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Sguardi sul presente 2: Economia Politica Società Cultura
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E-book499 pagine5 ore

Sguardi sul presente 2: Economia Politica Società Cultura

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Lo sguardo appassionato dei giornalisti e collaboratori del quotidiano on line L'Indro viene raccolto in una sorta di "best of" che raccoglie gli articoli più significativi apparsi nel mese precedente la pubblicazione del volume. Un modo per non far cadere la notizia tra le mille che si affollano ai nostri occhi, mantenendo alto il valore dell'evento o del fatto commentato. Per avere sempre una chiave di lettura attenta e aggiornata della realtà. In particolare troveremo scritti su Roma capitale e la corruzione dilagante, il tema dello stato della Palestina, un profilo della nostra “AstroSamantha”, una curiosa riflessione sul presepe napoletano.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2015
ISBN9788899214135
Sguardi sul presente 2: Economia Politica Società Cultura

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    Anteprima del libro

    Sguardi sul presente 2 - Carolina Molino

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    Sguardi sul presente

    2

    Politica Economia Società Cultura

    A cura di Carolina Molino

    Gli eBook di L’Indro

    KKIEN Publishing International è un marchio di KKIEN Enterprise srl

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Prima edizione digitale: 2015

    ISBN 978 88 99214 135

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    POLITICA / NEWS

    Corruzione

    WHISTLEBLOWING: FISCHIETTANDO CONTRO LA CORRUZIONE

    Nicoletta Parisi e Giorgio Fraschini ci spiegano cos'è

    Se dovessimo misurare la fiducia nelle Istituzioni, tenendo conto della corruzione che dilaga senza un freno, avremmo un risultato sconcertante. C’è chi lo ha fatto. E’ solo di qualche giorno fa l'annuncio del Corruption Perception Index 2014 di Transparency International. L’Italia è al 69esimo posto su 174 Paesi. Non c’è molto da sorprendersi, né tantomeno da rallegrarsi. Come sappiamo in Italia una legge anticorruzione esiste, è la legge Severino sulle «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione». Nel testo, all’art. 1 comma 51 (che introduce l’art. 54-bis nel Dlgs 165/2001) si legge che «il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia». Con la legge n. 114/2014 l'A.N.AC. è divenuta una dei destinatari di degnazione di whisleblower. Quindi potrebbe essere lo stesso dipendente pubblico ad attivare il controllo statale, nel caso in cui viene a conoscenza di un illecito. Per questa via si tenta anche di innalzare il livello della cultura della legalità. Questo strumento ha un nome e un cognome: il Whistleblowing. Di matrice anglosassone, è un modello di controllo partecipativo che potrebbe essere molto utile, un aiuto consistente di supporto al controllo nazionale. Letteralmente il "whistleblower  è colui che segnala l’illecito (soffiatore nel fischietto), non farebbe altro che mettere in pratica un dovere civico. Purtroppo in Italia questo tipo di azione è generalmente considerata una spiata", concezione del tutto autoctona. Ce lo conferma anche Nicoletta Parisi, consigliere dell’A.NAC. "Questo comportamento viene spesso considerato un atto di delazione; è una connotazione che non tiene conto dei principi espressi dalla nostra Costituzione e dalle leggi leggi che ne danno applicazione, che obbligano il pubblico ufficiale a denunciare il fatto d’illegalità. Noi abbiano una Costituzione molto moderna che ci fornisce un principio, che non è mai stato traslato nel nostro ordinamento. Eppure a livello internazionale il contrasto a fatti d’illegalità per effetto della collaborazione che proviene da chi lavora all’interno della struttura – pubblica o privata che sia -   viene considerato un aiuto fondamentale contro le condotte di corruzione: ci chiedono un impegno sul piano normativo in questo senso la Convenzione delle NU del 2003, la Convenzione OCSE del 1997, il Consiglio d'Europa con le proprie raccomandazioni adottate dall'organo di controllo denominato GRECO, continua la Parisi. Nel modello anglosassone, tipicamente negli Stati Uniti, il whistleblower è tanto valorizzato da ottenere, a seguito della segnalazione accertata come fondata, anche un compenso pecuniario, pur ricevendo la sanzione penale conseguente se penalmente coinvolto nella condotta illecita. Peraltro anche in altri Paesi europei, questo tipo d’istituto non è accolto in modo diffuso. Non c’è scritto da nessuna parte, nemmeno nelle regole internazionali, quale deve essere lo statuto riguardante il whistleblower. Ciascun ordinamento nazionale, nell’ambito della propria sovranità stabilisce come tutelarlo. Noi abbiamo deciso, con la legge Severino, di proteggerlo tramite uno statuto di riservatezza, così da metterlo al riparo da procedimenti disciplinari indebiti, ci spiega Nicoletta Parisi. Quello che dobbiamo sottolineare è che questo istituto, in Italia, è previsto, appunto dalla legge Severino, soltanto per le Pubbliche Amministrazioni, mentre nessuna disposizione di portata generale è oggi contemplata in relazione alle imprese private". In America danno delle ricompense esose. Loro fanno un ragionamento prettamente economico, afferma Giorgio Fraschini, collaboratore di Transparency International Italia. "Forse nei Paesi come il nostro serve un incentivo – continua - Ma se paghi qualcuno per fare qualcosa non torni più indietro. In Italia non esiste questa cultura, è la natura, non esporsi quando non devi. In Europa ci siamo arrivati negli ultimi anni perché l’Unione e il Greco stanno spingendo in questo senso". Nel nostro sistema la giurisprudenza, nell’accertare la responsabilità o meno dell’impresa, insieme a quella del funzionario, ha dichiarato che il whistleblowing è un sistema che dovrebbe aiutare il radicamento della cultura d’impresa in senso etico e quindi in realtà, tramite la giurisprudenza e i modelli organizzativi fatti, il whistleblowing dovrebbe essere presente anche nelle imprese private. Non c’è una legge che lo prevede. E’ una guide line che ci viene fornita dalla giurisprudenza. Se l’impresa fa passare il messaggio che è fiduciosa nei comportamenti eticamente corretti, e chi denuncerà atti di illegalità verrà protetto, sottolinea la Parisi. Il legislatore ha percepito la diffidenza del pubblico dipendente verso la pubblica amministrazione, ecco perché ha inserito l’Anac come destinatario della segnalazione. Il whistleblower, secondo l’interpretazione di Anac, non è l’anonimo che segnala, ma è la persona che alla luce del sole compie la segnalazione e in cambio riceve la riservatezza all’interno dell’impresa, come nella PA. Il problema naturalmente è anche se l’illecito riguarda un singolo o tutto il corpo dirigenziale, in quei contesti dove c’è un Management coinvolto nell’illecito la segnalazione interna è problematica. In alcuni casi avrebbe sicuramente aiutato. E’ l’azienda stessa o l’amministrazione che ha l’interesse ad isolare questa persona. Tendenzialmente dovrebbe segnalare internamente, perché le aziende o gli enti sono i soggetti che potrebbero affrontare meglio la questione, ci spiega Fraschini. Ma in questo panorama come si sta comportando il governo Renzi? La Presidenza del Consiglio, con la quale stiamo lavorando proprio sul whistleblower in maniera molto positiva, ha introdotto nello scorso mese di agosto un proprio sistema di whistleblowing interno per la gestione di segnalazioni di illeciti di propri dipendenti, con una tecnologia che è in grado di dividere, dal momento in cui la segnalazione arriva, il nome del segnalante dai fatti, cosicché essi' abbiano due percorsi diversi. Sta anche emergendo la volontà di avviare una collaborazione fra istituzioni pubbliche che, utilizzando la stessa tecnologia, possano comunicare reciprocamente più facilmente, anche abbassando i costi che un sistema di tutela del whistleblower necessariamente comporta. In questo momento trovo che ci sia una reale volontà del nostro Governo di mettere a regime la tutela del dipendente pubblico che segnala. Resta da verificare se il Parlamento abbia la stessa volontà, manifestandola per esempio tramite l'approvazione di una normativa che in via generale, anche per il settore privato, stabilisca l'obbligo di creare un canale di segnalazione di fatti di illegalità' che si riproducono all'interno dell'ambiente di lavoro. La logica sottesa è quella di prevenire le condotte illecite, evitando che esse si radichino nell'entrata, facendo pulizia prima che si debba intervenire con un procedimento giudiziario, conclude Nicoletta Parisi.

    Camilla Doninelli

    Emergenza Ebola

    EBOLA: L’EUROPA S’È DESTA?

    La risposta delle istituzioni europee all’emergenza Ebola

    Il commissario europeo Neven Mimica, responsabile per la cooperazione internazionale e lo sviluppo, ha voluto che all’incontro di questi giorni a Strasburgo tra i 78 paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) e l’Unione europea la lotta alla diffusione della malattia fosse tra i punti principali da discutere insieme al nuovo programma di finanziamento e al futuro della partnership. L’Unione europea ha fatto sapere di aver attivato le risorse disponibili per cercare di arginare la diffusione dell’ebola, che sta assumendo dimensioni esponenziali da quando, in maggio, ha cominciato a mietere vittime in Africa. E ha lanciato un appello ai paesi membri per l’invio di personale sanitario qualificato e di medicinali e attrezzature apposite per la lotta alla malattia incaricando il commissario Christos Stylianides, responsabile Ue per gli aiuti umanitari e la gestione delle crisi, di coordinare le operazioni di lotta all’ ebola recandosi nei tre paesi dove più acuta è l’emergenza (Sierra Leone, Liberia e Guinea). Anche Mimica è andato in Guinea (Conakry) lo scorso fine settimana per riaffermare il sostegno dell’Ue in un incontro con il presidente guineano Alpha Condé e ministri del paese e lanciare un programma di finanziamento di 244 milioni di euro per migliorare le strutture sanitarie del paese. Nel corso dell’incontro Ue-ACP a Strasburgo è stata votata una risoluzione urgente sulla diffusione dell’ebola insieme ad un’altra sull’espansione del terrorismo in Africa. La risoluzione sull’ebola in Africa occidentale, approvata con procedura d’urgenza, sottolinea la necessità di«isolare il morbo senza isolare i paesi colpiti» e «prevenire la stigmatizzazione dei pazienti sopravvissuti». Finalmente dopo oltre sei mesi in cui ha avuto modo di espandersi in maniera esponenziale, l’ebola è diventata un’emergenza per l’Europa. Lo hanno fatto notare i partecipanti all’incontro Ue-Acp che hanno però elogiato l’impegno crescente dell’Ue sull’argomento auspicando che questo impegno non si limiti solo alla lotta al terribile morbo ma includa anche la creazione delle condizioni per la ricostruzione economica e sociale dei paesi colpiti quando l’emergenza sarà finita. Un’attenzione speciale viene chiesta per gli orfani dei morti per ebola doppiamente penalizzati anche a causa dello stigma che il morbo porta con sè. Dal canto suo il commissario europeo per la ricerca scientifica e l’innovazione Carlos Moedas, ha annunciato in un incontro a Città del Capo la creazione di un fondo di 2 miliardi di euro per i prossimi dieci anni per aiutare l’Africa a combattere con nuovi farmaci malattie endemiche come tubercolosi, malaria, e ebola. La diffusione dell’ebola che infierisce dallo scorso maggio in Africa Occidentale è stata definita da Louis Michel, co-presidente dell’Assemblea parlamentare ACP-Ue riunita a Strasburgo all’inizio di dicembre, la peggiore della storia, non solo in Africa ma in tutto il mondo. "L’epidemia di ebola – ha detto l’altro co-presidente dell’incontro, il giamaicano Fitz A.Jackson– resta una questione della massima urgenza che richiede il massimo sforzo da parte nostra dal punto di vista umanitario. E’ la solidarietà di cui c’è bisogno" ha detto Michel invitando la comunità internazionale a fare di più per combattere non solo l’emergenza ma le conseguenze umane e sociali della diffusione del morbo. Da qui l’appello al Fondo Monetario Internazionale perché cancelli i debiti dei tre paesi africani maggiormente colpiti dal morbo e l’invito a tutti a rispondere in modo positivo a questo grido di aiuto. Intanto anche il Parlamento europeo organizza incontri per attirare l’attenzione sull’emergenza ebola. In un dibattito pubblico ieri organizzato dall’eurodeputata italiana Giulia Moi (del gruppo EFDD)"Ebola, dentro l’emergenza è stato lanciato un appello perche’ il 20% degli aiuti allo sviluppo - di cui l’Unione europea è campione nel mondo come primo fornitore assoluto di aiuti ai paesi in via di sviluppo – venga dedicato alla sanità. L’emergenza ebola" - ha detto l’eurodeputata francese Michèle Rivasi, del gruppo dei verdi europei – "ha bisogno di una risposta adeguata sia come materiali sia come personale. L’eurodeputata ha ricordato che l’ebola poteva restare circoscritta se non ci fossero state una serie di circostanze che ne hanno causato la diffusione a livelli finora mai raggiunti. Ed ha accusato l’Organizzazione mondiale della sanità di non aver dato l’allarme in tempo lasciando che il morbo si diffondesse tra le comunità rurali dei tre paesi colpiti dove i sistemi sanitari sono stati messi a dura prova. In Guinea - ha detto Rivasi – l’ospedale principale di Conakry non dispone di acqua potabile, non ha le attrezzature necessarie per isolare il morbo. Quando le attrezzature sono arrivate, non erano in molti a saperle usare correttamente. E’ stato quindi necessario avviare un sistema di addestramento del personale paramedico ma anche combattere tradizioni ancestrali tra le popolazioni rurali abituate a riti funerari antichi completamente in contraddizione con le norme sanitarie per evitare la diffusione del morbo. In molti casi" – ha detto Rivasi - i morti venivano lavati e preparati prima di chiamare gli addetti alla loro rimozione, diffondendo così il morbo tra tutti I parenti e vicini. Anche l’organizzazione umanitaria "Medici senza frontiere" ha accusato la comunità internazionale di aver reagito in maniera frammentaria all’emergenza ebola e di aver lasciato le ONG combattere da sole la sua diffusione. Il problema – ha detto in un incontro al circolo della stampa di Bruxelles la responsabile di Medici senza Frontiere del Belgio Meinie Nicolai è il personale. L’addestramento del personale sanitario specializzato infatti richiede settimane o mesi e MSF e le altre organizzazioni umanitarie impegnate nella zona, tra cui l’italiana Emergency, devono cercare di superare questo collo di bottiglia stretti tra la necessità di impedire che il morbo si propaghi e garantire agli operatori sanitari un addestramento adeguato per la sicurezza propria e dei malati. Come è possibile – ha detto Nicolai – che la risposta all’emergenza ebola, che ora è diventata un’emergenza transnazionale, sia stata lasciata solo nelle mani di medici, infermieri e volontari ?. Un medico britannico del King’s College di Londra che ha partecipato al dibattito sull’emergenza ebola al Parlamento europeo, Colin Brown, ha parlato di crescita esponenziale del morbo identificato lo scorso maggio che ha già colpito 13.000 persone specie in Sierra Leone dove la diffusione non accenna a diminuire. Il vero problema- ha detto Brown – è il fatto che il personale medico e paramedico locale spesso viene infettato. E ha citato il caso della Sierra Leone dove dei 12 medici di alto livello addestrati per far fronte al morbo ne sono rimasti solo sette. Gli altri sono morti di ebola. Il vero problema è coinvolgere le popolazioni rurali tra le quali il morbo si è diffuso maggiormente ad adottare regole igieniche di base per impedire che il morbo si espanda e abbandonare pratiche funerarie ancestrali. Anche la reazione all’emergenza dei governi dei tre paesi africani maggiormente colpiti è stata troppo lenta: l’avvio di una campagna di sensibilizzazione è scattato solo a giugno ma il messaggio è stato vago, confuso, facendo ritenere che si trattasse di malaria piú che di ebola. In questo modo le precauzioni iniziali sono state vaghe e frammentarie permettendo al morbo di diffondersi specie nelle zone piú isolate ai confini tra i tre stati ch le popolazioni nomadi sono abituate ad attraversare liberamente da secoli. L’Europa ora passa al contrattacco sia per sensibilizzare la sua popolazione sia per raccogliere fondi necessari a far fronte all’emergenza. "Non bisogna abbassare la guardia ora" avverte Medici senza Frontiere Internazionale. Delle 6.400 persone ricoverate finora nei centri appositamente allestiti da MSF per far fronte all’emergenza ebola nei tre paesi africani, ben 4000 sono risultate positive e 1700 sono guarite. I decessi sono ancora troppo elevati per poter dire che il peggio e’ passato.

    Maria Laura Franciosi

    Politica e Società nel Regno Unito

    MILIBAND PUNTA SUI GIOVANI

    Il leader dei Labour si impegna formalmente a concedere il voto agli over 16 da maggio 2016

    Londra Allargare l’elettorato ai più giovani. Sembra essere questa una delle tendenze nel Regno Unito per avvicinare un popolo disilluso e lontano dalla politica e da Westminster ai diritti e dovere della cittadinanza e della democrazia. Negli ultimi anni è stato sempre più consistente il dibattito intorno alla questione di permettere a tutti coloro sopra i 16 anni d’età di poter votare nel Regno Unito. C’è chi dice che i giovani sono disinteressati e apatici alla politica e non sarebbe una buona idea dare loro il diritto di voto, e chi pensa che sia proprio dando loro la possibilità di votare che si possa destare la loro coscienza civile. Proprio Ed Miliband, leader del Partito Labour, si è fatto portavoce di questa battaglia e già durante la Conferenza di Partito di settembre sottolineo come sia importante dare il voto ai più giovani. Nei giorni scorsi, però, si è impegnato formalmente con la promessa di far passare una legge che consenta il voto ai cittadini di 16 e 18 anni nelle elezioni locali, in quelle di Londra e del Parlamento Scozzese nel 2016, nel caso i Labour andassero al Governo dopo le elezioni di maggio. Il turnout per il Referendum sull’indipendenza della Scozia ha dimostrato come il voto degli under 18 può essere determinante. Gli elettori che hanno deciso di esprimere la loro preferenza sul futuro della Scozia sono stati l’84% degli aventi diritto, e secondo i dati diffusi dalla Votesat16 coalition più dei quattro quinti degli aventi diritto tra i 16 e i 18 anni si sono registrati per votare. Solo il 3% dell’elettorato, ma che può essere decisivo per l’esito di un’elezione. È stato durante una trasmissione lo scorso weekend, in cui Miliband ha risposto a domande dai teenagers del Regno Unito, che la sua posizione è stata esposta più chiaramente. Affrontando temi che spaziavano dall’immigrazione alle droghe, dalla devolution al mercato del lavoro, il leader dei Labour durante la trasmissione ‘Leaders Live’ si è soffermato sulla necessità di dare una voce politica ai più giovani. Forse è stato proprio il format e il target della trasmissione, ospitata in collaborazione da ITV e Youtube, e diffusa dai social networks, prodotta dall’organizzazione giovanile Bite the Ballot, che ha dato spazio a queste considerazioni di Miliband. «Oggi ufficialmente sono qua per impegnarmi, nel caso vincessimo a maggio, a dare il voto agli over 16 sin dal 2016», ha dichiarato il leader Labour ai giovani in studio, «dobbiamo ascoltare la voce dei giovani, è un segnale che crediamo in loro e nelle loro opinioni. Dobbiamo educarli alla cittadinanza e dare loro gli strumenti necessari per prendere delle decisioni politiche». Non solo concedere loro il voto, ma fare un passo ulteriore. «La crisi della nostra democrazia è troppo grande e la voce dei giovani deve essere ascoltata e dobbiamo migliorare la loro educazione civile», spiega Miliband nella trasmissione, suggerendo che scuole, college e università saranno incentivate ad avere un ruolo fondamentale nell’assicurarsi che i giovani si registrino alle liste per votare, come previsto dalla normativa vigente. «C’è una lezione da apprendere dalla Scozia», sottolinea Miliband, «in molti dicono ‘come è possibile che i giovani possano avere una posizione, come possano essere abbastanza preparati per votare’, in Scozia i giovani hanno imparato, approfondito la questione, proprio perché era stata data loro la possibilità di votare». Miliband suggerisce che è solo logico pensare che, se a 16 anni ci si può arruolare, ci si può sposare, lavorare e pagare le tasse, si sia abbastanza adulti per votare. «Perché i giovani non dovrebbero avere una voce nella nostra democrazia, avere un ruolo nelle decisioni che interessano loro direttamente». Non sono della stessa opinione i molti che criticano queste posizioni, sottolineando come in molti ambiti, come l’arruolarsi ed il matrimonio, si sia in qualche modo non totalmente indipendenti fino al compimento dei 18 anni. L’obiettivo dichiarato è quello del 2016, in cui sarebbero oltre 1,5 milioni di giovani che entrerebbero di diritto a far parte dell’elettorato. Questo dibattito non è nuovo nel Regno Unito, ma è negli ultimi anni che la richiesta per questo cambiamento si è fatta sentire. Già nel 2009, in uno dei pomeriggi in cui si riunì il UK Youth Parliament, ovvero il Parlamento dei Giovani, vennero trattate queste questioni. Nel video, disponibile online, si possono ascoltare le opinioni di quei giovani che pensano che il voto debba essere concesso dopo il compimento del sedicesimo anno di età. Nel Gennaio del 2013 furono poi i parlamentari ‘adulti’ a discuterne, proprio nella Camera dei Comuni. La mozione che il diritto di voto fosse concesso agli over 16 per tutti i referendum e le elezioni, e il cui dibattito fu guidato dal Parlamentare Stephen Williams, ebbe 119 voti a favore e 46 contrari. L’ultimo step in ordine temporale, come già sottolineato, è stato quando il voto è stato concesso ai più giovani per il referendum sulla Scozia. In realtà è un progetto che parte da lontano, dalla fine degli anni 90. In questi anni si è formata una coalizione, Votes at 16 appunto, che ha fatto molte campagne per convincere i politici sul riformare questo aspetto del sistema elettorale. Una coalizione che comprende charities e gruppi organizzati, come il British Youth Council, l’Unione Nazionale degli Studenti e l’Alleanza per i diritti dei bambini e molte altre. Il Regno Unito non è il solo paese che sta parlando di questa opportunità, è un dibattito su scala globale. In realtà nel mondo sono già molte le realtà dove si può votare già dopo i 16 anni, come ad esempio in Brasile, in Equador e Nicaragua, mentre in Argentina il voto è obbligatorio dopo i 18 ma facoltativo tra i 16 e i 18 anni. Anche in Europa ci sono delle realtà dove il voto è concesso ai più giovani, in Norvegia ad esempio ci sono 20 municipi dove recentemente questo diritto è concesso ai più giovani, così come i cittadini tedeschi vi possono accedere per certe elezioni, mentre i cittadini sloveni possono votare anche a 16 anni se hanno un lavoro e gli ungheresi se rispettano alcuni criteri specifici, come ad esempio essere sposati prima dei 18 anni. L’Austria, è diventata nel 2008 il primo paese dell’Unione Europea a far scendere l’età per votare ai 16 anni. Proprio sul caso dell’Austria è stato fatto uno studio, pubblicato nel Journal of Elections, Public Opinion and Parties, che suggerisce tramite dati empirici che non si possa generalizzare sulle conseguenze di abbassare l’età per il voto, poiché questo studio contraddice studi precedenti che evidenziavano un basso turnout nell’elettorato più giovane. E in Italia? Proprio ieri in Commissione Affari Costituzionali della Camera è approdata una proposta di legge che arriva dall’Emilia Romagna e che chiede una modifica all’articolo 48 della Costituzione per attribuire il voto ai giovani al compimento del sedicesimo anno d’età. Anche in Italia se ne sta quindi iniziando a parlare più concretamente, e il Movimento 5 Stelle si è fatto portavoce di questa battaglia negli ultimi anni. Se l’Unione Europea si è espressa a favore di concedere il voto ai più giovani, al momento nel Regno Unito, è solo Miliband che si è fatto portavoce di questa politica che ha già avuto molte critiche. D’accordo con lui è stato da sempre il Partito Nazionale Scozzese ed il suo leader Alex Salmond, così come sembrano esserne favorevoli i Lib-Dem, che già nel 2010 parlarono di cambiare il loro manifesto. Contrari, da sempre, i Conservatori. Il risultato delle prossime elezioni sembra quindi ancora più determinante per capire se ci sarà questa riforma del sistema elettorale.

    Claudia Pollio

    Un referendum sulle politiche di Abe

    ELEZIONI LAMPO IN GIAPPONE

    A stupire è la richiesta del Primo Ministro di indire le elezioni anticipate. Dovere morale o strategia?

    Mancano solo tre giorni alle prossime elezioni. In un paese che ha visto sei primi ministri diversi negli ultimi sette anni questo può non sorprendere molto. La vera sorpresa casomai è che a chiamare queste elezioni improvvise, la camera bassa è stata sciolta il ventuno Novembre quando le elezioni erano previste solo per il Dicembre 2016, sia stato l'attuale premier Abe senza che vi fosse nessun apparente bisogno. Il premier, nonostante potesse contare su una larghissima maggioranza, ha ritenuto doveroso dare la parola al popolo sulle sue politiche economiche, più comunemente note come Abenomics, per poter procedere con ancora maggior vigore il suo iter di riforme. Il paese aveva reagito molto positivamente alle politiche economiche espansionistiche del nuovo governo durante il primo anno, ma nel 2014 ha dovuto fare i conti con un rallentamento non previsto. Ad Aprile infatti la tassa sui consumi, in Giappone incredibilmente ancora ferma al 5%, è passata all'8% grazie ad un'impopolare decisione presa nella passata legislatura dai rivali del Partito Democratico (DPJ). Questo provvedimento ha mortificato la timida ripresa in corso e lo stesso governo ha dovuto ammettere di non aver previsto un impatto così grave sull'economia. Il Giappone è infatti tecnicamente in recessione da due trimestri nei quali è arrivato a perdere quasi il 7% del Pil, solo in parte controbilanciato dal buon andamento della prima parte dell'anno. L'inizio del trend positivo per i consumi alimentato dall'Abenomics a suon di debito emesso dalla Banca del Giappone, ha visto i suoi effetti positivi svanire in una bolla di sapone e riemergere tutti i vecchi problemi legati alla stagnazione e la deflazione. Il meccanismo della legge inoltre prevede un ulteriore aumento al 10% nel 2015.  Abe, dopo una lunga riflessione, ha deciso di scendere nuovamente in campo per evitarlo cavalcando il malcontento della popolazione. In una conferenza stampa alla tv nazionale ha dichiarato: «Ho concluso che sarebbe troppo grave adesso per la nostra economia un ulteriore aumento della tassa dei consumi e questa dovrebbe essere ritardata di almeno diciotto mesi. Ma una decisione del genere è troppo importante per non dare alle persone il modo di esprimersi come è giusto che sia in una democrazia». Ma quella della tassa sui consumi sembra più che altro un pretesto. Gli intenti sembrano essere molto più concreti e i rischi molto ben calcolati. Il vero obiettivo è quello di estendere di altri due anni la vita del suo governo e per far questo è anche disposto a perdere qualche seggio nella Camera Bassa pur di arrivare al 2018. Nei calcoli del premier sei anni sono più che adeguati per completare in modo

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