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Bosom Bodies: Mina's Adventure, #2
Bosom Bodies: Mina's Adventure, #2
Bosom Bodies: Mina's Adventure, #2
E-book230 pagine3 ore

Bosom Bodies: Mina's Adventure, #2

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Info su questo ebook

Cosa non si fa per amicizia?

Be', evitare di finire nei guai accusati di aggressione, contrabbando e omicidio, sarebbe un buon inizio. E anche non lasciarsi coinvolgere in una fuga rocambolesca, con tanto di assassini alle calcagna e un cavaliere in sella a una moto scintillante, che di principe azzurro non ha neanche il nome dato che si chiama Diego, aiuterebbe molto.

Eppure, Mina, diventata ormai l'annoiata titolare dell'impero informatico di famiglia, finisce in un incubo fatto di tette finte e omicidi in riva al mare, senza capirne il come o il perché.

Sa solo che la direttrice del ristorante in cui si è ritrovata a lavorare è stata uccisa e che il suo Maggiolino risulta essere il mezzo utilizzato per l'omicidio. Come? Non lo sa.

Ma se non risolve il mistero in fretta, il prossimo cadavere sulla spiaggia dorata, potrebbe essere il suo.

LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2023
ISBN9798223325253
Bosom Bodies: Mina's Adventure, #2

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    Anteprima del libro

    Bosom Bodies - maria grazia swan

    Capitolo 1

    Dicembre 1990

    I dipendenti devono lavarsi le mani prima di riprendere il lavoro. Mina fissò il cartello attaccato allo specchio sopra il lavandino. Ancora non si capacitava di essere una di loro, i dipendenti.

    Si era lasciata convincere da Ginger, la sua insegnante di yoga, ma non sapeva proprio spiegarselo. Perché aveva accettato? Non erano neppure grandi amiche. Come era passata dalle lezioni di yoga a fare la cameriera al Bosom Bodies? Osservò i ricci della parrucca rossa e le lunghe ciglia finte che sbattevano come ali di farfalla. L’immagine che la fissava dallo specchio sembrava una versione a grandezza naturale di una bambola di pezza, quella con i capelli di lana rossa e gli occhi sbarrati, come si chiamava? Ann qualcosa... Ah giusto: Raggedy Ann. Lo sguardo di Mina scese fino al top nero che sembrava sul punto di scoppiare sotto la spinta del reggiseno imbottito. E non erano solo delle semplici imbottiture, avevano persino i capezzoli eretti in modo da sembrare autentici seni rifatti. Viva l’America. Come se non bastasse, le protuberanze poco credibili erano evidenziate da due grandi B scintillanti. Secondo quelli del marketing stavano per Bosom Bodies, ma Mina aveva la sua versione: Belle Bocce! E per essere sicuri che tutti le notassero, le lettere erano ricoperte di strass, quelli che Paola chiamava diamanti da circo.

    Se Paola mi vedesse conciata così ... Lo disse ad alta voce. Ormai era passato un anno dalla morte di sua madre Paola ma ancora, in alcuni momenti, si sorprendeva a parlarle e a pensare a lei come quando credeva che fosse solo sua sorella.

    Ecco dov’eri finita! Una delle altre cameriere si era affacciata alla porta del bagno. La gente ha fame e i piatti si stanno raffreddando in cucina. Che problemi hai? Vuoi farti licenziare il primo giorno?

    "Magari." borbottò Mina. Controllò la minigonna rossa, si sistemò lo scomodo top su cui era attaccata la targhetta con il nome Ginger e andò a servire gli affamati. Barbara, la manager, aveva assunto Ginger – quella vera, la maestra di yoga – e siccome lei non aveva ancora iniziato a lavorare, nessun altro sapeva che aspetto avesse. L’unica persona a conoscenza dello scambio era Barbara e per quella sera aveva già staccato. Mina doveva resistere solo due giorni e poi la vera Ginger sarebbe tornata dalla luna di miele non programmata e avrebbe messo la parola fine alla sua carriera di rossa prosperosa al Bosom Bodies. Non aveva idea di come Barbara avrebbe giustificato la nuova Ginger al resto del personale e non gliene fregava nulla. L’ultima volta che aveva servito ai tavoli era stato più di un anno prima. Prima della morte di Paola e prima di aver conosciuto Brian, ma non era quello il momento di pensare a lui.

    I tacchi alti di Mina risuonavano sul pavimento di cemento del ristorante fumoso, ma la musica a tutto volume e il rumore delle chiacchiere avrebbero potuto coprire anche le cannonate, figuriamoci il suono di quelle scarpe scomode. La grande sala era arredata con tavoli rotondi ‒ più alti di quelli normali da ristorante ‒ corredati da sgabelli e su un lato correva un bancone fornito di ogni genere di bevande alcoliche. Le chiappe di uomini di ogni età, condizione fisica ed economica, scaldavano la maggior parte degli sgabelli. Doveva essere stato il cibo ad attirarli in quel posto, pensò Mina con una punta di sarcasmo, alzandosi sulle punte dei piedi per riuscire a sentire le ordinazioni. Persino con quei tacchi era la cameriera più bassa, la meno prosperosa, la meno espansiva, e, con i suoi ventiquattro anni, probabilmente la meno giovane. Il suo affitto, d’altronde, non dipendeva dalla generosità di quegli uomini.

    Ehi, Ginger, la chiamò Angelina dall’altra parte del vetro che divideva la cucina dalla sala. Ho messo qui i tuoi piatti per tenerli al caldo. Prendili.

    L’inglese della ragazza era rudimentale, ma la sua volontà di aiutare Mina/Ginger era chiara. Era l’unica alleata che aveva in quel posto. Sospettava che fosse a causa dell’accento, quasi che stabilisse una sorta di legame tra loro. Angelina sembrava latino-americana e probabilmente il suo background culturale aveva dei punti di contatto con quello italiano di Mina. Le sembrava tanto giovane. Come era finita in quel posto? In quel... ristorante? Mina riusciva a guardare al di là del sorriso dell’altra e vedeva la tristezza e l’incertezza nel suo sguardo. Le ricordava il suo, e i suoi sentimenti, quando era sbarcata dall’aereo all’Aeroporto Internazionale di Los Angeles tanti anni prima.

    Prese i piatti caldi e cercò di raccapezzarsi con le ordinazioni. Non riusciva a leggere nemmeno la sua stessa scrittura. Ecco cosa succede a usare sempre il computer! Aveva la sensazione di essere osservata, si girò e vide che l’aiuto cuoco, un uomo di bassa statura e con i capelli scuri, la stava guardando. Si chiamava Diego, aveva sentito le ragazze parlare di lui, anche se preferivano definirlo il tipo silenzioso. Mina non era neppure sicura che parlasse inglese. C’era qualcosa nel modo in cui l’uomo la scrutava che la faceva sentire a disagio. Sorrise ad Angelina e partì verso i tavoli che le erano stati assegnati.

    Quando uscì dal Bosom Bodies era quasi mezzanotte.

    Erano rimasti solo Diego, una cassiera di nome Lisa e lei. Angelina e un’altra cameriera se ne erano andate da qualche minuto. La politica aziendale imponeva che le ragazze si cambiassero prima di lasciare il locale e Mina si sentiva ancora più stupida con indosso quella terribile parrucca e le ciglia finte insieme ai suoi jeans e al cappotto di finta pelle scamosciata che era stato l’ultimo regalo di Paola. Era felice di non conoscere nessuno in quella zona della città ed era fermamente intenzionata a far sì che la situazione non cambiasse.

    Il suo Maggiolino con il tettuccio apribile era parcheggiato sul retro dell’edificio, nell’area recintata riservata ai dipendenti. Ecco che tornava quella parola.

    La pioggerellina sottile che scendeva nella notte era l’unico accenno alla stagione invernale

    della California del Sud.

    Avvicinandosi alla sua auto Mina notò qualcosa: potevano essere i riflessi che arrivavano dalla strada a trarla in inganno, ma le sembrava inclinata da un lato.

    Muovetevi, li esortò Lisa, devo chiudere il cancello e sono già in ritardo. La babysitter mi chiederà gli straordinari.

    Mi dispiace, ma ho paura di avere una gomma a terra. Mina girò intorno al Maggiolino e ne ebbe la conferma. La gomma della ruota anteriore, lato passeggero, era più a terra del suo reggiseno senza imbottiture.

    Avrebbe potuto chiamare il soccorso stradale. Il suo abbonamento era ancora attivo, no? Ci sarebbe voluto un po’, tuttavia, e Lisa voleva andarsene al più presto. Aprì il cofano, ma si ricordò che la ruota di scorta era nel magazzino della West Coast Software, dove l’aveva lasciata per avere più spazio per le scatole del trasloco. Era passata una settimana e se ne era completamente dimenticata.

    "Maledizione!" Chiuse il cofano sbattendolo con rabbia.

    Quindi sei italiana, osservò una voce maschile alle sue spalle.

    Mina si girò. Diego era lì, in piedi dietro di lei, che guardava la gomma a terra. Il suo inglese perfetto l’aveva sorpresa, non c’era traccia di accento, eppure capiva l’italiano. Le imprecazioni in italiano. Che ne dici?

    Vai pure, Lisa. Chiudo io il cancello, appena avremo sistemato la macchina di Ginger. Mina si fermò un attimo prima di lasciarsi scappare che il suo nome non era Ginger. Si morse il labbro ed evitò lo sguardo dell’uomo. La metteva a disagio. Quanti anni aveva? E perché le interessava? Lisa mise in moto il suo pick-up malconcio, fece un cenno di saluto a Diego, ignorò Mina e partì in un frastuono di motore metallico e falsetto di Michael Bolton.

    Hai la ruota di scorta? chiese Diego.

    Se l’avessi avuta l’avrei già sistemata.

    Ah, quindi ti cambi le gomme da sola? Al buio e sotto la pioggia?

    Lo detestava quel furbastro. No, furbastro non rendeva l’idea, c’era quella parola inglese che era perfetta: smart-ass. Ma come si poteva tradurre in italiano? Smart significa furbo, d’accordo, il problema è ass...

    Vuoi un passaggio? le domandò l’uomo interrompendo le sue elucubrazioni linguistiche.

    Si guardò intorno. L’unica auto rimasta nel parcheggio recintato era la sua Volkswagen con la gomma bucata. Un passaggio? E come, in spalla?

    Fai come vuoi. La tua macchina qui è al sicuro, ma non riuscirai a trovare un taxi in questa zona, disse lui con un’occhiata ai suoi tacchi alti. Le luci provenienti dalla strada creavano giochi di ombre sul viso dell’uomo, impedendole di decifrarne l’espressione, ma Mina era sicura che stesse sorridendo beffardo. A domani, si congedò.

    Mina lo guardò allontanarsi verso il lato dell’edificio. Non sapeva cosa fare. La parrucca umida le prudeva e aveva i piedi gonfi e doloranti. Non era abituata a stare in piedi per tante ore. Tutta la sua ostilità scomparve in un attimo, voleva solo mettersi in macchina e aspettare che sorgesse il sole o che quel ristorante del cazzo riaprisse, così avrebbe potuto usare il telefono. Ma per chiamare chi? Brian era in volo verso l’Europa con quella pazza della madre e a Paco non aveva osato confessare che lavorava in nero come cameriera. Maledizione!

    Mina sentì prima il ruggito ritmico del motore, poi, da dietro l’angolo, spuntò Diego in sella a un’enorme Harley scintillante.

    Allora? Ultima chance. Sembrava persino più piccolo su quel mostro. Fece andare su di giri il motore e attese. Mina gli si avvicinò, ancora incerta sul da farsi. Diego aveva i piedi ben piantati a terra per tenere salda la moto. Indossava un paio di stivali di pelle nera. Chi era quel tipo in realtà? Il sostituto di un cuoco in luna di miele?

    Ho un casco solo, disse, allacciandoselo. Abiti lontano? Non ho voglia di prendere una multa perché tu non ce l’hai.

    Indosso una parrucca. Se cado attutirà il colpo.

    Non riuscì a strappargli un sorriso.

    Si mosse lungo la moto e ringraziò mentalmente la politica aziendale che l’aveva costretta a cambiarsi: non sarebbe mai riuscita a salire su quel cavallo d’acciaio in minigonna. Anche con i jeans fece fatica, aveva le gambe troppo corte e fu costretta ad attaccarsi ai fianchi di Diego per issarsi.

    Non devi prendere niente in macchina? E comunque, l’hai chiusa?

    No a entrambe le domande.

    Come? Non chiudi la macchina?

    Non la chiudo mai. Dai, facciamola finita, manderò qualcuno a sistemarla domani mattina, adesso vai!

    Diego si girò a mettere il lucchetto senza scendere dalla moto. Sissignora, ma domani è domenica, sarà tutto chiuso.

    Mina scrollò le spalle nel buio della notte mentre si allontanavano dal parcheggio. Non appena raggiunsero la strada la moto prese velocità, sfrecciando in mezzo alle luci natalizie che decoravano la città. Un soffio di vento le sollevò la parrucca. Dannazione! Con una mano si attaccò alla vita di Diego, mentre con l’altra cercava di impedire che i suoi ricci rossi volassero via. Diego appoggiò la mano sulla sua e Mina ebbe la sensazione che lo facesse solo per infastidirla: doveva essersi accorto del suo disagio. Dopo poco attraversarono il ponte ed entrarono a Newport Beach.

    Okay, mi puoi lasciare in cima alla salita, gli gridò contro la schiena. Non aveva idea se con quel casco potesse sentirla.

    Quale salita?

    Bayside Condominiums.

    Lui fece un fischio di ammirazione. Abiti lì?

    La tua Harley sarebbe perfetta nel garage condominiale. Si ricordava di aver letto su una rivista che Elizabeth Taylor possedeva una Harley Davidson ed era abbastanza sicura che la signora non si gingillasse con giocattoli economici. Lasciami all’ingresso, grazie.

    Diego sollevò la mano dalla sua, fece una brusca curva a sinistra e accostò senza spegnere il motore. "Buona notte," disse senza voltarsi.

    Stronzo. Non fu facile, ma riuscì a scendere dal bolide scintillante senza troppe difficoltà. La parrucca era storta, se la levò e la ficcò in tasca, poi si diresse veloce verso il cancello. Passando, salutò con un cenno della mano il vecchio guardiano. Si sentiva i capelli appiccicati alla nuca dopo tutte quelle ore con la parrucca e le ciglia finte di un occhio si erano incollate. Tentò di aprirle, ma riuscì solo a farle tremolare e la guardia ricambiò la strizzatina d’occhio.

    Capitolo 2

    Brian le aveva lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica all’una meno un quarto. Mina lo aveva mancato per cinque minuti, tutto per colpa della gomma a terra.

    Ancora a letto premette il bottone per riascoltare il messaggio. Rimase a occhi chiusi, immaginando che Brian fosse sdraiato di fianco a lei.

    Ciao Mina, dove sei? Siamo atterrati ad Amsterdam. Dobbiamo passare la dogana qui e poi di nuovo quando atterreremo a Dubrovnik. Sono solo tre ore di volo, poi il resto del viaggio sarà in pullman. La mamma è stanca, naturalmente. Speriamo ancora di riuscire ad arrivare a Medjugorje – che nome difficile da pronunciare – prima della prossima apparizione. Sarebbe davvero una sfortuna perdere quella di Natale, la prossima non sarà prima del venticinque gennaio. Fece una breve pausa, Adesso in California dovrebbe essere passata la mezzanotte. Spero che tu stia bene. Hai finito il trasloco? Mi manchi. Proverò a richiamarti dalla Jugoslavia. Ti amo. Fai la brava, mi raccomando.

    Il telefono era lì, sul comodino, a pochi centimetri dal cuscino. Non aveva richiamato, dannazione. L’apparizione successiva sarebbe stata il venticinque gennaio? Che fesseria! Avevano un calendario per le apparizioni della Vergine Maria, come se fosse un appuntamento al centro estetico o dal dentista. Non c’era da meravigliarsi che il giudizio del Vaticano fosse tanto severo. Brian sosteneva che il viaggio a Medjugorje fosse approvato e organizzato dalla diocesi, ma né lui né la madre erano cattolici. La rabbia che Mina aveva provato quando le aveva annunciato che sarebbe andato in Europa con la madre durante le feste di Natale non si era affatto attenuata. La signora Starr aveva deciso di intraprendere quel viaggio per farsi curare dai continui mal di testa. Invocare un miracolo per delle emicranie! Sembrava più un’ennesima trovata per tenere il figlio lontano da lei. Fin dall’inizio della loro relazione, Mina aveva percepito che la donna non approvava quel rapporto. Brian aveva cercato di rassicurarla, ma lei era sicura di aver colto nel segno.

    Perché Brian non l’aveva richiamata? E se l’aereo fosse precipitato? Sciocchezze. Spostò le coperte: era ora di alzarsi, smettere di pensare a lui e fare qualcosa per quella gomma a terra.

    Mina aveva le chiavi e i codici di accesso del magazzino dove aveva lasciato la ruota di scorta, ma non aveva mezzi per arrivarci. Si trascinò in cucina e preparò il caffè.

    Hai finito il trasloco? le aveva domandato Brian nel messaggio.

    Mina si guardò intorno: le colonne di scatoloni erano più alte di lei, c’erano vestiti gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza degli ospiti e, sul bancone della cucina era ammucchiata la posta di una settimana. Un caos. Avrebbe dovuto passare la domenica a sistemarsi nella nuova casa invece di tornare a quel maledetto Bosom Bodies.

    Maledizione. Sei in debito con me, Ginger, ed è un debito enorme, pensò mentre sorseggiava il caffè.

    La notte prima, quando era rientrata, Mina aveva gettato la parrucca bagnata nella vasca da bagno e se ne era dimenticata. Andò a recuperarla: era ancora umida e i ricci sopravvissuti erano pochi. Sembrava un coniglio d’angora sballato di succo di carota.

    Dopo aver buttato giù il suo brunch domenicale a base di caffè e pane secco, chiamò Paco.

    Ehi Paco, come butta? esordì con allegria forzata.

    L’uomo non sembrò molto impressionato. Buongiorno, anzi buon pomeriggio. Di cosa hai bisogno, Mina?

    Bisogno? Niente. Volevo solo farti un saluto, tutto qui.

    Dai Mina, ti conosco. Se mi chiami di domenica devi per forza avere un motivo. Qual è? Va tutto bene?

    Non riusciva mai a fargliela. Paola sapeva quello che faceva quando l’aveva messo a capo della West Coast Software.

    È la mia macchina, ho una gomma a terra. Ecco cosa c’è che non va.

    Vuoi una mano per cambiarla?

    Mi sono dimenticata la ruota di scorta in magazzino e l’auto è a Balboa. Per cambiarla la devo portare lì. Adesso sai tutto.

    Siamo appena tornati dalla chiesa. Mi ci vorrà un po’ per passare in magazzino e arrivare a Balboa. Dove sei parcheggiata?

    Mmm, non sono dove è la macchina, sono a casa. Mi sono fatta dare un passaggio.

    Allora passo a prendere prima la ruota, poi te. E mentre raggiungiamo la tua macchina mi racconti la storia. Quella vera. Avvisa la guardia al cancello che sto arrivando. Dammi un’oretta. Va bene?

    Certo. Grazie, Paco.

    Aveva giusto il tempo che Paco la accompagnasse al ristorante e

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