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I segreti di Tangentopoli. 1992: l'anno che ha cambiato l'Italia
I segreti di Tangentopoli. 1992: l'anno che ha cambiato l'Italia
I segreti di Tangentopoli. 1992: l'anno che ha cambiato l'Italia
E-book276 pagine4 ore

I segreti di Tangentopoli. 1992: l'anno che ha cambiato l'Italia

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Info su questo ebook

Tutto quello che nessuno racconta
Tutto quello che nessuno osa chiedere
 
Da mani pulite alle altre grandi inchieste che hanno sconvolto la politica del nostro Paese

Sono passati più di vent’anni, eppure l’onda lunga di Mani pulite sembra in qualche modo non essersi ancora arrestata. Quasi quotidianamente, infatti, sul web e sulle pagine dei giornali rimbalzano le notizie di scandali politico-economici, che girano sempre intorno alla corruzione e ad appalti truccati. A nulla è servita l’incredibile parabola giudiziaria che smascherò il sistema di malapolitica passato alla storia con il nome di Tangentopoli? Cosa ne è stato di quella classe dirigente e del suo modo di condurre affari? Perché, a distanza di due decenni, tali meccanismi sembrano replicarsi quasi immutati, cambiando semmai (ma non sempre) i nomi e i colori degli interlocutori? E soprattutto, cosa è successo al Belpaese dopo quel ciclone, quel sano moto di indignazione che sembrava dover cambiare per sempre la coscienza degli italiani e la gestione della cosa pubblica? I giornalisti Antonella Beccaria e Gigi Marcucci ripercorrono le fasi salienti dell’inchiesta Mani pulite – dall’arresto di Mario Chiesa all’avviso di garanzia a Bettino Craxi – e delle recentissime indagini sull’Expo 2015, sul MOSE di Venezia e su Mafia Capitale: per capire cosa successe veramente nel lontano 1992 e perché il clima di oggi in qualche modo assomigli sempre di più a quello di ieri.
A oltre vent’anni dal terremoto di Tangentopoli che ha scosso il nostro paese, una ricostruzione spietata del sistema di corruzione che ha dominato la politica italiana

Hanno scritto di Italia. La fabbrica degli scandali:

«Intrighi, corruzione, criminalità, stragi e fango. Una palude densa e vischiosa che inghiotte chi vuole reagire, che toglie credibilità a chi alza la voce. Italia. La fabbrica degli scandali è il romanzo criminale di una nazione, la nostra.»
Stefania Parmeggiani, la Repubblica

«Una sconcertante controstoria dell’Italia, dall’unità a oggi, attraverso gli affari più torbidi della classe politica e imprenditoriale.»
Giornale.it
Antonella Beccaria
Giornalista e scrittrice, collabora con testate nazionali e varie trasmissioni televisive, e fa parte di IRPI (Investigative Reporting Project Italy). Nel 2013 per la Newton Compton è uscito il suo libro I segreti della massoneria in Italia. Nel 2014 ha pubblicato, sempre per i tipi di Newton Compton, il saggio scritto a quattro mani con Gigi Marcucci, Italia. La fabbrica degli scandali.
Gigi Marcucci
È stato giornalista dell’«Unità», lavorando come cronista giudiziario e caporedattore della redazione dell’Emilia Romagna. Si è occupato, tra l’altro, delle indagini sulla strage dell’Italicus e su quella alla stazione del 2 agosto 1980. È autore, insieme ad Antonella Beccaria, del volume Italia, la fabbrica degli scandali e di I segreti di Tangentopoli.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2015
ISBN9788854179363
I segreti di Tangentopoli. 1992: l'anno che ha cambiato l'Italia

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    Anteprima del libro

    I segreti di Tangentopoli. 1992 - Antonella Beccaria

    logo-collana

    307

    logo-agenzia.jpg

    Published by arrangement with

    Agenzia Letteraria Martin Eden

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste giudiziarie,

    alcune delle quali sono ancora in corso. Tutte le persone coinvolte

    o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi giudizio,

    sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: marzo 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7936-3

    www.newtoncompton.com

    Antonella Beccaria - Gigi Marcucci

    I segreti di Tangentopoli

    1992: l’anno che ha cambiato l’Italia

    OMINO-OTTIMO.tif

    Newton Compton editori

    Se ci dicon: quello ruba, quello truffa, quello frega,

    noi alziamo la spalluccia e da idioti sorridiam.

    Perché siamo gli italioti, razza antica indo-fenicia,

    siam felici, siam contenti del cervello che teniamo.

    Anche voi dovreste farlo: trapanatevi il cervello

    e mettetevi anche un’elica, per andar sempre col vento.

    Trapaniamoci festanti, riduciamoci il cervello

    e così sarà più bello, non avremo da pensar.

    Se diranno: quello ruba, quello truffa, quello frega,

    gli daremo i nostri voti, tutta quanta la fiducia

    e sarem tutti italioti, un po’ ottusi di cervello.

    Su, sbrigatevi, curatevi, anche voi, fate così,

    anche voi fate così, anche voi fate così.

    Dario Fo e Franca Rame, Il ballo degli italioti

    Introduzione

    Il confine ambiguo tra bene e male

    Solo nelle favole si può dire c’era una volta. Solo ai bambini è giusto raccontare che il bene prevale sempre sul male, che i buoni hanno sempre la meglio sui cattivi. Tangentopoli non è una favola, è una storia vera: in questo caso, per esempio, non si può dire che qualcuno (o qualcosa) c’era una volta, semplicemente perché c’è ancora. E perché la legalità (il bene) non ha mai prevalso sull’illegalità (il male), anzi.

    «I soldi pubblici non sono soldi di nessuno, ma di tutti. I politici che se ne appropriano fanno schifo»¹. Lo scandisce solennemente, a ventitré anni da Tangentopoli, l’attuale premier Matteo Renzi, quando almeno tre scandali esplosi nel corso degli anni precedenti certificano – ancora una volta – che in Italia la corruzione dilaga, il Paese si rassegna e la politica, quella pulita, che non si fa prendere con le mani nella marmellata, stenta a trovare l’uscita dal labirinto, e soprattutto a tracciare un confine invalicabile tra legalità e illegalità. Ventitré anni sono passati dall’arresto di Mario Chiesa, il mariuolo beccato mentre tentava di far scomparire una mazzetta nel water. Nel gorgo sono finiti invece quasi tutti i partiti della cosiddetta prima Repubblica, ma non i meccanismi che hanno reso possibili fondi extrabilancio e mazzette, mafie voracissime e progetti eversivi, una politica debole perché ricattabile. Anzi, come si vedrà, dieci anni dopo c’è ancora chi sostiene che una società non sta insieme grazie a regole giuste e comprensibili. Il cemento che tiene insieme i piani alti dell’edificio – il «mondo di sopra», come lo chiamano oggi – è un promemoria scolpito nella pietra di consolidate certezze, un memento mori aggiornato e corretto: ricordati che, nel migliore dei casi, puoi perdere il tuo scranno e, nel peggiore, finire in galera. Il politico affidabile sarebbe quello a cui basta suggerire pochi argomenti, più persuasivi di un programma o di mille interventi al congresso di partito; perché coloro che devono giudicare questo sistema non sono i magistrati, ma le urne. Agli elettori bisogna dire: così è se vi piace; se non vi piace, ditelo e chi si è reso ricattabile oltre un certo margine di ragionevolezza verrà scartato. Cadranno delle teste, ma il sistema continuerà a funzionare esattamente come prima. È un brevissimo compendio di cultura politica o, se si preferisce, di sottocultura della corruzione.

    Quando si scoprono i fasti della cosiddetta Mafia Capitale – con criminali formatisi nelle file dell’eversione nera e capaci di comandare a bacchetta consiglieri comunali e regionali, dipendenti di municipalizzate, candidati di ogni colore – l’indignazione dell’opinione pubblica, assopitasi per oltre due decenni, riprende il sopravvento. Una manciata di mesi prima si è saputo che il presidente di un consorzio di costruttori impegnati a realizzare lavori per Venezia, tra cui un sistema di dighe mobili – il MOSE (acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico) – per salvare la città dall’acqua alta, viene chiamato il Doge, o l’Onorevole, e che alcuni dei suoi referenti istituzionali sono in realtà dei sudditi: la loro fedeltà è garantita dai trucchi contabili e da buste piene di denaro di ignota provenienza. Nell’intermezzo ci si può consolare constatando che i costi dell’Expo comprendono una maggiorazione dovuta a tangenti pagate perché i lavori venissero assegnati ai soliti noti. Uno degli intermediari, non sapendo di essere intercettato, spiegava nel suo ufficio che la legalità va bene, ma è una condizione, non può essere un dogma, altrimenti si scassa l’economia. Segno (l’ennesimo) che le tangenti non sono solo malcostume, ma anche cultura, o sottocultura, e quindi hanno conquistato le anime e non solo i portafogli. Ecco perché il premier esplode: «Chi ruba i soldi pubblici non ruba i soldi di nessuno, ma di tutti. Non dico che è un furto doppio, ma il disvalore sociale è doppio. Per il MOSE, però, oltre ai politici che rubano c’è uno Stato che fallisce». Renzi ricorda che il governo è intervenuto commissariando perché «ora c’è spazio per una forma di commissariamento che consente di andare avanti nei lavori separando ciò che è male da ciò che è bene»². Forse i lavori sono salvi grazie a Raffaele Cantone, bravo magistrato dall’aspetto giovanile, a cui il governo ha affidato il compito di passare al setaccio le gare d’appalto. Forse l’economia assorbirà il colpo, ma il sistema che lo ha prodotto sembra ancora in grado di funzionare. Perché?

    L’Italia è stata uno degli ultimi Paesi a ratificare la Convenzione di Strasburgo contro la corruzione: le tabelle dicono che è arrivata dodici anni dopo l’Albania e l’Azerbaigian; si è messa in coda dietro l’Irlanda, che ha raggiunto il traguardo una decina di anni prima; ha mangiato la polvere perché l’Islanda è in regola dal 2004; ha rischiato di perdere di vista piccoli Stati come la Lettonia, tra i primi ad aderire e sottoscrivere, e può consolarsi solo guardando al Liechtenstein, che è un paradiso fiscale, cioè un posto dove, dicono le indagini, con molta discrezione vengono accumulati anche i soldi per pagare le mazzette. Obiettivo della Convenzione è quello di coordinare l’azione penale contro diverse pratiche legate alla corruzione: attiva e passiva di pubblici ufficiali, di parlamentari, di privati, di funzionari internazionali, di giudici e funzionari di tribunali. Sono inseriti nel testo anche i reati di traffico di influenze attivo e passivo, riciclaggio dei proventi della corruzione e quelli contabili (fatture, falso in documenti contabili ecc.) connessi alle tangenti. L’Italia non ha avuto fretta.

    Certo, il lento cammino di una ratifica non può essere una sentenza tombale sulle buone intenzioni del Paese. Nel 2012 arriva infatti la normativa anticorruzione, conosciuta come legge Severino. Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale con sentenza definitiva, deve dare l’addio al seggio parlamentare e rinuncia, prima che gli venga tolto, al titolo di cavaliere. Il Paese ha finalmente imboccato la strada giusta. Forse. O forse no, forse non ancora. Scrive la Commissione europea, nella relazione sulla lotta alla corruzione (allegato sull’Italia):

    La nuova legge […] non modifica la disciplina della prescrizione, la normativa penale sul falso in bilancio e sull’autoriciclaggio e non introduce fattispecie di reato per il voto di scambio³. Il nuovo testo frammenta inoltre le disposizioni di diritto penale sulla concussione e la corruzione, rischiando di dare adito ad ambiguità nella pratica e di limitare ulteriormente la discrezionalità dell’azione penale.

    Dunque poco è stato fatto per un Paese in cui, secondo Eurobarometro del 2013 sulla corruzione, il 97 per cento dei cittadini intervistati considera il fenomeno dilagante (contro una media UE del 76 per cento) e il 42 per cento afferma di subire personalmente la corruzione nel quotidiano (contro una media UE del 26 per cento). Per l’88 per cento, corruzione e raccomandazioni sono spesso il modo più semplice per accedere a determinati servizi pubblici (contro una media UE del 73 per cento). La mancanza di fiducia nelle istituzioni pubbliche risulta molto diffusa. Secondo i dati raccolti dal sondaggio, le figure pubbliche verso le quali vi è maggior sfiducia sono i partiti politici, i politici nazionali, regionali e locali e i funzionari responsabili dell’aggiudicazione degli appalti pubblici e del rilascio delle licenze edilizie.

    Siamo alle solite, dirà qualcuno: Bruxelles detta i compiti a casa. Ma perché non chiedersi prima se quei compiti vadano fatti e, in caso di risposta affermativa, perché non siano stati fatti. Il verdetto europeo è del febbraio 2014, un anno dopo non molto è cambiato sui temi caldi indicati nella relazione. «Ce lo chiede l’Europa» è diventato un mantra quando si tratta di giustificare i tagli lineari alla spesa sociale, l’innalzamento dell’età pensionabile o la nuova legislazione sul lavoro che taglia diritti acquisiti come quello di non essere licenziati senza giusta causa. Ma quando si tratta di corruzione, le richieste europee non trovano molti paladini. A farlo notare è Roberto Scarpinato, già PM del pool di Falcone e Borsellino, oggi procuratore generale di Palermo. «È stata necessaria la minaccia di sanzioni europee perché venisse finalmente emanata una riforma dei reati contro la pubblica amministrazione», dice all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Eppure la riforma zoppica, per esempio sul reato di concussione (commesso dal pubblico ufficiale che pretende denaro o altre utilità per compiere atti del proprio ufficio), dove – sono sempre parole di Scarpinato – viene criminalizzato il concusso (rischia fino a tre anni) che denuncia il concussore⁴. Un po’ come dare uno scappellotto a chi è stato malmenato e per questo si è rivolto ai carabinieri: la prossima volta stia più attento o prenda lezioni di pugilato. Ma è sulla prescrizione, che cancella i reati dopo un certo numero di anni dalla loro consumazione, che non si riesce a fare passi avanti. La legge Severino prevede che le lancette si fermino per due anni dopo la sentenza di primo grado, quando – è sempre Scarpinato a sottolinearlo – nella maggior parte dei casi la mannaia cala sui procedimenti prima che arrivino in aula. È come se qualcuno promettesse solennemente l’impunità a una buona percentuale di imputati.

    In Italia, si legge nella relazione di Bruxelles, i processi estinti per prescrizione sono stati l’11,7 per cento nel 2007 e il 10,16 per cento nel 2008, mentre la media europea nello stesso periodo va dallo 0,1 al 2 per cento. Il guaio dell’Italia, segnala ancora la Commissione europea, è che la risposta alla corruzione è solo di tipo repressivo: poco o nulla si fa cioè per prevenirla. Per esempio, non ci si decide a fare una legge sul lobbismo. Le lobbies esistono quasi ovunque, il loro scopo è quello di fare pressioni perché le leggi favoriscano, o almeno non danneggino, industrie o assicurazioni, gruppi finanziari o associazioni di volontariato. Niente di necessariamente illegale, purché ci siano norme che regolamentino questo e altri settori di attività. In Italia, però, non esiste un albo coi nomi di chi esercita questa professione, e il lobbista non è tenuto a segnalare i contatti con pubblici ufficiali. E così diventa più difficile distinguere il lobbista buono da quello che paga le tangenti. Domina il grigio e tocca sempre alla magistratura accertare se il colore si sia stemperato in bianco oppure abbia acquisito la tonalità scura delle turbative d’asta, delle mazzette, della politica che si piega alle esigenze di questo o quel gruppo. È sempre l’Unione europea a sottolinearlo: «Negli ultimi vent’anni la strategia di lotta alla corruzione in Italia ha fatto leva in buona parte sull’aspetto repressivo». L’aspetto paradossale di questa situazione è che, sempre più spesso, i giudici sbattuti in prima linea (e lì abbandonati) sono stati accusati di cercare la visibilità anziché la verità. Accuse poco argomentate, tesi difficilmente suscettibili di confutazioni perché troppo generiche. Al netto di singoli casi, sempre possibili, è come se nel 1943 lo Stato Maggiore, datosi a indecorosa fuga, avesse accusato i militari che resistettero e caddero a Porta San Paolo di essere degli esibizionisti.

    Cosa è quindi cambiato dal 1992 al 2015, da Mani pulite a oggi? Molto è rimasto com’era. Perché sia accaduto non è un mistero. Tra i molti segreti sopravvissuti alla vecchia Tangentopoli, non ci sono sicuramente le scelte fatte dalla politica. Il cammino della normativa anticorruzione, per esempio, è stato uno dei più accidentati. E dire che si era partiti bene. Il programma dell’Ulivo, alla tesi numero 20, testualmente recitava: «Bisogna intervenire con urgenza e priorità nella disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione». Era il 1996 e Romano Prodi aveva conquistato l’Italia girandola in pullman. Aveva di fatto recepito la proposta dei giudici di Mani pulite per rompere omertà e connivenze e si leggeva:

    A proposito dell’abuso d’ufficio, bisogna distinguere tra semplice illecito amministrativo e l’abuso penalmente rilevante; inoltre bisogna distinguere tra corruzione e concussione, introducendo la concussione ambientale, riconducendo la concussione alla tipologia dell’estorsione e promuovendo incentivi per rompere il patto criminoso tra privato e pubblico ufficiale nella corruzione.

    Quando si provò a tradurre il programma in leggi, tuttavia, arrivarono le accuse di stalinismo di ritorno e, nonostante la vittoria di Prodi, furono di tutt’altro segno gli argomenti portati al centro del dibattito pubblico da politici come l’avvocato Cesare Previti, futuro ministro del governo Berlusconi, condannato con sentenza definitiva nei processi IMI-SIR e Lodo Mondadori, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Emblematico fu il caso dell’articolo 513 del codice di procedura penale, che regola l’utilizzazione nel dibattimento delle dichiarazioni raccolte dal PM. Passò la norma secondo cui, se l’imputato in procedimento connesso non si sottopone, in fase di giudizio, all’esame delle persone che accusa, le sue parole evaporano dal procedimento. L’effetto, ovviamente negativo, sui processi di Tangentopoli si fece sentire immediatamente. A oltre cinque lustri di distanza da Tangentopoli, questo è il bilancio di Giovanni Maria Flick, che fu guardasigilli nel primo governo Prodi ed è stato vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura:

    Negli oltre venti anni passati da Mani pulite e dalle stragi di Capaci e via D’Amelio c’è stata una buffa situazione. Con estrema fatica abbiamo cominciato a capire che non si può convivere né con la criminalità organizzata né con la corruzione ma non si è messo bene a fuoco che non si può convivere neppure con la criminalità economica. Il che è assurdo perché l’esperienza insegna che proprio Mafia city, Tangentopoli e Nerolandia sono i vertici di un triangolo delle Bermude dell’illegalità.

    Certo, qualcosa è cambiato, ma non necessariamente in meglio. Sempre secondo Flick, infatti:

    Fino a Mani pulite si rubava soprattutto per fare politica. Oggi è il contrario, molti fanno politica per trovare occasione di rubare. Nel 1993 Guido Carli aveva previsto che la situazione già drogata potesse deflagrare. Credeva che il Trattato di Maastricht fosse l’unica speranza di controllo su una finanza pubblica allegra e protesa al consenso. Non poteva immaginare che dopo Tangentopoli la corruzione sarebbe tornata a esplodere come leggiamo tutti i giorni sui giornali⁵.

    E ancora, la mazzetta ha lasciato il posto a formule corruttive più raffinate, come le consulenze, le progressioni in carriera di soggetti compiacenti nella pubblica amministrazione. Molto è cambiato, ma troppo è rimasto tragicamente uguale. Dunque bisogna andare a vedere cosa è successo, occorre entrare nel triangolo delle Bermude descritto da Flick, confrontando passato e presente di Tangentopoli. Immergersi nei flussi finanziari dove, come si vedrà, potrebbe nascondersi il carburante delle mafie. Per capire che un’Authority anticorruzione, sicuramente indispensabile, non può fare molto senza la forza di leggi adeguate. Sempre che non si voglia tornare bambini e credere alle favole⁶. Per capire meglio, andiamo a un nodo cruciale della storia che stiamo per raccontare.

    Note

    1 Cfr. Renzi, squallido e schifoso chi prende mazzette, «Ansa», 14 gennaio 2015.

    2 http://www.lettera43.it/politica/corruzione-renzi-schifoso-chi-prende-mazzette_43675154246.htm.

    3 Sul voto di scambio sono recentemente state disposte norme che recepiscono i suggerimenti di Bruxelles.

    4 Una delle critiche più severe alla legge Severino riguarda il reato di concussione, suddiviso in due distinte fattispecie: la concussione attraverso minaccia o violenza e quella per induzione. In questo secondo caso, il fatto non costituisce reato se al concusso sia stato prospettato un vantaggio personale. La prima conseguenza è che anche il concusso diventa punibile. La seconda, direttamente legata alla prima, è che nei casi in cui sia difficile dimostrare violenze o minacce esplicite, il concusso si guarderà bene dall’aprire la bocca davanti a un giudice. Ha dichiarato il giudice Piercamillo Davigo: «Avevamo un numero variegato di fattispecie: concussione, corruzione, corruzione propria e impropria, antecedente e susseguente… L’esigenza era proprio quella di semplificare accorpando le fattispecie. Tra l’altro l’OCSE ci aveva chiesto di eliminare la situazione che si era venuta a creare con la concussione per induzione per cui alla fine non si riusciva mai a capire se chi pagava era un corruttore o un concusso. Questi problemi non sono stati risolti perché le fattispecie sono addirittura aumentate. La conseguenza è che ci saranno molte situazioni problematiche che potrebbero anche portare a dichiarazioni di incostituzionalità». Cfr. affaritaliani.it, 30 ottobre 2013.

    5 Intervista di Denise Pardo a Giovanni Maria Flick, «l’Espresso», 5 dicembre 2014.

    6 Al momento di andare in stampa con il presente volume il guardasigilli Andrea Orlando stava provando, tra l’altro, a sbloccare la normativa sul falso in bilancio, per rendere il reato perseguibile d’ufficio, ma come da più parti è stato osservato, non era ancora disponibile il testo della proposta. L’iniziativa del ministro incontrava molte resistenze anche sulla norma che renderebbe possibile l’utilizzo di agenti provocatori per stanare i corruttori.

    Capitolo 1

    Com’è finita? Non è finita

    Dicembre 2014

    Quando e come è finita Tangentopoli? Questione complessa, a cui i più prudenti di solito rispondono con un’altra domanda: siamo sicuri che sia finita? Dice Raffaele Cantone, magistrato di lungo corso e commissario anticorruzione nominato in fretta e furia all’indomani del caso Expo:

    Dopo Tangentopoli non si sono messi in campo meccanismi per arginare il fenomeno, anzi […]. Si è provato a spostare il problema, a impedire il controllo giudiziario senza introdurre nel sistema alcuna ipotesi di controllo preventivo. Abbiamo dovuto attendere la legge Severino del 2012 per introdurre, per la prima volta, uno strumento di prevenzione alla corruzione, molto poco perfetto, che l’Italia avrebbe dovuto avere fin dal 1999¹.

    Finanziamento illecito, corruzione, tempi di prescrizione: sono tre dei nodi che, lungi dall’essere sciolti, in questi vent’anni si sono incattiviti. Cantone ha perfettamente ragione, soprattutto se si considera che tra il 1942 e il 1986 vi furono circa 35 provvedimenti di amnistia (che estingue il reato) e di indulto (che estingue la pena). Nel 1990, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale vi fu un’altra amnistia, nel 2006 un nuovo provvedimento d’indulto, argomento riproposto anche in anni molto più recenti².

    E si arriva così, in un’altalena di speranze di riscatto e cocenti delusioni, al primo pomeriggio del 24 dicembre 2014, con il consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi, impegnato a discutere i decreti attuativi della delega fiscale. Renzi rappresenta, secondo molti, la possibilità di una svolta verso una maggiore trasparenza. Dopo gli arresti scattati con l’inchiesta sull’Expo, l’attuale premier ha avvertito: «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati. La politica non metta becco, i politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura»³. Poi istituisce l’Authority anticorruzione fondendola con quella che vigila su appalti e lavori pubblici e affidandone la direzione a un magistrato come Raffaele Cantone, formatosi con le indagini sulla camorra dei casalesi, condotte sulle lande avvelenate che oggi conosciamo come Terra dei fuochi. Cantone è uno dei magistrati antimafia che hanno messo a frutto la lezione di Giovanni Falcone: non limitarsi a colpire solo l’apparato militare delle cosche, ma scoperchiare i canali finanziari che ne garantiscono la forza. Forse è per questo che la scelta di Renzi sembra tra le più appropriate. Cantone è abituato a indagare nella zona grigia in cui la mafia imprenditrice ha imparato a usare la corruzione, come sembra dimostrare clamorosamente l’inchiesta su Mafia Capitale. È sicuramente l’uomo giusto al posto giusto, e ama ripetere che la lotta al malaffare che punti solo sulla repressione non può fare molta strada. Occorre la prevenzione, che però deve essere accompagnata da leggi adeguate. Insomma, la gramigna della corruzione continuerà a crescere se il terreno viene innaffiato coi fertilizzanti di un’evasione fiscale che è la più alta in Europa e di una vocazione nazionale al falso in bilancio che è valsa all’Italia il nomignolo di Nerolandia⁴. Da questo punto di vista, la legge delega sul fisco è un importante banco di prova per il governo di Matteo Renzi, non ancora quarantenne leader del Partito democratico.

    Quello che accade alla vigilia di Natale del 2014 è come minimo una battuta d’arresto per la politica inaugurata nel maggio dello stesso anno. Sono le 15:30, a palazzo Chigi, i ministri stanno per licenziare i decreti attuativi della legge delega sul fisco e per scambiarsi gli auguri quando Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio percorre il perimetro del tavolo e ritira le cartelline. «Ci sono state tante modifiche», spiega,

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