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La vita segreta del genio: L'irruzione dello spirito nella vita di ventiquattro personaggi famosi
La vita segreta del genio: L'irruzione dello spirito nella vita di ventiquattro personaggi famosi
La vita segreta del genio: L'irruzione dello spirito nella vita di ventiquattro personaggi famosi
E-book400 pagine5 ore

La vita segreta del genio: L'irruzione dello spirito nella vita di ventiquattro personaggi famosi

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Info su questo ebook

John Chambers ci mostra in questo suo libro che essere geniali non significa tanto possedere un’intelligenza fuori dal comune, quanto essere aperti all’immensa saggezza che si cela nel mondo interiore di ogni individuo. Esaminando le vite di ventiquattro famosi personaggi, egli ha scoperto che in tutti loro vi era un inconfondibile elemento in comune: una vita spirituale particolarmente vivace.

Mentre questo non sorprende nel caso di William Blake, Madame Blavatsky e W.B. Yeats, i cui interessi esoterici sono ben noti, desta invece un certo stupore in quello di Isaac Newton, Winston Churchill, Leone Tolstoi e dei tanti altri i cui incontri con il mondo dello spirito sono molto meno conosciuti.

La scoperta più confortante che la lettura di queste biografie spirituali ci consente di fare è forse che il genio non è appannaggio di pochi individui particolarmente dotati, ma una potenzialità che tutti possono imparare a sviluppare e ad esprimere. In tutti noi esiste la scintilla del genio e nostra è la responsabilità di fare in modo che divampi e si trasformi in un fuoco da mettere a disposizione dell’umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2016
ISBN9788871834177
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    Anteprima del libro

    La vita segreta del genio - John Chambers

    INTRODUZIONE

    L’altro universo di Praga

    Esiste un’altra realtà oltre a quella in cui ordinariamente viviamo?

    Ci sono momenti in cui la storia giunge a un bivio, imponendoci di scegliere tra strade diverse? Se esistono squarci nel continuum spazio-temporale, uno si produsse il pomeriggio dell’8 novembre 1620 su un versante della Montagna Bianca, una collina alle porte di Praga, a quel tempo capitale del regno di Boemia e oggi della Repubblica Ceca.

    In poco più di un’ora i ventinovemila soldati dell’esercito dell’altezzoso Ferdinando II, imperatore del Sacro Romano Impero, annientarono i ventunomila uomini del brillante Federico V, re di Boemia.

    La battaglia della Montagna Bianca segnò l’inizio della Guerra dei trent’anni, in cui gli eserciti cattolici del Sud dell’Europa si scontrarono con gli eserciti protestanti del Nord. La guerra si concluse nel 1648 con il trattato di Westfalia, che garantì la sopravvivenza del protestantesimo.

    La battaglia della Montagna Bianca avvenne in un periodo in cui un nuovo modo di concepire la realtà percorreva il continente europeo spingendosi fino al Nuovo Mondo. Questa visione dell’universo, contrapposta al paradigma scientifico di Sir Isaac Newton, allora nascente, era un sistema per interpretare e influire sulla realtà fondato sulla magia e sull’occultismo, sistema seguito da migliaia di persone nei laboratori, nelle biblioteche, negli scantinati e in luoghi di incontro segreti della rumorosa e maleodorante, ma luminosa, città di Praga.

    Se Federico V avesse vinto quella battaglia, forse avrebbe prevalso il sistema di pensiero in gestazione nella sua capitale, o se l’esercito dell’imperatore Ferdinando II si fosse dato alla fuga, forse oggi vivremmo in un mondo diverso.

    Agli inizi del XVII secolo, Praga era una città che ribolliva di strane eccitazioni. Vi si praticava ogni tipo di arte innovativa protoscientifica, esoterica, ermetica, cabalistica, alchemica e astrologica. Dai tenebrosi scantinati ai saloni illuminati a festa, queste arti arcane si perfezionavano in quella capitale dell’occulto creando complesse sinergie magiche difficili oggi da immaginare. Nel labirinto di stradine fiancheggiate da vecchie abitazioni di legno e fango del quartiere ebraico, i rabbini si dedicavano allo studio della Cabbala senza timore di persecuzioni. Nelle piazze affollate si elevavano le bianche e spoglie chiese hussite erette in tributo a Jan Hus (1370-1415), l’appassionato predicatore pre-riforma che denunciò la ricchezza e la corruzione della Chiesa cattolica romana gettando il seme del Protestantesimo europeo un secolo prima di Lutero. La sua attività riformatrice lo portò a morire sul rogo.

    Il cupo, solitario ma avido imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II (imperatore dal 1576 al 1612) aveva trasferito la capitale imperiale a Praga e, nella sua ossessione per la ricerca della pietra filosofale, vi aveva radunato i più famosi alchimisti d’Europa. Nel solitario palazzo imperiale in cima a una collina sovrastante il corso serpeggiante della Vltava, in grandi stanze delle meraviglie ronzavano e ticchettavano le creazioni più sbalorditive di quell’epoca: automi che si muovevano e cantavano, una statua di Memnone che gemeva al sorgere del sole e un demone in provetta, l’homunculus, un essere vivente artificiale creato dentro un vaso di vetro ermeticamente sigillato. Praga era anche la città di nascita del golem, una variante ebraica della creatura del dottor Frankenstein. La fama di essere la mecca delle arti magiche vi attirava le menti più ingegnose del tempo: sacerdoti eretici e scienziati come Giordano Bruno e Tommaso Campanella, maghi e matematici come John Dee e Edward Kelly, astronomi rivoluzionari come Keplero e Tycho Brahe, e molti, molti altri.

    Alcuni di questi audaci pensatori (è impossibile sapere quali) facevano parte di una misteriosa confraternita il cui nome cambiava passando da una bocca all’altra. Gli Illuminati? I Rosacroce? Comunque si definissero, questi pensatori, studiosi e scienziati che, pur vivendo nella capitale, si tenevano lontani dagli sguardi, produssero opere come l’Utopia di Tommaso Moro, che ne rappresenta l’esempio più noto, ipotizzando una società ideale, libera da dispotismi e teocrazie in cui tutti avevano uguali diritti, e percorsa da occulti collegamenti con dimensioni più elevate: una società che conteneva la promessa di una totale trasformazione dell’umanità.

    Federico V, re di Boemia e della città di Praga ai tempi della battaglia della Montagna Bianca, reggeva anche una piccola regione della Germania meridionale sulle rive del fiume Neckar, il Palatinato. Capitale era la favolosa città di Heidelberg. Fu qui che Federico condusse, nel marzo del 1613, la sua nuova sposa, Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I d’Inghilterra.

    Proprio Elisabetta avrebbe potuto cambiare le sorti della battaglia della Montagna Bianca. Suo padre Giacomo I l’aveva data in moglie a Federico con una sfarzosa cerimonia a Londra nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio 1613, con l’intenzione di stipulare un’alleanza tra l’Inghilterra anglicana e anti-cattolica e i principati tedeschi luterani altrettanto anti-cattolici.

    Questa alleanza segnalava un radicale distacco del re d’Inghilterra dai governanti asburgici del Sacro Romano Impero, che temevano che il regno congiunto di Federico e di Elisabetta sul Palatinato potesse diventare una testa di ponte per l’avanzata, forse anche militare, del protestantesimo nell’Europa cattolica.

    Probabilmente, questo era effettivamente il progetto di Federico V quando, verso la fine del 1619, gli venne offerto il trono di Boemia dagli aristocratici praghesi che avevano scacciato Ferdinando II. Affascinato dall’alone magico e occultista della città (aveva fatto collocare un automa nei giardini del castello di Heidelberg), Federico si trasferì a Praga con la moglie Elisabetta, il figlio e un ricco corteo per salire sul trono boemo.

    Ma i sudditi di Federico e di Giacomo I, e gran parte dell’Europa del Nord, si sbagliavano riguardo alle intenzioni del monarca inglese che, sempre più gravato dall’età e dalle responsabilità del suo regno, temeva uno scontro aperto con gli Asburgo. Infatti aveva segretamente cercato di equilibrare le nozze di Elisabetta e Federico con un altro matrimonio, quello tra suo figlio Carlo e una principessa del Sacro Romano Impero. Questo suo disegno non poté realizzarsi e la volontà Giacomo I di scontrarsi con gli Asburgo si indebolì sempre di più.

    Quando, nel 1620, l’esercito di Ferdinando II marciò su Praga contro Federico V, Giacomo I non inviò nessun soccorso militare al genero. Se l’avesse fatto, forse l’equilibrio delle forze si sarebbe capovolto e forse anche le monarchie protestanti di Svezia e Danimarca si sarebbero schierate con Federico V di Boemia nella decisiva battaglia alle porte di Praga.

    Frances Yates, studioso del Rinascimento, scrive nel suo L’Illuminismo dei Rosa-Croce: "La verità, probabilmente, è che la colpa più grave di Federico fu di fallire. Se egli fosse riuscito a insediarsi in Boemia, tutti quelli che esitavano, compreso suo suocero, avrebbero probabilmente deciso di parteggiare per lui".(¹)

    Ma Federico non si era fatto molti alleati durante l’anno in cui aveva occupato il trono di Boemia. Con la battaglia della Montagna Bianca, Praga cadde e assieme alla sua caduta subì un colpo mortale anche una visione dell’universo magica e occulta, che avrebbe altrimenti potuto diffondersi, viaggiando verso occidente, in tutta l’Europa.

    Un altro fatto suggerisce che l’8 novembre 1620 l’Europa si trovò a un bivio che avrebbe potuto spingerla in una direzione completamente diversa: per uno dei capricci della storia, tra le forze imperiali impegnate nella battaglia della Montagna Bianca combatté come semplice fante un uomo destinato a diventare uno dei pensatori più importanti della sua epoca. Se l’esercito boemo avesse vinto, probabilmente quel soldato francese di ventiquattro anni sarebbe morto. Il suo nome era René Descartes. Nato nel 1596 e morto nel 1650, era quello stesso Descartes che diede al mondo la formula Cogito ergo sum, Penso dunque sono, aprendo la strada al paradigma scientifico dell’Occidente. La sua visione scientifica rifiutava con decisione la cosmologia della Chiesa di Roma e allo stesso modo il mondo della magia e dell’occulto. La cosmologia magica affermava che ogni particella di materia dell’universo è infusa di spirito, mentre per Descartes l’universo era diviso in mente e materia, totalmente separate fra loro. La materia/corpo agisce in base a leggi esclusivamente meccaniche, benché estremamente complesse.

    Profondamente influenzato dal pensiero di Descartes fu Isaac Newton (1642-1727): la descrizione filosofico-matematica dell’universo del francese cancellò qualunque inclinazione potesse avere lo scienziato inglese per il pensiero magico-occulto (da cui per altri aspetti era affascinato). A Newton si deve il paradigma della realtà fisica in auge ancora ai nostri giorni e, pur essendosi allontanato dalla concezione di Descartes, l’influsso di quest’ultimo sul suo pensiero fu determinante.

    Probabilmente il geniale Newton avrebbe creato il suo paradigma anche se Federico V avesse vinto e Descartes fosse morto in battaglia, e avrebbe sviluppato le sue equazioni fisico-matematiche anche se il pensiero magico si fosse diffuso in tutta Europa. Ma se non fosse andata così, in che mondo vivremmo oggi?

    Sarebbe un mondo senza la tecnologia come noi la conosciamo. Nel pensiero magico lo spirito (che veniva chiamato anche spirito santo perché considerato intrinseco a qualunque dimensione morale e religiosa) coesiste con ogni atomo della creazione materiale. Quella forma di pensiero avrebbe, perciò, sviluppato una tecnologia che avrebbe trattato qualunque manifestazione della materia, da una foglia a una foresta a un asteroide, con rispetto e amore, come espressioni dell’Amato. Al contrario la nostra tecnologia, sviluppatasi dal paradigma newtoniano, è una bestia brutale che non rispetta né la natura né il suo elemento pensante, l’uomo. Verso la fine della sua vita, Newton e i suoi colleghi scienziati siglarono un tacito accordo con la Chiesa, in base al quale l’universo sarebbe stato diviso in due sfere di influenza: la scienza si sarebbe occupata dell’universo materiale e la Chiesa di quello spirituale, senza che nessuna delle due invadesse il territorio dell’altra. In questo modo il pensiero magico-occulto, con la sua dimensione etico-religiosa, venne espulso dalla scienza attraverso sottili manovre di cui al termine della vita Newton si dolse profondamente.

    Il predominio dell’approccio newtoniano all’universo ha cancellato completamente la visione magico-occulta?

    La risposta è no. C’erano delle verità nella visione del mondo degli occultisti praghesi e una verità si regge sulle proprie gambe: non ha bisogno di essere creduta per esistere. Infatti, da sempre l’universo magico-occulto ha fatto qua e là irruzione nella vita di pensatori, scienziati e persone comuni, a volte per pochi istanti. È apparso come un sogno all’interno della veglia, ha solcato il cielo notturno dei visionari come una cometa, si è rivelato nelle sedute medianiche (canalizzazioni) che hanno fatto riflettere anche le persone più scettiche.

    Nelle sue stesse parole, Benvenuto Cellini fu salvato da un tentativo di suicidio in un carcere romano da un intervento sovramondano. Giordano Bruno cercava un collegamento con il pensiero magico dell’antico Egitto per creare un nuovo mondo moderno. Visioni di molteplici aldilà, simili a quelle degli Illuminati praghesi, invasero la coscienza del mistico e scienziato svedese Emanuel Swedenborg con tanta forza da indurlo a scrivere numerosi libri per descrivere quegli universi. Anche il grande scrittore Lev Tolstoj, dopo avere preso le distanze dallo spiritismo, che condanna nell’opera teatrale I frutti dell’istruzione, non poté evitare in uno dei suoi capolavori, Anna Karenina, di testimoniare l’esistenza di altre dimensioni. Il grande romanziere francese Honoré de Balzac scrisse settantaquattro romanzi in ventinove anni attingendo, o così lascia intendere, all’energia del mondo interiore descritto da Swedenborg, e almeno tre di questi romanzi sviluppano le intuizioni del mistico svedese.

    Le visioni dei poeti sono sguardi gettati sul mondo magico-occulto. William Blake nell’Inghilterra del XVIII secolo, Victor Hugo nella Francia del XIX e James Merrill nell’America del XX hanno tutti canalizzato, in modi sorprendentemente simili, questi universi nascosti. Anche il poeta irlandese William Butler Yeats seguì, mediante la scrittura automatica, una strada sostanzialmente identica. Le opere di tutti questi poeti descrivono un universo materiale in cui tutto, dalle pietre agli angeli, è vivificato dallo Spirito. Molti altri scrittori, tra cui nomi che non ci aspetteremmo, hanno sperimentato, per brevi attimi o per la loro intera esistenza, lampi di luce dall’universo mai spento della magia e dell’occulto, a cui non abbiamo mai smesso di anelare perché la nostra anima non ha mai smesso di soffrire per la sua assenza: Mary Shelley, Carl Jung, Harry Houdini, Thomas Mann, Helena Blavatsky, Sri Yashoda, e persino Sir Winston Churchill e Norman Mailer, ne hanno sperimentato momenti di vibrante presenza.

    Le loro storie, e quelle di molti altri, sono narrate nelle pagine che seguono.

    TOMMASO D’AQUINO

    (1225-1274)

    La Summa Theologica come semplice paglia

    Solo il sacrestano accanto a lui poté udire quelle parole, pronunciate a voce bassissima – il sacrestano e il frate tarchiato, calvo e dal volto sanguigno, inginocchiato davanti al crocifisso da cui sembravano provenire.

    Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?.

    Tommaso d’Aquino, il più grande teologo medievale della cristianità, rispose: Nient’altro che te, o Signore.

    Era il 6 dicembre 1273. Probabilmente le altre persone presenti nella chiesa di San Nicola, a Napoli, davanti alle quali Tommaso aveva appena celebrato la messa, non le avevano udite mentre guardavano con immenso rispetto il famoso teologo, da poco arrivato dall’università di Parigi, rimanere inginocchiato a lungo in silenzio, immerso in profonda contemplazione. Poi il grande maestro si rialzò lentamente e camminando ad occhi socchiusi, come in trance, uscì dalla chiesa.¹

    Frate Tommaso era già stato visto entrare in stati di coscienza non ordinari. Di recente aveva rivelato al suo socius, cioè segretario e collaboratore, Reginaldo da Piperno, di avere parlato con Cristo e con gli apostoli. Scrive padre James Weisheipl, studioso cattolico, nel suo Tommaso d’Aquino:

    Guglielmo di Tocco ed altri biografi riportano che Tommaso, scrivendo il commento ad Isaia, aveva trovato nel testo un punto particolarmente oscuro che lo aveva lasciato alquanto perplesso. Egli digiunò e pregò assiduamente, implorando di essere aiutato a comprendere il testo. Una notte, il suo socius Reginaldo lo sentì parlare, almeno così sembrava, con altre persone presenti nella stanza, ma non riuscì a capire quello che dicevano né riconobbe le altre voci. Poco dopo Tommaso lo chiamò: «Reginaldo, figlio mio, alzati e portami un lume e i commenti ad Isaia; desidero che tu scriva per me». Dopo aver dettato ininterrottamente per un’ora come se stesse leggendo da un libro, congedò Reginaldo e lo invitò a dormire per il poco tempo che restava prima dell’alba. Ma Reginaldo gli rispose che non si sarebbe allontanato finché Tommaso non gli avesse detto con chi stava parlando. Dopo essersi fatto molto pregare e dopo molte ritrosie, Tommaso confessò che gli apostoli Pietro e Paolo avevano parlato con lui, spiegandogli tutto ciò che voleva sapere. Dopodiché egli si accomiatò da Reginaldo dicendo come al solito: «Non raccontarlo mai a nessuno finché io sarò vivo».²

    Quando giunse a Napoli, nell’autunno del 1273 (morirà l’anno successivo, a quarantanove anni), doveva essere completamente esausto. Nato nel castello paterno nel Lazio, sin dai quattordici anni si era dedicato allo studio della teologia, di cui scrisse e che insegnò a partire dai vent’anni. Al suo attivo si contano un centinaio di opere: commenti alle Scritture, commenti alla patristica, sermoni, trattati filosofici, commenti su soggetti controversi, commenti ad Aristotele, Proclo e Boezio, e due summae. Al suo arrivo a Napoli aveva scritto un milione di parole della sua sterminata Summa Theologica (Somma del sapere teologico), che conteneva una perfetta sintesi della dottrina cristiana e della filosofia aristotelica, ed è usata ancora oggi come manuale per i predicatori. Ma Tommaso avrebbe lasciato incompleta questa sua opera, terminata poi da Reginaldo che vi aggiunse sezioni di altri suoi trattati.

    Trentacinque anni di appassionato lavoro avevano certamente prosciugato l’energia creativa di Tommaso fino all’ultima goccia. La visione ricevuta nella chiesa di San Nicola quel mattino di dicembre fu probabilmente l’ultima vampata di quell’energia creativa; dopo di che, non scrisse più nemmeno un rigo. Preoccupato per il rifiuto del maestro di mettere ancora mano alla penna, Reginaldo gliene chiese ansiosamente il motivo, strappandogli alla fine la riluttante confessione. Tommaso gli rivelò che, in quei momenti passati in immobile silenzio davanti al crocefisso, Dio l’aveva condotto in un viaggio stupefacente. Aveva visto e udito cose tanto prodigiose che non poteva più scrivere, perché, in paragone a quelle cose, tutto quello che ho scritto è come paglia per me. Poi Tommaso fece giurare a Reginaldo di mantenere il silenzio: Ti comando per il vivente Dio onnipotente, e per la fede nell’ordine nostro, e per spirito di carità, di promettermi che mai rivelerai fin tanto che io vivrò ciò che ti dico. Tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato.³

    Molti commentatori ritengono che Tommaso avesse subìto un crollo, fisico o psicologico. Weisheipl ipotizza che li abbia avuti entrambi, ma unitamente alla sua visione mistica. Qualunque sia la verità, dopo quella visione l’aquinate rimase in stato di semi-trance per alcuni giorni. Nei documenti del processo napoletano di canonizzazione, tenutosi nel 1313, leggiamo che alcuni giorni dopo Tommaso manifestò il desiderio di fare visita a sua sorella, la contessa Teodora di San Severino. Reginaldo, temendo che avesse perso il suo equilibrio mentale per il troppo studio, lo accompagnò. Probabilmente non era mai uscito dallo stato di trance, perché restò come stordito per tutti e tre i giorni trascorsi a San Severino. Interrogatolo di nuovo sul perché non volesse più scrivere e perché "era così stralunato (stupefactus), ricevette la stessa risposta: Tutto ciò che ho scritto è come paglia per me in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato".

    Durante l’inchiesta per la canonizzazione, Bernard Gui rilevò che non era infrequente che in quel periodo Tommaso entrasse in stati mistici e che quello avuto presso la contessa doveva essere durato più a lungo di tutti i precedenti, tanto che Reginaldo doveva interrogarlo molte volte e tirarlo con forza per la tunica prima che Tommaso rispondesse. Gui scrive inoltre che, sempre in quel periodo, Tommaso era insensibile al dolore. Una volta non sentì nulla durante una cauterizzazione a una gamba e un’altra, mentre dettava a Reginaldo un commento sul De trinitate di Boezio, la fiamma della candela gli bruciò le dita senza che se ne accorgesse.

    Tommaso morì a Fossanova il 7 marzo 1274, mentre si stava recando al concilio di Lione.

    L’uomo destinato a diventare il massimo teologo del Medioevo era nato a Roccasecca il 28 gennaio 1225. Tutti i suoi fratelli abbracciarono la carriera militare e delle sue sorelle solo una scelse la vita religiosa, diventando monaca e poi badessa. Per quanto riguardava Tommaso, la famiglia avrebbe voluto che seguisse le orme dello zio e diventasse abate dell’abbazia benedettina di Montecassino. Iniziati gli studi a cinque anni, li continuò a passi da gigante prima a Montecassino e poi alla nuova università fondata da Federico II a Napoli, sbalordendo i suoi insegnanti per l’acume intellettuale e la sete di conoscenza.

    Fondamentali nella sua formazione furono due domenicani, Giovanni di San Giuliano e Pietro di Irlanda. A diciannove anni il giovane Tommaso decise di non entrare nell’ordine benedettino, ma in quello domenicano. La decisione fu una grossa delusione per la famiglia, che lo voleva abate di Montecassino, e così, dietro istruzioni della madre, i fratelli lo rapirono mentre era sulla via di Parigi e lo riportarono prigioniero a casa. Per quindici mesi, il giovane e ostinato studioso non demordette dalla decisione di entrare nell’ordine dei domenicani. Pensando che i piaceri della carne avrebbero indebolito la sua determinazione, i fratelli introdussero un’avvenente prostituta nella sua stanza, ma l’infuriato Tommaso la cacciò tirandole contro dei tizzoni accesi. Secondo la leggenda, quella notte gli apparvero in sogno due angeli che lo rafforzarono nella decisione di conservare la verginità. Nel 1244 i genitori cedettero e la madre, Teodora, per salvare la faccia lo aiutò a fuggire nottetempo dalla finestra, sperando che nessuno venisse mai a sapere che aveva capitolato di fronte ai domenicani.

    Tommaso entrò nel convento domenicano di Parigi dove studiò con Alberto Magno, il più grande studioso domenicano e il massimo teologo del tempo prima di venire eclissato dal suo stesso allievo. Tommaso seguì il suo maestro a Colonia, poi ritornò con lui a Parigi. Alla fine di una disputa organizzata da Alberto tra i suoi studenti su una questione particolarmente difficile, Alberto fu così impressionato dall’allievo che esclamò: Lo chiamiamo bue muto, ma egli darà un muggito tale nella dottrina che risuonerà in tutto il mondo.

    La curiosità intellettuale di Alberto Magno includeva l’intero universo, senza escludere l’alchimia, benché con un approccio molto critico e circospetto. Scrive Serge Lequeuvre, sospettava fortemente che fosse possibile trasmutare i metalli in oro. Attirò il giovane e brillante discepolo nella Grande Opera, o Gran Magistero, come veniva chiamata l’alchimia? Lequeuvre ritiene di sì: "Qualunque argomento metteva in moto le sue energie [di Tommaso], dalle questioni filosofiche più ardue a [problemi squisitamente pratici come il] trasporto dell’acqua… È quindi impossibile che non si interessasse anche di alchimia, la nuova scienza che entusiasmava l’élite europea e stava svolgendo un ruolo fondamentale nella rinascita del sapere. Ma fu un vero alchimista? Molte polemiche circondano la parte del suo lavoro, in realtà minima, riguardante l’alchimia. Gli viene attribuito con certezza solo un piccolo Trattato sull’arte dell’alchimia. Lequeuvre fa notare che i riferimenti dell’aquinate all’alchimia non erano assolutamente tipici. Molto lontani dall’ermetismo impenetrabile dei testi alchemici, sono di facile comprensione. Descrivono senza infioramenti esoterici le operazioni necessarie per purificare una sostanza e, se non fosse per la natura misteriosa di alcune sostanze oscurate dai loro nomi medievali [nomi conosciuti da Alberto e Tommaso, anche se ignoti agli uomini del XXI secolo], il lettore moderno sarebbe messo in grado di iniziare la Grande Opera".

    Le parole definitive di Tommaso sull’alchimia, così come sono state preservate da Reginaldo, sono volte a demistificare questa scienza, perché egli pensava che tutti i poteri trasmutativi del mondo non fossero nulla in paragone al potere trasformativo della grazia divina. Non prestare troppa attenzione alle parole dei filosofi antichi e moderni che hanno operato con questa scienza, perché la pratica dell’alchimia dipende unicamente da quanta intelligenza puoi radunare e quanto bene la puoi dimostrare per mezzo di sperimentazione. I filosofi, desiderando celare la verità, hanno pressoché sempre parlato figurativamente. E conclude Lequeuvre: La ricerca dell’oro e altri metalli preziosi non interessava frate Tommaso, dato che rifiutò sempre qualunque alta carica.

    L’interesse principale di Tommaso era la creazione di una sintesi tra l’antico pensiero aristotelico e le dottrine della Chiesa. Le opere di Aristotele erano stare riscoperte dal mondo occidentale solo da un secolo. L’approccio naturalista ed empirico dei filosofi pagani alla conoscenza dell’universo, fondato sull’asserzione che la conoscenza (compresa quella della natura della divinità) passa unicamente per la riflessione sui dati ricevuti attraverso i sensi, si opponeva all’appassionata convinzione del cristianesimo medievale secondo cui la rivelazione attraverso la fede era l’unica via alla conoscenza dei segreti di Dio. Tommaso creò la sua sintesi affermando che lo studio aristotelico della natura conduce già all’esistenza di un creatore intelligente, ma solo attraverso la dottrina della Chiesa si comprende la sua bontà e il suo intervento nella storia.

    Oggi la Summa Theologica dell’aquinate è annoverata tra le quattro o cinque opere filosofiche più importanti di tutti i tempi, ma alla sua epoca molti consideravano la filosofia di Aristotele con sospetto perché proveniva da una mente pagana. Per alcuni, il lavoro di Tommaso aveva varcato la linea di confine e rasentava l’eresia. L’autore della Summa dovette difendere le sue idee in modi che oggi ci è difficile immaginare e nei corridoi della Sorbona circolava la voce che praticasse la magia nera, benché i suoi detrattori sospettassero che il vero adepto di magia nera fosse il suo maestro, Alberto Magno. I prelati della Sorbona conoscevano le leggende relative alla magia dell’antichità, come quella di Dedalo che avrebbe dato vita a una statua mediante l’argento vivo, di Efesto che aveva fabbricato degli automi o di Talo che aveva creato un uomo di bronzo. Scrive Lequeuvre: Circolava una leggenda secondo la quale Alberto Magno avrebbe insufflato la vita in un automa, che poi Tommaso avrebbe distrutto a colpi di bastone.⁹ Questa storia attesta che le facoltà logiche di Tommaso fossero ritenute altrettanto magiche quanto il vero e proprio esercizio della magia nera.

    La prodigiosa intelligenza di Tommaso era coadiuvata da una memoria altrettanto prodigiosa. Scrive Weisheipl: "La memoria e la capacità di concentrazione di Tommaso erano eccezionali. Secondo Bernardo Gui, la sua memoria era estremamente ricca e forte: «Se leggeva una cosa una volta e ne afferrava il senso, non la dimenticava più». E Gui aggiunge: «È ancora più interessante la testimonianza di Reginaldo, il socius, e dei suoi discepoli e di tutti coloro che scrivevano per lui, i quali erano tutti concordi nel dichiarare che egli era capace di dettare nella sua cella contemporaneamente a tre segretari, e talvolta anche a quattro, su argomenti diversi fra loro». Gui narra più avanti che uno dei segretari di Tommaso, un bretone di nome Evan della diocesi di Tréguier, disse che Tommaso, dopo aver dettato a lui e ad altri due segretari, talvolta si sedeva per riposare un momento e si addormentava, continuando a dettare nel sonno, tanto che Evan nel frattempo poteva continuare a trascrivere".¹⁰ E Sheila Ostrander e Lynn Schroeder aggiungono nel loro Supermemory: Da ragazzo, Tommaso ricordava parola per parola tutto quello che diceva l’insegnante. Da giovane, suscitò grande impressione in papa Urbano raccogliendo un compendio di scritti dei Padri della Chiesa: non li copiò, li ricordava. Disse ai suoi allievi che non aveva mai letto un libro che non avesse compreso perfettamente.¹¹

    Ma solo nel XVI secolo le sue opere furono salutate come il massimo baluardo della Chiesa contro il Protestantesimo. Nel 1879, la bolla papale Aeterni Patris rilancia la filosofia tomista come la più autentica espressione della dottrina della Chiesa e materia di studio per tutti gli studenti dei teologia. Più di recente, Benedetto XV ha dichiarato: Questo Ordine [domenicano]… ha acquisito nuovo lustro quando la Chiesa ha dichiarato propri gli insegnamenti di Tommaso, Dottore onorato dai pontefici come maestro e patrono delle scuole cattoliche.

    Le opere di Tommaso sono prodigiose e imperiture, ma rimane la domanda: dove andò e che cosa vide il loro autore il 6 dicembre 1273, tanto da fargli dire che tutto quello che aveva scritto era come paglia?

    BENVENUTO CELLINI

    (1500-1571)

    L’orafo e l’angelo custode

    Un angoscioso giorno del maggio 1539, Benvenuto Cellini, il più abile orafo italiano del suo tempo, giaceva su un fradicio pagliericcio in una segreta di Castel Sant’Angelo a Roma, dove aveva preso la decisione di togliersi la vita.

    In precedenza era fuggito dal

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