione attuale si spiega con una patogenesi del mondo della società civile.

    L’assolutismo nasce nel ‘600 in risposta ad secolo di guerre civili religiose (intolleranza estrema tra confessioni di un’unica religione).

    D’Aubigné: in nome della coscienza religiosa gli uomini si sono scannati. La soluzione di questo conflitto è nell’uccisione della coscienza religiosa. Se si vuole la pace. La coscienza religiosa non può guidare le azioni. Nell’assolutismo il legame tra coscienza ed azione deve essere spezzato. Il seguire la coscienza provoca guerra perché la coscienza è pluralizzata. Nessuno può agire sulla base della propria convinzione interna. Il comportamento di tutti deve venire dall’esterno. Gli uomini devono obbedire ad un’autorità che si preoccupa solo di dare la pace in nome della pace. Tutti si rendono sudditi di un’autorità neutrale rispetto alle confessioni religiose. Questo è l’assolutismo nella sua struttura politica. L’assolutismo sorge per risolvere una guerra civile e confessionale: qui sta il senso della sua funzione. L’autorità non deve dare un ordinamento politico giusto, ma solo pacifico. Giustizia e ordinamento politico si scindono. Se l’autorità segue la giustizia c’è guerra, perché la giustizia è pluriconfessionale. Questo ordinamento dà a tutti tranquillità e quiete. Chi riesce a slegare la sua coscienza dalle sue azioni vive e vivrà. Se qualcuno muore è lui il responsabile.

    Il sovrano non è responsabile nei confronti dei sudditi, ma solo di fronte a Dio. Assoluto: non deve essere giudicato dai sudditi. Gli uomini, se vogliono uscire da questa situazione, debbono spaccarsi in due. Ciascun uomo da una parte è suddito, macchina mossa da impulsi esterni e dall’altra parte mantiene la propria coscienza. La coscienza è però ciò che costituisce l’uomo in quanto uomo.

    Ma il Koselleck non sottolinea che la coscienza diventa libera. Il suddito infatti non è più responsabile delle proprie azioni. Al sovrano sta tutta la responsabilità politica. Però non può coartare le coscienze. Il suddito può pensare, ma non manifestare azione; e questo al sovrano sta benissimo. La coscienza è in libertà però non deve produrre azione, non è più legata all’azione. L’assoluta dipendenza dal sovrano nelle azioni si accompagna all’assoluta libertà della coscienza.

    La politica è nel sovrano. La coscienza è privata e apolitica. Quanto più l’uomo si assoggetta al sovrano, tanto più la coscienza diventa libera. La libertà è apolitica, è privata. È la prima volta che si instaura il legame privato-politica. Noi siamo eredi del Seicento.

    Charron: il principe deve dimenticare l’uomo che è in lui, deve riempirsi soltanto della necessità della pace.

    Richelieu è convinto che se opera da cattolico distrugge lo Stato francese. La politica dell’uomo di Stato sta nel non badare mai alla propria coscienza. Se la coscienza dice di perdonare, l’interesse per la pace impone di non farlo.

    Anche sovrano e principe vivono la stessa scissione dell’uomo.

    Questa struttura si realizza nel continente a partire dal Seicento.

    Pace: termine che ha avuto modificazioni nel proprio significato.

    Questa pace è definita come falsa, dimezzata perché non si sposa più con la giustizia, ma è una pace esterna.

    Koselleck sostiene che questa struttura tenne perché la pace non fu assicurata. Quando la pace era ormai assicurata tra le due parti in cui l’uomo era scisso, prese più valore la parte interna. Il ruolo del suddito diventa estraniante. La libertà interiore ha valore, l’altro è un ruolo storico. Le regole dettate dalla coscienza sono morali, quelle dettate dal sovrano sono immorali.

    15.11.1984*

    Charron: la critica

    Koselleck presume di esemplificare la struttura dell’Assolutismo tramite Hobbes, ma non è condivisibile. Tale struttura è presentata da tanti altri autori nella Francia del Seicento, ed il maggiore è Pierre Charron, il maestro dei liberi pensatori dell’epoca, rappresentante del libertinaggio erudito (vedi il suo libro La Saggezza). Il suo punto di partenza è che egli stesso ha fanatizzato il popolo verso la guerra civile, per estirpare l’eresia calvinista e portare il vero messaggio cristiano. Cosa che lo ha portato ad un continuo stato di agitazione per compiere tale opera. Egli riteneva che qualsiasi azione fosse giustificata se fatta in nome della vera religione. Causa e colpa della guerra di religione sono quindi per Charron i riformatori (Lutero e Calvino), che volevano migliorare la religione e invece l’hanno frantumata.

    Egli comprende che la guerra è l’alterazione di tutta la capacità intellettiva, è la febbre. Applicando l’epoché, non rimanendo vincolati ad un dogma, levandosi al di fuori di questa situazione, si può analizzare e vedere quale sia la tendenza più giusta. Un’operazione comparata, che bisognerebbe fare con tutte le religioni. Si capisce che ogni popolo ha elevato a volontà di Dio, a religione, un gruppo di follie. Non c’è follia che non sia riconosciuta come religione in qualche parte del mondo. E il comandamento di una religione è considerato sacrilegio dall’altra. Da ciò, non c’è nulla di assoluto nel mondo. Non una cosa universalmente riconosciuta.

    Questa comparazione porta al disincanto, che fa abbandonare le conoscenze seguite finora. Questa operazione è critica, e tramite essa egli purifica se stesso da ciò che non gli va bene. La religione gli appare così ricevuta dall’esterno, casualmente, non voluta all’interno, spiritualmente. Ogni popolo ha la sua religione casualmente, una religione che non ha nulla di sacro, di soprannaturale.

    Questo procedimento della critica, secondo Charron, bisogna applicarlo a tutti i campi della vita. Tutti i rapporti in cui si organizza la vita sociale sono determinati da casualità e stupidità. Non esiste in questa terra nessuna legge o nomina veramente razionale, universale, ma tutto si spezza in massime, prose singolarmente stupide, assurde. La critica produce quindi anche qui il disincanto. Chi riesce ad essere critico con qualsiasi elemento non trova più nulla al mondo che lo possa legare ad esso, niente di cui definirsi veramente soddisfatto.

    La critica produce quindi uno sviamento del critico da questo mondo, l’assoluta libertà, il lievitare, il galleggiare sopra il mondo. Una volta raggiunto questo stato, si potranno vedere le vere leggi che regolano la natura e l’uomo, prima che la casualità e la socializzazione le rendano diverse. La critica porta alla natura.

    Il mondo è senza etica, non c’è nulla che sia riconosciuto giusto da tutti. La giustizia, l’eticità, giace fuori da questo mondo. La critica conduce a questa separazione fra l’uomo in quanto uomo e l’uomo in quanto suddito. Questi due uomini sono senza rapporto.

    Solo alcuni saggi possono compiere questa operazione di critica; tutti gli altri sono popolo, che non riesce a librarsi sopra il mondo. È quindi necessario che rimanga il costume (religione, società, ecc.) per bloccare il popolo e le sue passioni. Si trova una passione più forte (la religione) che riesce ad imporsi al popolo, anche se per il saggio è assurda.

    Il costume serve solo per la pace, la tranquillità. Solo il costume può formare una società: è una gabbia d’acciaio con cui si imprigiona il popolo, questa bestia che agisce solo per passione, per istinto. Quanto più forte sarà il costume, quanto più piena è l’irrazionalità, tanto più il popolo resta legato. Per Charron, l’opera più grave che può compiere un falso critico è migliorare il costume, il mondo, in nome di una presunta giusta idea (vedi Lutero). Il costume non è migliorabile, perché non c’è nulla di giusto in esso. Una riforma del costume è quindi impossibile.

    21.11.1984

    Charron: il saggio e la politica

    … anche il comportamento del saggio, il quale sa che tutto quello che fa o non fa è una schifezza senza fine, ma pure obbedisce per amore della pace; ed obbedisce senza dover sacrificar nulla della propria della purezza. Quindi il saggio, il vero saggio è colui che, solo, obbedisce liberamente al governo, mentre tutti gli tutti altri obbediranno per passione o perché costretti in qualche modo. Il saggio è l’unico che obbedisce sinceramente, lealmente, prontamente, perché è l’unico consapevole di questa strana costruzione e di questo effetto che deve avere la politica. Ma, d’altro canto, il saggio, proprio perché nell’azione esterna deve soltanto adeguarsi al costume e ai comandi del sovrano, proprio per questo rimane libero, nel senso che non deve sprecare tempo e fatica per sapere che cosa deve fare, perché quello che deve fare glielo indica il sovrano, il principe, il costume. E così tutto il suo tempo lo dedicherà alla propria interiorità, a se stesso, al proprio interno. Detto in altri termini, tanto per capirci ancora meglio: il saggio rimane francese all’esterno, anche se proprio all’interno è diventato tutt’altro che francese. Ma che cosa è diventato? Se ha compiuto veramente la critica, è diventato l’uomo in quanto uomo, uomo tout court.

    Quello su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è esattamente questo: è attraverso la separazione che la politica diventa un’attività tesa unicamente al risultato, qualunque siano i mezzi che essa poi mette in azione. In altri termini, la politica, attraverso la separazione, tende ormai ad assestarsi come arte dell’inganno. Deve operare cioè per vie traverse per ingannare costantemente il popolo, fargli credere splendido, voluto dagli dèi, da dio, perché essa non può imporsi con la forza, nessun politico può imporsi direttamente con la forza, perché la forza procura controforza. Nessuno accetta di essere domato con la forza. Quindi il principe – o la politica – opera all’interno della non-ragione, attraverso strumenti non razionali, tutti in qualche modo nascosti, coperti, con l’inganno.

    Ma che la politica proceda sempre attraverso strade occulte, che cioè non si mostri mai direttamente per quello che è, è un’altra conseguenza di questo tipo di impostazione. Perché il politico non potrà mai dire: io vi tengo con la forza, col costume perché siete una massa malnata; deve dire: che bravi che siete, tutti onesti, tutti buoni, ma questo lo vuole Dio. Infatti la religione per Charron e per i libertini è un inganno, il miglior inganno politico che mai sia stato fatto. Questa straordinaria visione è riuscita a conquistare i popoli. La politica opera attraverso inganni; l’importante è che non appaiano come tali. E l’unico modo per non farli apparire come tali è che l’inganno segua le leggi del costume, di ciò che è tradizionalmente dato e accettato. Tutti i sentieri contorti del costume devono essere seguiti dal principe, per imporre questo ordine, che è un ordine senza morale e senza giustizia. È un ordine desolato e miserabile, ma è l’unico adatto all’uomo corrotto, all’uomo socializzato.

    Compare per la prima volta l’affermazione, che poi viene ripetuta stancamente fino a oggi, e che è irritante quando non se ne conosce l’origine e il significato, l’affermazione che il potere – parola tremenda – è in sé cattivo. Nel suo luogo di origine questa espressione diventa chiara. Ed è la prima volta che compare questa straordinaria affermazione, che il potere è in sé cattivo. Per secoli l’umanità è andata avanti, senza arrivare mai a questo tipo di formulazione, mentre adesso noi continuiamo a essere convinti che il potere sia in sé cattivo. Ma per Charron è cattivo, ma indispensabile: non potremmo un giorno solo fare a meno della politica Allora, se ci fermiamo e proviamo a pensare un attimo quale avrebbe potuto essere il giudizio di Charron sulla rivoluzione, dovremmo dire che il giudizio sarebbe stato totalmente negativo, perché la rivoluzione, interpretata in mille modi – e alcuni li vedremo – almeno questo sembra essere stato, per tutti in modo concorde: il tentativo di migliorare questo mondo, di mettere un po’ meglio, di eliminare tante cose paurose e pesanti. Il giudizio di Charron avrebbe dovuto essere – ma Charron non l’ha dato, perché è morto prima – avrebbe dovuto essere sostanzialmente negativo, sui rivoluzionari, soprattutto sui critici mancati, i critici falliti, i critici folli, la feccia peggiore fra tutte. In realtà, cercherò invece di mostrarvi come esista un doppio nodo che lega questo straordinario personaggio, Charron, alla rivoluzione. Per cui se potessimo resuscitare questo Pierre, gli faremmo confessare la sua solidarietà di fondo con la rivoluzione.

    La politica allora non esiste per il saggio, il quale ha criticato tutto, si è svitato da tutto, ha recuperato la natura umana, sente di nuovo ricantare in sé l’uomo come era prima, prima che si socializzasse in tanti modi distinti. E quindi, se vivesse solo il saggio a questo mondo, il saggio non avrebbe bisogno della politica, perché seguirebbe quello che ha fatto rinascere dentro di sé. Quindi, se c’è la politica è esattamente perché c’è il popolo. La politica cioè non è per il saggio, ma per gli altri, che si sono fermati a metà, a tre quarti, oppure neanche sono partiti lungo il cammino della virtù. Ma, allora, domanda: che cosa avverrà mai un giorno, che non solo si penserà che sia possibile educare il popolo lungo il cammino della virtù, ma il popolo stesso in qualche modo è già diventato in gran parte critico? Che cosa avverrà quel giorno? Che cosa servirà questo tipo di politica per un popolo che non è più una bestia furiosa, è una bestia dalle mille teste, una bestia che non sa mai quel che vuole perché non vuole niente? Vuole la pace perché c’è la guerra, la guerra perché c’è la pace, e via dicendo, come dice Charron? Cosa diventerà? Probabilmente nulla. Ma come sarà avvertita la politica se tutti hanno ormai indossato almeno i primi elementi dell’abito critico? Come qualcosa di assolutamente insopportabile, di inaccettabile, di omicida, di immorale, perché proprio questo è la politica.

    Questa domanda, che evidentemente cerca di far spostare un attimo sull’Illuminismo e quindi vedere che cosa si sta mettendo in moto, è evidentemente una domanda senza senso per Charron, per il quale il popolo è nella radicale impossibilità di muoversi dal suo stato di completa minorità e di completa tenebrosità delle proprie facoltà mentali. La ragione manco la conosce. E con questo si è meritato una valanga di critiche da parte di critici moderni. Hanno detto che Charron è aristocratico, è antidemocratico e via dicendo. Tanto per intenderci, perché sappiate.

    Un’ultima cosa vorrei richiamare prima di ripartire: la politica, abbiamo detto, diventa efficace soltanto dopo la separazione dall’etica; cioè la politica diventa efficace quando si scopre ingiusta, immersa nell’ambito dell’ingiustizia. Soltanto a questo punto. Questo vuol dire che la critica è lo strumento, la via che riesce a pensare veramente la politica. Cioè soltanto il critico sa cosa sia la politica. Infatti, abbiamo visto che la politica si ridisegna a partire dal saggio. La morale è tutta separata e adesso propone palesemente la politica. Il critico non riesce a dare soluzione alla guerra e quindi riesce a dare la risposta politica alla guerra. Infatti abbiamo visto come la separazione sia per Charron l’abisso in cui sprofonda il critico.

    Ma cosa vuol dire questo discorso? Vuol dire che il critico, cioè il saggio, non è un avversario del principe, e quindi un avversario della politica, ma è il suo alleato.

    Ma abbiamo visto poi che il saggio è quello che ubbidisce meglio degli altri, perché appunto consapevole di tutto quello che sta avvenendo e che si vuole ottenere. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se vi sono dei luoghi in cui si esercita la critica, e in questi luoghi si addestrano alla critica e si accompagnano l’uno con l’altro lungo questo cammino, questi luoghi non sono da reputare come dei luoghi pericolosi per il potere politico, ma è esattamente l’inverso, come luoghi che educano i buoni cittadini cioè i perfetti sudditi, quelli che obbediscono meglio degli altri, quelli che non hanno bisogno di nulla per obbedire a tutto quello che il sovrano, il principe farà. C’è un’alleanza di fondo tra questi luoghi, la conoscenza critica, la critica, le acquisizioni critiche e questo potere politico. Un’alleanza, una solidarietà di fondo, per cui se io fossi il principe e ci fosse in Francia nel Seicento un luogo in cui si trovano questi critici, che non vogliono migliorare il mondo, ma vogliono unicamente addestrarsi nella critica per arrivare a quella scissione che vi dicevo, io debbo non solo opprimere, ma addirittura favorire. Detto in altri termini, lo straordinario che salta fuori da questo discorso è che se questo potere immondo e amorale è profondamente ingiusto perché mai illuminato da un attimo solo di giustizia, e questo potere ha bisogno della critica e favorisce la critica, non è contro la libertà di pensiero, ma l’inverso: ne ha bisogno; questo potere non durerebbe un attimo senza la critica.

    E qui dobbiamo incominciare a ragionare veramente: questo è il mezzo potente, almeno nelle intenzioni di Charron e nelle intenzioni di quasi tutti i critici che si succederanno a Charron. Non nello Stato assolutistico trovo l’avversario del libero pensiero, ma proprio il libero pensiero costruisce l’assolutismo e l’assolutismo avrà sempre bisogno della pompa dell’alimentazione. Questa doppia spinta convergente una con l’altra libero pensiero–struttura assolutistica. Detto in altri termini, la struttura assolutistica non sarà sicura, non sarà mai formata finché il libero pensiero non sarà vincente contro i falsi critici, perché – questo è Charron che lo scrive agli inizi del Seicento – questo straordinario Sulla saggezza – deve immediatamente ingaggiare battaglia contro tutti coloro che non operano attraverso la critica. Tutto il sapere tradizionale, tanto per usare espressioni sbagliate, ma che vi rendono chiaro il concetto, non è critico, deve essere sbaragliato dalla critica per far nascere lo Stato assolutista.

    Questo noi dobbiamo aver di fronte, anche contro il Koselleck: lo Stato assolutistico non s’ha in Europa nel Seicento, non è una realtà di fatto, non esiste proprio da nessuna parte questa straordinaria figura scissa. Perché, se abbiamo capito bene Charron, su questo si va a finire: l’assolutismo si riuscirà a costruire, ad imporre soltanto nel momento in cui il libero pensiero, cioè la libera critica vince su tutti gli avversari, cioè vince contro i falsi saggi, tutti coloro che sono portatori del sapere tradizionale. Detto in altri termini, la politica si può imporre soltanto attraverso il pensiero. Una vittoria decisiva del libero pensiero, che, evidentemente, è diverso dal pensiero tout court. La libera ragione è totalmente diversa dal pensiero comune, che libero non è e non può essere, non per niente è ideologico. Questo è l’elemento potente.

    Quindi Charron col suo libro non mi descrive qualcosa in più, ma mi indica un programma di azione. Cosa vuol dire, secondo Charron? Vuol dire che la guerra continuerà tranquillamente finché non si arriva a questa soluzione, e finché non avrò degli spiriti liberi, dei critici che si sono svitati da questo mondo, hanno operato la scissione, i quali critici riescono a sovrapporre la loro voce a tutte le altre voci, e riescono, di fatto, a diventare i consiglieri del principe. La vittoria del libero pensiero sarà la vittoria dell’assolutismo, cioè la vittoria della politica da capo a piedi immorale.

    Riuscirà a realizzarsi questo? Io comincio preoccuparmi perché penso che abbiano tentato, e abbiano tentato in modo potente di arrivarci. Su questo sarà appunto costruita la seconda metà del Seicento e l’intero Settecento. È la lotta per l’assolutismo.

    Adesso in parte ho rivelato alcuni guai, alcune cose sgradevoli, altre sono rimaste escluse solo per mancanza di tempo.

    22.11.1984

    Legge e diritto nell’antico Regime

    Se esiste un’opinione comune solidificata, anche se poi variata all’infinito nelle sue gradazioni, è che l’assolutismo si realizza, è una struttura realizzata, una struttura politica effettivamente esistente, bene o male che nel Seicento comincerebbe in qualche modo a funzionare. Invece, secondo me, leggendo questi autori, apparirebbe semmai che l’assolutismo, a cui però ho cercato di dare una definizione assai precisa, cioè di una struttura dualistica, in cui morale e politica si contrappongono senza più nessun tipo di rapporto, questa struttura è un programma da realizzare. Questo è per Charron. È un programma. Non c’è qui perché c’è ancora la guerra, e questo tipo di guerra, una guerra sulla base delle opinioni di ciò che è giusto, una guerra scatenata all’inizio per colpa dei riformatori, cioè quelli della Riforma religiosa: Lutero, Calvino, i loro seguaci e tutte le Chiese che sono sorte in continuazione. Ecco qui lo stacco.

    Questo cosa vuol dire? Vuol dire che, purtroppo per me, da questo momento io cammino da solo, avendo contro l’opinione di tutti e la scienza diffusa altrui. E quindi posso salvarmi soltanto con la mia forza e quindi con la mia fatica, mentre voi siete in buona compagnia; finché non concordate con me avrete una valanga di testi, centinaia e centinaia che vi possono confortare per non trovarvi più in concordanza con me. Il mio sforzo non sarà allora soltanto quello di farvi collimare con le mie opinioni, ma di spingervi ad approfondire, quindi a studiare gli argomenti che trovano la vostra adesione, che l’hanno già trovata.

    E prima di continuare il discorso volevo fare alcune osservazioni relative proprio ai vostri temi e alla concordanza di fondo dei vostri temi, tolta credo una sola eccezione, e non mi ricordo più chi sia, è però in ogni caso un testo, un elaborato che sfrutta una fonte completamente difforme dalle altre, e sfrutta Brunner. Non so chi si riconosce in questo saggio. Non c’è. Allora dà tutto un taglio, viene in modo diverso dagli altri. Ma tutti gli altri invece, tolta appunto questa eccezione, mi sembra una sola, concordano poi nella valutazione anche di un Antico regime inteso come assolutismo. E allora prendo lo spunto da quello che appare in un testo, in uno dei vostri saggi, in uno solo, e ovviamente lo trova scritto in qualche manuale, il quale manuale poi rimanda ad altri testi meno manualistici, proprio di storici, più completi, cioè l’affermazione per cui la monarchia francese del Settecento è assolutismo perché il re può tutto, può volere tutto e la sua volontà è legge. Il re è la legge. Questo, bene o male, l’abbiamo già incontrato l’anno scorso. Questo, il re è la legge, è una traduzione di un termine latino abbastanza costante, che ha una tradizione lunghissima e che ancora è presente nel Settecento, ma è una traduzione purtroppo sbagliata, perché il termine latino lex rex significa esattamente il contrario: la legge è il re, non il re la legge. Questa traduzione sbagliata, per esempio (guardate a che livello ormai purtroppo siamo caduti), diventa la chiave di lettura di storici come, per esempio il Soboul e il Mathiez, per accusare di arbitrarietà il comportamento del re nell’ambito di governo. Questa traduzione è sbagliata. Che la legge sia il re significa esattamente questo, significa che la legge regna, che il regno o è della legge o non siamo più di fronte a un regno, ma siamo di fronte a qualcosa di diverso che è un disordine, che è una tirannide. Dire che la legge è il re significa dire che il re è subordinato alla legge e che pertanto può governare per quanto mantiene questa subordinazione alla legge. Detto il altri termini, il re è re perché bene anima la legge.

    Il concetto di animare la legge è uno dei concetti più semplici e nello stesso tempo più difficili perché meno ricordati e indagati su cosa significano in profondità. Animare la legge significa trovare la legge. È un concetto per noi strano, per cui il re è subordinato alla legge e la sua attività consiste nel trovare ogni volta, per ogni circostanza concreta, quale sia la legge da mettere in opera, da mettere in attività, cioè da animare.

    Ma cosa vuol dire: trovare la legge? A noi suona assolutamente incomprensibile. Ma forse incominciate a capire, sulla base proprio di quello che mi scrivete voi, e di quello che si dice, che la Francia non possiede, fino all’89, non possiederà poi fino al ‘91, una costituzione scritta, né possiede nessun tipo di codice, quale noi invece conosciamo – i nostri quattro codici. Non ha un codice, non ha dei codici di leggi. L’esistenza di una costituzione e di codici permette cosa? Permette un’applicazione della legge, per cui l’esecutivo e tutti i momenti dell’esecutivo, di questo strano potere tutto moderno, consiste in questo, nell’applicare una legge preesistente, fissata, addirittura scritta. Se deve applicare una legge, evidentemente l’esecutore non ha arbitrio, gli è tolta la possibilità dell’arbitrio, quindi la possibilità di seguire il proprio giudizio, perché la legge lo vincola nell’applicazione. La funzione dell’esecutore è la sussunzione di casi concreti sotto una legge che lui non ha stabilito e che gli è precedente. Noi adesso questo lo capiamo: applicazione di una legge, questo sì. A questo punto, trovare una legge lo possiamo capire.

    Ma se il codice non esiste, se non esistono leggi pre-fissate, pre-scritte prima ancora dell’attività politica complessiva, prima ancora dell’attività dei giudici, cosa fa un giudice? Non fa niente, o segue il suo arbitrio, quello che gli passa per la testa? Questo noi possiamo anche pensarlo, abituati al nostro mondo; la mancanza di codici ci dice che siamo di fronte ad un mondo terribile. Perché uno diventa giudice, e buonanotte, adesso fa quello che vuole. In realtà, il suo obbligo, il suo dovere è quello di trovarmi la legge, cioè in casi concreti dirmi cosa è giusto; per questo caso, in concreto. La nostra diffidenza forse può essere smorzata se noi ci ricordiamo una volta per tutte che l’Inghilterra non possiede costituzione scritta e non possiede codici. Eppure nessuno osa ancora dire che sia un regno dispiegato dell’arbitrio. In questo, stranamente, l’Inghilterra conserva un elemento di fondo dell’antico regime.

    Ma dire che bisogna trovare la legge, significa dire che non esiste un potere legislativo, cioè non esiste nessuno che possa dare la legge. Questa è la convinzione più radicata di un antico regime, la più potente. Non esiste un potere legislativo, perché se esistesse un potere legislativo, sant’Iddio, avrei dei codici. È il risultato inevitabile. Avrei la fissazione delle leggi, che cominciano a valere nel momento in cui sono dette e sono pubblicizzate, fatte conoscere ai disgraziati cittadini. Allora, stranamente, noi dobbiamo incominciare a toglierci dalla testa l’idea che il re possedesse un potere legislativo, perché questo non ce l’ha. Ma qual è il potere che caratterizza il potere del re in specifico, in toto? È il potere della giustizia. Deve trovar giustizia. Lui è l’ultima istanza, è quindi il potere supremo – che non significa l’unico, ma quello più alto – che deve trovare giustizia. Quindi ciò che incarna questo potere in modo pieno è il diritto, o il possesso della prerogativa essenziale, che è quella della grazia. Che, stranamente, vedete questo elemento, che già fa difficoltà per un antico regime, ce lo tiriamo dietro in modo incomprensibile oggi, perché il nostro presidente della repubblica ha il potere della grazia. In nome di cosa?

    Bene, il potere del re è un potere giudiziario, da capo a piedi, ma giudiziario non significa il nostro potere giudiziario. È tutto diverso. Perché per noi il potere giudiziario è uno dei tre poteri. Per un mondo antico, per un antico regime, il potere giudiziario è il potere, l’unico potere che sussiste.

    Se allora prendo un testo, che è anche un testo nobile, che è una storia del diritto penale antico, che serve per preparare i dottorandi francesi della Sorbona, quindi il 2° livello, quello post laurea, trovo proprio nell’introduzione questo tipo di affermazioni: lungo secoli, fino all’89 come data indicativa, la giustizia ha sanzionato fatti che nessun testo legislativo né definisce né prevede. Vedete, mancanza di testi legislativi. "Si perderebbe solo tempo a cercare nelle collezioni di ordinanze, editti e dichiarazioni la minima traccia di un nostro codice. Le grandi ordinanze non trattano che la procedura – qual è la procedura da seguire, la forma da seguire – e il titolo di codice criminale, che si applica volentieri all’ordinanza del 1670 – una delle più grandi insomma – non deve creare illusioni. Non è un codice, è una procedura. Non esiste allora – continua questo testo – legalità legislativa, ma si è costituito nel corso dei secoli un edificio o più edifici complessi a cui si attengono i giudici. Lo chiameremo la legalità del costume." Vale a dire che per trovare giustizia il giudice ha dei punti fissi di riferimento, che sono costituiti da tutta una serie di sentenze precedenti, come è adesso in Inghilterra. E sentenze precedenti oppure ordinanze precedenti, concessioni di particolari libertà, di particolari privilegi. Ecco, tutto questo costituisce tutta una serie di indicazioni, di punti fissi che nella loro larga maglia costituiscono il costume del paese, il costume della terra. È questo che mi costituisce il punto di partenza per il dare giustizia. Il compito e il dovere del giudice è trovare la possibile legge per il caso concreto che nasce, cioè la possibile soluzione giusta, che pertiene al caso, aiutato da precedenti, ma nulla di più. Quindi diventa chiaro che le leggi, le pene, non saranno mai definite in anticipo e quindi spetterà in qualche modo al giudice determinarle sulla base di una legalità del costume.

    Ma, guardate un po’, se fino alla rivoluzione io debbo parlare di una legalità del costume, io qua purtroppo mi debbo fermare e dirvi: santo Iddio, tenete ben presente allora che il costume, che Charron aveva portato alla sua opposizione netta rispetto ad ogni tipo di moralità e di giustizia, questo costume è così forte da tenere ancora la struttura fondamentale dell’antico regime!. L’antico regime, vediamo così, è un paese di costumi, dei molti, molti costumi. La Francia ne ha centinaia, più o meno raggruppati per grandi famiglie, per grandi zone. Ma, se vogliamo spingere questo discorso più avanti, perché gli uomini, e quindi i poteri umani, e quindi il re può solo trovare giustizia, può solo trovare giustizia perché non può dare le leggi, perché la legge la può dare soltanto Iddio. E sta all’uomo trovare quello che Dio vuole. Per noi questa è una favola. Ma, ovviamente, in qualche modo questi personaggi agivano secondo questa indicazione. L’uomo può solo trovare con fatica e una pena infinita, è una responsabilità colossale, ciò che Dio vuole. Indicando per Dio appunto una giustizia perfetta. Quello che l’uomo trova è sicuramente largamente imperfetto, ma che dietro ha lo sforzo per darmi giustizia e non per darmi qualcos’altro. Solo Dio è quindi il legislatore. Quanto più gli uomini trovano giustizia, che cosa avviene? Che tanto più l’ordine, l’ordine politico, l’associazione politica è portata a collimare e a entrare in assonanza e concordanza con l’ordine voluto da Dio per questo mondo. Cosicché lo sforzo umano, lo sforzo dei responsabili politici, anche se questo termine è molto vago e va precisato, è quello di creare un ordinamento che possa essere inteso come un ordinamento voluto da Dio, cioè come un ordinamento divino naturale o naturale divino, che sono termini, per l’antico regime, assolutamente coincidenti.

    Ma, dire questo significa dire che ogni decisione, ogni tentativo di trovare giustizia deve suscitare convinzione interiore. Io devo essere convinto cioè di dare effettivamente giustizia e questo mio convincimento deve essere riconosciuto dagli altri. Dobbiamo trovarci d’accordo in questo. Questo è un elemento fondamentale perché il dare giustizia non può essere mai dato da un uomo solo. Perché sennò un uomo solo che dà giustizia o presume di dare giustizia da solo diventa un legislatore e quindi usurpa. Quindi la collaborazione nell’attività di giustizia, che è l’unica attività che ancora tiene in sé tutto ciò che, nell’ottica di Montesquieu, in un’ottica moderna verrà spaccato almeno in tre, il dare giustizia richiede convincimento collettivo, riconoscimento da parte di tutti coloro che sono investiti da quella sentenza o coinvolti nell’elaborazione della sentenza o della misura di governo. Questo significa che se il re di Francia vuol farmi qualcosa relativo alla Normandia, che rappresenta un grande costume, un paese di costume e quindi un’unità territoriale a se stante, deve ottenere il riconoscimento della giustizia della sua iniziativa da parte di tutti coloro che hanno la responsabilità di mantenere integro il costume di Normandia. Altrimenti il re non può nulla. Ecco la collaborazione. Da solo non si produce niente. Da solo c’è solo usurpazione. Goubert, che molti di voi hanno citato, vi dice una cosa: "non vi è nulla che valga in Francia nell’antico regime senza che sia approvato e modificato anche – e questa è la regola, modificato sempre – nulla di ciò che vuole il re modificato da tutti i singoli responsabili del costume, nelle varie zone di Francia. Non ho un solo editto che venga registrato così com’è, ma viene sempre modificato. Ovviamente, la modifica è diversa a seconda delle varie zone in cui la Francia è ancora scomposta. I molti popoli che abitano ancora la Francia. E questo diventa un’offesa per i rivoluzionari, una vergogna che bisognerà lavare.

    La collaborazione. Allora io posso capire una cosa anche se siamo ancora in approssimazione, una cosa importante. C’è uno storico, che è uno storico del medio evo in particolare, si chiama Otto Brunner, a cui credo bisogna dare il riconoscimento di aver scritto delle opere assolutamente decisive per la storia medievale, che mi scrive: la monarchia di istituzione divina e quindi di diritto divino e il diritto di resistenza sono connessi tra di loro e nessuno può separarli. Uno chiama l’altro. Quindi, quando si dice monarchia di diritto divino, si sostiene che è una monarchia che chiama resistenza, se male agisce. Questo perché ve lo dico? Perché molti di voi hanno sostenuto che la monarchia francese è assolutistica perché si richiama a un diritto divino. Il diritto divino è una delle cose più difficili da capire per noi, una delle cose più complicate, più cinesi. Però una cosa è sicura e si può dire in modo preliminare: una monarchia di diritto divino è una monarchia limitata, per forza di cose. Non assoluta, limitata. E limitata da cosa, innanzitutto? Ma, santo Iddio, limitata dalle leggi divine! E limitata da cosa? Dalla collaborazione. Allora, quando si dice monarchia di diritto divino, si dice una monarchia subordinata al diritto. Quindi subordinata alla legge. E si può di nuovo capire lex-rex: è la legge che domina.

    Se voi togliete l’investitura di tipo divino, voi avrete invece l’illimitatezza del potere legislativo, che è tipico invece della rivoluzione e dell’epoca moderna. Il Parlamento può tutto. Ogni sua legge, basta che sia prodotta nelle formalità dovute – 51% – è legge, è legge vera e propria. Qui il Parlamento non ha una legittimazione divina, ha una legittimazione di tipo popolare. La legittimazione di tipo popolare porta all’illimitatezza del potere. Quindi, soltanto per un regime moderno si può parlare di un potere legislativo assoluto. Assoluto, basta che lo voglia. Basta che lo vogliano i legislatori e quella è legge. Il re invece, nell’antico regime, proprio perché voluto da Dio, è sottoposto alla sua giustizia e trova un vincolo potente in questo. Detto in altri termini, un antico regime si capisce ancora e può ancora sopravvivere finché il diritto o la legge, che sono due termini che sono identici nell’antico regime, mentre per noi sono opposti, perché i nostri diritti sono diversi dalle leggi, ma le leggi limitano il nostro diritto, mentre per l’antico regime si legano, leggi e diritto sono la stessa cosa. Un antico regime può ancora sperare di vivere finché il diritto o la legge vengono intesi come superiori agli uomini e quindi nessun uomo può produrli, ma solo trovarli. Se voi cercate di pensare cosa questo possa significare siete sulla buona strada. Cosa possa significare il fatto che nessuno può dire come stanno le cose. Ma noi possiamo trovare soltanto ciò che ha voluto per noi una volontà divina, cioè una volontà di giustizia assolutamente perfetta.

    Ma questo forse va oltre. In ogni caso, forse era meglio indicarlo, perché nei vostri compiti appariva esattamente questo. Ma non perché lo diciate voi, e non do la colpa a voi, ma perché questo è un luogo comune, riportato in tutti i manuali, ma dal punto di vista storico è di fatto un errore insopportabile. Questo per me, insopportabile. A voi lascio di nuovo la persuasione e la dottrina che invece la monarchia di diritto divino sia una potenza illimitata e quindi assoluta. E con questo cercherei di chiudere perché un altro elemento abbastanza comune dei vostri testi riguarda invece una struttura per classi che viene individuata, per cui l’assolutismo sarebbe in qualche modo una soluzione politica ad uno squilibrio di classi, che si sarebbe verificato nel corso del Seicento. Una nobiltà in discesa, perdente, una borghesia ascendente. Il loro conflitto viene risolto mediante una delega in bianco, assoluta, al potere monarchico, che con la sua assolutezza dovrebbe adesso bilanciare lo stato inquieto della società francese. Su questo tipo di interpretazione non vorrei entrar nel merito adesso, perché pone capo, se cercate di andare in profondità, ad una opposizione anche qui concettuale molto chiara, e cioè alla differenza, alla possibile differenza, tra Stato e società, tra politica e società. C’è la società che si squilibra e quindi c’è bisogno della politica, che mi assesta la società. Lo Stato come diverso dalla società. Questo tipo di relazione tra Stato e società è una relazione d’alta densità concettuale, difficile da sciogliere nei suoi nessi e quindi la rimando più avanti.

    E questo come inizio delle mie risposte, che vogliono essere solo risposte e non convincimenti, a quello che mi avete scritto in modo molto corretto e anche molto bene per alcuni.

    Adesso torniamo al corso per 5 minuti, 10 e vi indico un passaggio, uno solo, dopo mi fermo.

    Lo stacco purtroppo è venuto su questo: che secondo Charron c’è possibilità di creare pace se in qualche modo si realizza una scissione perfetta tra morale e politica. Ma il fatto che vi sia guerra e che questa guerra non finisca, secondo Charron attesta che questa separazione invece non è in atto, che siano dominanti invece i critici falliti, i critici folli, i guerrafondai, quelli cioè che in qualche modo legano i due elementi, la politica e la morale, cioè la politica e la giustizia. Questo come dire che, finché questi critici folli saranno ascoltati – possiamo dire così – e il potere politico in qualche modo funziona inseguendo la giustizia, io avrò la continuità della guerra. Lutti, sedizioni, rivolte, disordini. Ma invece questa guerra può essere chiusa solo a questa condizione.

    Adesso, ovviamente, tutta la costruzione ha come punto di movimento effettivo la critica, il saggio quindi e come punto d’approdo il riconoscimento della critica. Perché il principe riceve dal saggio questa indicazione sostanziale, questo programma: Chiudila con la giustizia! Finiscila con la giustizia! Non seguirla più! Quindi è un programma, non la descrizione di una realtà. Charron avrebbe descritto la guerra, come di fatto descrive. È un programma. Ma lo straordinario è che un’aspirazione in senso assolutistico, una tendenza verso l’assolutismo dovrà necessariamente favorire il libero pensiero, proprio perché l’assolutismo, cioè la politica senza morale, è appunto un’indicazione della critica. Per cui si determina una strana alleanza tra libero pensiero, il pensiero che si è liberato attraverso la critica da ogni rapporto, da ogni persuasione, da ogni amore per questo mondo e il principe. O dovrebbe crearsi questa strana alleanza. Questa opposizione tra morale e politica, che è il compimento di un’operazione critica, è lo specifico punto di partenza di un pensatore eccezionale che è Pascal.

    Pascal, in tutta una serie progressiva di pensieri riespone in un suo tono, in uno stile molto sintetico, molto rapido, molto affascinante per alcuni, riespone le tesi fondamentali di Charron. E in uno, molto chiaro Il più grande dei mali sono le guerre civili – o le guerre civili sono il più grande dei mali – subito dopo si lega summum ius summa iniuria – il diritto esistente è totalmente senza giustizia. La giustizia non è di questo mondo.

    E poi gli elementi, che hanno permesso in qualche modo di arrivare a queste conclusioni, per esempio, il pensiero n. 60 dice che è ridicola questa giustizia che è giustizia al di qua dei Pirenei, per diventare crimine al di là. Ecco, i costumi che sono tutti differenti tra di loro. Che razza di giustizia è questa, che basta un confine segnato da un fiume, per renderla tutta diversa. E un’altra serie di frasi come che il costume non vale, però varrebbe se tutti i costumi contenessero delle leggi naturali, cioè delle leggi vere. Ma se cerchiamo di capire quali sono le leggi vere presenti in tutti i costumi arriviamo al nulla perché, dice, non vi è il furto, l’incesto, l’uccisione di figli e dei padri, tutto ha avuto il suo opposto tra le azioni virtuose e non può esservi nulla di più bizzarro che un uomo abbia il diritto di uccidere perché abita al di là del fiume – questa immagine ritorna – perché il suo principe ha una contesa con il mio, e via dicendo. Ecco l’affermazione: l’abitudine è tutta l’equità solo perché è stata accettata ed accolta. Esattamente il discorso di Charron. Il costume tiene proprio solo perché è stato accolto. È l’essere proprio come un vestito che ormai si porta. Chi vorrà esaminare però i costumi li troverà così deboli, così lievi, che se non è abituato a contemplare i prodigi dell’immaginazione umana, si stupirà che un secolo abbia assicurato al costume tanto onore e tanta reverenza. L’arte di sconvolgere gli Stati – guardate – consiste nello scuotere le consuetudini stabilite scavando fino alla fonte per indicare la loro mancanza di autorità e di giustizia. Bisogna, si dice, ricorrere alle leggi fondamentali e primitive dello Stato, che una consuetudine ingiusta ha modificato o abolito. È un gioco sicuro per perdere ogni cosa. Ecco, questi sono i falsi critici che rivelano che il costume non ha giustizia. Nulla sarà giusto a questa bilancia, tuttavia il popolo presta volentieri orecchio a questi discorsi e scuote subito il giogo – son parole proprio di Charron – appena riconosce l’abitudine come giogo. E i grandi ne approfittano, e via dicendo. Non bisogna che il popolo senta la verità dell’usurpazione. È stata introdotta l’usurpazione in passato senza ragione ed è diventata ragionevole e quindi bisogna lasciarla così com’è. Bisogna farla riconoscere come autentica, eterna, e nasconderne il principio, se non si vuole che essa finisca subito e da subito. Per questo il più saggio dei legislatori diceva che per il bene degli uomini bisogna spesso ingannarli e un altro buon politico, che è sant’Agostino, diceva poiché ignora la verità per la quale è nato è bene che lo si inganni. È inganno per il popolo fargli credere giusto il costume che non è per niente giusto. È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, perché vi obbedisce soltanto perché le crede giuste. (pensiero 66). Quindi le opinioni del popolo sono sane, ma non per il motivo per cui le crede sane, (perché in realtà il popolo sbaglia) sono sane proprio perché – finché si riconosce nel costume – il saggio onora il costume, non per la ragione del popolo, ma per un ragionamento secondo il passaggio della critica. Un ragionamento tutto nascosto. La critica mi libera dal costume, ma vedo che è necessario il costume per il popolo. Quindi il popolo e il saggio concordano. La concordanza è perfetta. Ma uno non sa niente e sbaglia nel credere giuste le cose, ma nello sbaglio è saggio; e il saggio sa invece che non vale niente e pure anche lui per vivere in questo mondo, per saggezza, si adegua senza dire niente. Qua, in Pascal abbiamo esattamente lo stesso movimento, cioè Pascal inizia il suo discorso a partire dalla critica compiuta e quindi dal fatto che morale e politica si accordano soltanto nella separazione e diventano funeste nel collegamento. Il mondo è un mondo desolato, senza giustizia. Quindi è un mondo senza Dio. È un mondo in cui l’uomo rimane totalmente corrotto, irrimediabilmente corrotto finché rimane legato a questo mondo. L’incredibile di questo straordinario personaggio, la forza che possiede, l’elemento non capito purtroppo dai miei molti nemici o dai miei molti discordanti amici, è il fatto che quello che è caratteristico in Pascal è che Pascal riesce ad un recupero del cristianesimo, a partire appunto dal libero pensiero. E quindi in questo si contrappone inevitabilmente a Charron, che aveva negato la verità di qualsiasi religione. Per Pascal c’è invece una religione vera, questa è il cristianesimo, ma il cristianesimo per Pascal questo indica sostanzialmente, un fuggire dal mondo per rovesciare l’unica possibile forma di legame, l’unico affetto, l’unico amore, verso Cristo, che non sta in questo mondo. Cioè l’uomo in quanto uomo si riscatta soltanto nella fede in Cristo. Questo è il discorso di Pascal. Ma questo recupero del cristianesimo, che voi sapete diventa giansenismo – una parola che poi bisogna anche chiarire – questo recupero di Pascal avviene, e questo è lo straordinario, sulla base del libero pensiero. Il cristianesimo riveduto e corretto sulla base del libero pensiero. E quindi, ovviamente, entra in uno scontro potente con la Chiesa, perché la Chiesa non può riconoscere o può riconoscere come un mortale nemico il libero pensiero, su cui vi parlerò domani, vi dirò alcune cose necessarie.

    Quindi vedete come questa struttura dualistica sia, secondo me, la struttura portante del Seicento. Sono tutti i pensatori che si trovano. Vi ho citato Pascal. Ma potrei citarvi tutti, senza eccezione. Anche l’amico Cartesio, che vi dirò. Anche lui opera la separazione: il principe mi ordina quello che vuole, me lo ordini, lo farò. Il mio intelletto è libero, pensa quello che vuole o quello che può, ma questo non necessariamente bisogna dirlo. Anzi, bisogna vivere nascosti, è la grande massima di Cartesio. Nascosti il più possibile, non rivelare agli altri. E arriva al punto tale, come sapete, da non pubblicare i libri o di non farli assolutamente circolare o di autobruciarseli qualche volta. Ecco, la scissione anche qui.

    23.11.1984

    Pascal e Racine

    … da quello che finora ho detto, che probabilmente e solo apparentemente è semplice. Primo, è il problema del pensiero critico o della critica tout court, cosa significhi propriamente. E questo credo di non potervelo risolvere adesso. Comunque e in ogni caso, vi avviso che è un problema non semplice. Ma, in ogni caso, vi ho già detto che criticare significa soppesare i pro e contro di ogni argomento e quindi di ogni dottrina e quindi anche di ogni fatto, per vedere ciò che è accettabile da parte di una ragione pura, cioè priva di un interesse diverso da essa stessa. Perché, evidentemente, se una ragione fosse interessata a qualcos’altro non potrebbe criticare, ma rovescerebbe un altro interesse dietro l’apparenza di una critica razionale. La condizione per un’autentica critica è non avere un interesse molto particolare e determinato sulla questione. È difficile pensare che un critico del calcio, ad esempio, abbia interesse per un allenatore per piazzarlo al posto giusto. Quello non fa il critico. Per cui la condizione per la critica è la purezza della ragione. Dopo, quando arriveremo più avanti, ci sono alcune pagine di Kant che sono addirittura semplici ed evidenti. Questo vuol dire che non potrà andare tanto avanti chi è fortemente persuaso di una cosa, e così persuaso da non accettare di smuoversi da questa cosa; quindi non accetta l’esito critico. Una cosa è abbastanza evidente, che si può già dire è, ad esempio, che per alcuni la fede religiosa viene sottratta alla critica. Ad esempio, anche Kant lo vede, viene sottratta alla critica, è fuori discussione. Se cominciamo ad indagarla razionalmente, chissà cosa succede. Non ci sto. E si sottrae alla critica. Ma proprio per questo, coloro che si sottraggono alla critica o quelle dottrine che si sottraggono alla critica appaiono alla luce della critica dottrine in qualche modo non razionali. Quindi appaiono nonscienze. E agganciate ad elementi che, proprio perché si sottraggono alla critica, appaiono subito dogmatici o, proprio per non farli apparire nella loro brutalità come dogmatici, coperti dal principio di autorità.

    Detto in altri termini, come appare una filosofia non critica, un pensiero non critico agli occhi della filosofia critica, del pensiero critico? Appare una filosofia basata sull’ipse dixit. Adesso sapete come all’inizio del Seicento comincia questa definizione della filosofia tradizionale, chiamiamola così, come una filosofia agganciata all’ipse dixit: Aristotele l’ha detto, Aristotele è bravissimo, cosa andate a cercare? Questa è esattamente la valutazione che la filosofia critica deve dare del sapere tradizionale. E quindi è qui che il problema si apre. La filosofia tradizionale appare dominata dal principio di autorità, ma appare dominata dal principio d’autorità dell’ ipse dixit agli occhi della filosofia critica, quindi agli occhi della libera ragione, della ragione che non ammette ostacoli alla sua libera indagine.

    La domanda che si potrebbe porre è: ma, indipendentemente dalla filosofia critica, che cos’è la filosofia antica? Riusciamo a porci questa domanda? O l’ottica della ragione libera è l’unica ottica possibile? Se è l’unica ottica possibile, allora tutto il sapere tradizionale è bene che sia riguardato come lo guardavano gli uomini del Seicento, è un insieme dogmatico che si regge unicamente sull’autorità riconosciuta di Aristotele. E quindi è inutile anche studiarlo. O è possibile invece riuscire a capire che cosa fosse in sé, non agli occhi di una filosofia critica, ma almeno come si autocomprendesse la filosofia non critica? Non abbiamo, per adesso, nessun elemento per capire questo. Ma per farvi capire che, nell’ambito del Seicento, il libero pensiero, che abbiamo visto si determina e determina la sua struttura fondamentale attraverso la scissione, così deve valutare in questo modo il sapere tradizionale. Il termine è sbagliatissimo, ma non posso, per il momento, usarne altri. Poi volevo farvi riflettere un attimo su una questione un po’ strana, che è sempre legata a questa libertà di pensiero, che probabilmente non si aggancia subito a quello che vi ho detto per adesso, ma che porrà sempre dei gravi problemi: Galileo. Quindi siamo nell’ambito della scienza nuova, nell’ambito di quella scienza che riconosce come dogmatica la scienza, la fisica e la scienza in generale esistente. Normalmente, comunemente si intende Galileo e la scienza nuova attraverso uno strano meccanismo di spostamento, per cui Galileo sarebbe l’espressione di un certo tipo di classe, la classe borghese all’attacco del mondo per conquistarlo e via dicendo. Un tipo di interpretazione su cui voi siete bravissimi, molto addestrati, che avete testimoniato nei vostri saggi in modo clamoroso direi. E quella attraverso l’ottica delle classi, la struttura di classe, è la spiegazione forte e anche molto semplice. Per esempio, la scienza nuova, la borghesia. Però, ci sono alcune lettere di Galileo che cita il professor Cozzi, che insegna in questa università per nostra fortuna, perché credo che sia il più bravo storico che esista in Europa. Cozzi cita alcune strane lettere di Galileo in un saggio contenuto in un libro straordinario, che è Sarpi tra Venezia e l’Europa, pubblicato da Einaudi. In esse Galileo sostiene che a Venezia sta proprio male, non ce la fa perché lui dice che Venezia è una repubblica, questa disgraziata, e la repubblica chiede anche all’uomo di scienza di contribuire al bene pubblico e quindi di impegnarsi in un’attività pratica, di far dare un esito pratico alla scienza. Quindi insegnare, innanzitutto, che è già un esito pratico, e poi, magari, attraverso tutte le sue cognizioni di meccanica, andare a fare qualcosa, costruire magari qualche strumento o altre cose per l’arsenale. Questo, per Galileo, è insopportabile, perché, scrive Galileo, la scienza, la nuova scienza – che sarà poi chiamata la nuova scienza – può vivere e svilupparsi soltanto se l’uomo di scienza è scaricato di tutti i compiti pratici. Guardate la scissione. Solo se non ha nulla a che fare con la pesantezza del vivere quotidiano e nessuna responsabilità diretta in questa pesantezza, solo a questa condizione la scienza nuova può svilupparsi. Ecco allora che Galileo, guardate lo straordinario, invoca come condizione per poter elaborare la sua teoria, la sua scienza meccanica, invoca un governo assoluto. Ah! Che bene che si sta, o che si starebbe sotto un governo assoluto, che almeno dispensa l’uomo di scienza dalla fatica della politica, dalla fatica dell’insegnamento insomma. È una fatica tragica. E dalla fatica di rendere operativa una scienza. Ecco allora profilarsi nella testa di Galileo Firenze, proprio perché non repubblica, come ambito in cui si potrebbe in qualche modo collocare. Perché i Medici hanno tendenze assolutistiche, più tendenze ad una glorificazione di sé attraverso scienziati non pratici. Almeno nella sua testa è così. Però è indicativo che anche Galileo ponga una scissione, una scissione tra la pratica e l’attività dello scienziato e dà anzi questa scissione come la condizione sine qua non dello sviluppo della scienza nuova. A questo punto, tanto per tornare al punto di partenza, mi sembra sorprendente che Galileo fosse un rappresentante della borghesia e che porti avanti gli ideali e le tendenze pratiche della borghesia. A meno di non intendere la borghesia come un gruppo straordinario di nuovi monaci, di un monachesimo eccezionale, che rifiuta qualsiasi attività in questo mondo. Se questa è la borghesia nel Seicento, mi va bene. Galileo è il rappresentante della borghesia. Allora bisogna mettersi d’accordo sul significato e sulla possibile estensione di questo concetto, come quello di borghese. Cioè Galileo, attraverso le sue lettere, direbbe guardate che non è vero. Io ho bisogno e la scienza ha bisogno di una sottrazione dalla vita politica.

    Qui, quello che mi preme in ogni caso farvi già notare è che abbiamo una consonanza, almeno nella struttura, con i libertini. E vi pongo già un problema, che è un problema gravissimo: tutta la scienza nuova, quella che ancora noi abbiamo, perché questa scienza c’è rimasta e noi abbiamo anzi esteso, nasce nella scissione e nasce attraverso il disincanto e il distacco dalla pratica e quindi dalla pratica politica, dalla politica, dal bene pubblico, dal bene generale. E questo, evidentemente, per adesso ve lo pongo come problema. Tanto per capire insomma come tutto si stia improvvisamente complicando all’eccesso e come diventi difficile seguire delle linee comuni. E con questo basta con le precisazioni e adesso cerco di progredire.

    L’ultima volta ho accennato a Pascal, e vi ho detto che anche lui è dentro questa scissione, anzi in lui si manifesta ancora più chiaramente se possibile, ma il suo punto di partenza è tutta una serie di pensieri, che ripetono letteralmente Charron, anche se poi la curvatura improvvisamente muta e contro il deismo dei libertini, e quindi la negazione di un dio provvido, intelligente, summum dominum e via dicendo, c’è Cristo e la fede in Cristo. Ma, guardate un po’. Per Pascal l’uomo è interamente corrotto. L’uomo, vale a dire il francese, il tedesco, gli uomini di questo mondo sono tutti da capo a piedi corrotti e l’uomo in quanto uomo nasce attraverso il riconoscimento di questo e quindi lo staccarsi dell’interiorità da quello che si è nella realtà. Ma solo Cristo può salvare l’uomo in quanto uomo. È qui la differenza. Mentre per Charron l’uomo in quanto uomo riesce con le sue forze in qualche modo ad andare avanti. a forgiarsi un’immagine interna, per Pascal è solo Cristo che può salvare l’uomo in quanto uomo. Ma Cristo non salva i francesi, salva l’uomo in quanto uomo. Quindi per arrivare a Cristo dovete prima arrivare alla perfetta critica, alla separazione, al riconoscimento che nulla in questo mondo è giusto e che l’uomo è interamente corrotto dal costume. A questo punto inizia la parabola incredibile di questo pensatore eccezionale. Che appunto innerva un movimento che, voi sapete, prende il nome di giansenismo. E su Pascal non vorrei fermarmi per un doppio motivo. Perché in parte ci porterebbe fuori e in parte perché il leggere Pascal pone sempre dei gravi problemi e crea come degli stridori interni ed anche un senso di scoramento potente, almeno in me. E quindi per farvi capire lo scoramento potente di fronte ad un testo di Pascal e non lasciarlo proprio da parte così brutalmente, vorrei leggervi un passo anche famoso di Chateaubriand che è molto noto, ma forse non tutti l’hanno letto, anche se poi è riportato nel retrocopertina dell’ultima edizione dei Pensieri di Pascal. Questo vi sa spiegare anche il disagio che la lettura di Pascal o Pascal solo propone. Scrive Chateaubriand per presentare Pascal – sono 20 righe – Ci fu un uomo che a 12 anni con alcune sbarre e dei cerchi aveva creato le matematiche e che a 16 aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che mai si fosse visto dall’antichità, che a 19 ridusse in un congegno meccanico una scienza che risiede interamente nell’intelletto, che a 23 dimostrò i fenomeni della pesantezza dell’aria e dissipò uno dei grandi errori della fisica antica, che all’età in cui gli altri uomini incominciano appena a nascere, avendo percorso interamente il cerchio delle scienze, si rese conto della loro nullità e rivolse i suoi pensieri verso la religione e che da questo momento fino alla morte, che lo colse al 39° anno di età sempre infermo e sofferente fissò la lingua in cui parlarono Bossuet e Racine, fornì il modello della più perfetta satira come pure del ragionamento più impeccabile ed infine nei brevi intervalli del suo male risolse per distrazione uno dei più alti problemi di geometria e buttò sulla carta pensieri che hanno del divino quanto dell’umano. Questo genio terrificante si chiama Blaise Pascal.

    Ecco, allora capite che quando un personaggio è così, è sempre un po’ di disagio leggerlo. Soltanto leggere lo stile incredibile di questo uomo e l’argomentazione che è tutta polare tra argomenti contrapposti, indica della struttura dualistica che lui mette in atto. Quando si legge uno così, si capisce di aver sbagliato insomma fin dall’inizio, di aver perso la strada dall’asilo. Questo è l’atteggiamento che fa nascere questo strano personaggio. E quindi lo lasciamo da parte, lo lasciamo nella sua terrificante solitudine e adesso andiamo avanti.

    Un’ultima cosa relativa a Pascal, che è divertente, ma che in realtà pone un problema che cercherò di risolvervi più avanti. Ultimamente, leggendo qualcosa – Pascal è poco studiato rispetto poi a tutti gli altri appunto perché è così, mette a disagio – ho trovato scritto che Pascal è un filosofo pre-esistenzialista. Ho pensato che mi sembra strano questo, tutta la tematica della noia, della disperazione, della chiacchiera, del gioco, che poi saranno i grandi temi degli esistenzialisti, sono tutti presenti in Pascal. Ma perché chiamare Pascal pre-esistenzialista e non chiamare l’esistenzialismo post-pascalismo? Questo è una stupidaggine, ma in realtà pone un problema, che è quello che noi siamo abituati a leggere il passato

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