Il malinteso della vittima: Una lettura femminista della cultura punitiva
Di Tamar Pitch
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Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano «movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?».
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Anteprima del libro
Il malinteso della vittima - Tamar Pitch
Il libro
Il termine «sicurezza» si è spogliato, ormai da parecchi anni, delle caratteristiche sociali cui era legato (lavoro, salute, diritti): oggi ci si sente al sicuro con condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare «vittime» di comportamenti dannosi. Da qui l’assunto che tutte e tutti siamo vittime potenziali; quindi fenomeni sociali complessi vengono governati con il codice penale e, di fatto, si criminalizza la povertà, la marginalità sociale, l’immigrazione.
Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano «movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?».
L’autrice
Tamar Pitch, già docente di filosofia del diritto e di sociologia del diritto nell’Università di Perugia, ha insegnato in Usa, Canada, Messico, Argentina, Marocco, Cile. Dirige la rivista Studi sulla questione criminale ed è componente dei comitati editoriali di varie riviste italiane e straniere. Studia da sempre la questione criminale, i diritti fondamentali, il genere del e nel diritto. Tra le sue opere: La società della prevenzione (Carocci, 2006) e Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza (Laterza, 2013).
Indice
Premessa
I. Lo scenario
II. Siamo tutti vittime?
III. La criminalizzazione della marginalità sociale
IV. L’uso politico del potenziale simbolico del penale
V. La criminalizzazione del dissenso sociale e politico
VI. Legalità e giustizia
Bibliografia
Premessa
Legalità e onestà sono state e ancora sono le parole d’ordine di molte forze politiche negli ultimi anni. Insieme hanno contribuito a costruire un senso comune, diciamo così giustizialista, o meglio forcaiolo, secondo cui chiunque sia sospettato di violare qualche legge, magari a fin di bene, per esempio quando la legge violata viene ritenuta ingiusta (vedi più avanti il cosiddetto reato di solidarietà), deve marcire in galera.
Negli ultimi trent’anni o giù di lì la giustizia penale è invocata come la soluzione per tutti i problemi sociali e politici: assistiamo insomma a una depoliticizzazione accompagnata a una criminalizzazione di problemi, fenomeni, conflitti sempre più estesa. Per criminalizzazione non intendo riferirmi soltanto all’intervento della giustizia penale. L’incremento di sanzioni amministrative, per esempio a seguito di ordinanze dei sindaci, può e deve infatti essere letto come una modalità di criminalizzazione.
In un clima di questo tipo, succede che anche movimenti collettivi nati per ampliare la dotazione di diritti di ciascuna e ciascuno, per combattere discriminazioni e disuguaglianze, assumano lo statuto di «vittime» e finiscano per condividere la retorica punitivista dominante.
In questo breve testo mi propongo di esporre, analizzare, interrogare una serie di processi e fenomeni che, a mio parere, sono esemplari di questa deriva punitivista, del resto non solo italiana.
Una premessa: la giustizia penale, in Italia come altrove, è una giustizia selettiva. Non è vero che siamo tutti uguali di fronte alla legge. Non lo siamo a cominciare dal tipo di azioni e comportamenti che sono definiti reati. Nell’universo delle azioni e dei comportamenti che riconosciamo come dannosi per i diritti, per gli interessi, il benessere di tutti, o di molti, solo alcuni sono definiti reati, e non sempre sono quelli più dannosi. E poi, nell’universo di coloro che commettono reati, solo alcuni sono selezionati come criminali, meno ancora sono quelli che finiscono in carcere. Chiamiamo criminalizzazione primaria il processo attraverso cui certe azioni e comportamenti vengono definiti reati. Chiamiamo criminalizzazione secondaria i vari processi attraverso cui si attribuisce lo statuto di criminale a qualcuno. Insomma, le persone che finiscono in carcere sono il prodotto di una doppia selezione. E da quando il carcere esiste, ossia da quando è diventata la principale pena moderna, i detenuti (e le detenute) sono sempre gli stessi: appartenenti perlopiù agli strati più bassi della popolazione, condannati perlopiù per reati contro la proprietà, e, oggi, per illeciti connessi all’uso e allo spaccio di sostanze proibite. Ciò che, in Italia, è relativamente nuovo, ma in linea con gli altri Paesi europei, è il massiccio ingresso nelle nostre galere di persone di origine straniera. Possiamo dunque dire che la giustizia penale che conosciamo è classista e razzista. È anche sessista, ma non perché penalizzi più le donne degli uomini: al contrario, le donne sono una piccola percentuale della popolazione denunciata, condannata, detenuta. È sessista perché stenta a riconoscere e perseguire come reati le offese e le violenze perpetrate contro le donne, e si dimostra spesso di difficile accesso per le loro richieste e rivendicazioni.
Comincio questo testo il 30 settembre 2021, quando si apprende che il tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano a tredici anni (13) di galera e a settecentomila euro di multa. Per mafia? femminicidio? spaccio di stupefacenti? Mimmo Lucano è stato condannato per «associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio», pur non essendosi intascato un euro. È la condanna, oltre che di una persona, di un modello di accoglienza e integrazione dei migranti che ha fatto il giro del mondo, già smantellato dai decreti Salvini. Dunque, un tipico «reato di solidarietà». La legalità formale fa a pugni con la giustizia, in questo come in altri casi (anche se, qui, la mano della magistratura è stata pesantissima: perfino la procura aveva chiesto metà degli anni di galera comminati!). Come siamo arrivati a questo punto?
I. Lo scenario
Chi, come me, ha vissuto parte dei cosiddetti gloriosi trenta (1945-1975), può aver registrato con sorpresa e un certo sgomento lo slittamento di significato del lemma «sicurezza». Nel discorso pubblico, in Italia ma non solo, con sicurezza si intendeva perlopiù, almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso, sicurezza sociale, ossia la titolarità e l’effettivo godimento di garanzie rispetto alla salute, alla vecchiaia, al lavoro, alla casa, e così via, assicurate in via di principio attraverso l’erogazione di risorse e servizi verso tutti e pagate da tutti con le tasse e le imposte. Il famoso compromesso keynesiano si basava in primo luogo sulla sicurezza del posto di lavoro: i lavori subordinati erano per la vita, se ne usciva con la pensione e magari un orologio di (simil)oro. Ho ritrovato una vecchia canzone di Donovan (1965), intitolata proprio Gold Watch Blues, in cui un tipo si presenta per un colloquio di lavoro e il padrone gli chiede quanti lavori ha avuto finora. Quattro, gli dice il tipo. Al padrone viene un mezzo infarto, e gli risponde sdegnato: quattro lavori in vent’anni?! Questo è impossibile, noi prendiamo solo uomini che lavorano fino a che muoiono! O piuttosto, dico io, finché non sono abbastanza vecchi da andare in pensione.
Per quanto dura, costrittiva e noiosa potesse essere una simile situazione, essa permetteva a molte persone di progettare il futuro (e ad altre di aspirare al posto fisso per poterlo fare) con una certa tranquillità, insomma di sentirsi al sicuro (safe, da cui safety nella versione di Zygmunt Bauman)¹. In un bel libro, Richard Sennett² analizza e riflette su che cosa succede quando questo scenario viene meno: precarietà lavorativa vuol dire ansia, incertezza, insicurezza, nuove paure, disorientamento.
In Italia, paradossalmente, gli anni Settanta – quelli troppo spesso chiamati soltanto anni di piombo – vedono la nascita di un vero e proprio welfare, grazie soprattutto alla riforma sanitaria. Sono anche gli anni dello Statuto dei lavoratori, della riforma del diritto di famiglia, dell’introduzione del divorzio, della legalizzazione dell’aborto volontario, della riforma psichiatrica e di quella penitenziaria. Mentre in Francia e nel Regno Unito, oltre che a livello dell’Unione Europea, si comincia a declinare la «sicurezza» come immunità personale rispetto al rischio di essere vittima di reati e inciviltà già all’inizio degli anni Ottanta, da noi questo avviene soltanto agli inizi degli anni Novanta. Ci sono due cose piuttosto singolari da notare a questo proposito: la prima è che, come nel Regno Unito, anche in Italia la «questione sicurezza» viene inizialmente