Le tre Giovanne
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Anteprima del libro
Le tre Giovanne - Marco Salvario
coincidenza.
1-A
Il fulmine illuminò a giorno la piazza, ma al lampo di luce non seguì il fragore del tuono.
La vecchia zingara, i capelli nascosti da un lercio scialle verde e grigio, saettò verso Giovanna uno sguardo avido e trionfante. Il suo corpo si torse, evidenziandone la deformità, le dita armate di unghie affilate e nere, rivelandosi insospettatamente agili, ghermirono la moneta che le era stata offerta. Senza ringraziare si allontanò di corsa, sotto la pioggia fitta, come se quei cinquanta centesimi le avessero restituito la gioventù e sciolto le membra anchilosate.
Sorpresa, Giovanna si guardò il polso a cercare le tracce di un graffio doloroso che non si vedeva, ridacchiò nervosa, alzò le spalle e tornò al tavolino nel dehors. Un’improvvisa vertigine la fece barcollare, come se sotto i suoi piedi la pedana di legno avesse ceduto. Ritrovò l’equilibrio subito, eppure una sensazione di disagio s’impadronì di lei.
Mentre si sedeva incerta, Massimo la fissò irrigidito, la forchetta stretta nella mano come un’arma pronta a colpire. Un cameriere, che stava servendo a un altro tavolo, si era bloccato e osservava con il volto alterato da una smorfia d’orrore.
Giovanna arrossì e fece schioccare la lingua. Cominciò a parlare in fretta, come se le parole fossero una difesa. «Che donna strana! Hai visto com’è galoppata via? Mi era sembrata una vecchia e, invece, di colpo si è messa a saltare come una gatta.»
Massimo abbassò la forchetta e il braccio. La sua voce suonò stridula e innaturale. «Quella strega ti ha toccato!»
La ragazza aggiustò la manica del vestito, ricevendone una sensazione inattesa e sgradevole di ruvidità. Guardò nuovamente la mano sofferente, come se fosse stata vittima di una scottatura. «Toccata? No, ha solo preso la moneta.»
Smentendola, sul polso si andava disegnando un alone violaceo che Giovanna nascose con un movimento istintivo. Sospirò e spostò a disagio la sedia, che scricchiolò lamentosa.
Perché la guardavano tutti, anche i clienti degli altri tavoli? Che cosa aveva fatto di sbagliato? Aveva dato l’elemosina a una vecchia zingara che mendicava!
Allungò il braccio cercando di prendere la mano di Massimo che si tirò indietro di scatto ed esplose. «Che cosa ti è venuto in mente? Che volevi fare? Non hai visto che quella era …»
Esasperata, Giovanna alzò la voce a sua volta. «Era una poveraccia affamata e bagnata dalla pioggia! Non hai notato quanto era magra?»
Una signora grassa, seduta alla loro sinistra, la piega lungo la guancia di una cicatrice antica e non curata, strillò con una voce grottesca e isterica. «Quella era una strega! Una figlia del demonio che ti ha toccato e maledetta; strega, siete streghe entrambe!»
Giovanna sgranò gli occhi e cercò invano nel volto e nello sguardo di Massimo un aiuto. «Ma no, era soltanto una poveraccia!»
La donna si segnò più volte, battendo con violenza il palmo aperto sulla fronte, sulle spalle e sul petto, facendo saltare i seni pesanti. Continuò, alzando ancora più la voce. «Sono anime perdute, serve del male! Streghe! Bisogna dare loro la caccia e bruciarle tutte!»
Le tre persone che erano allo stesso tavolo della signora grossa, due ragazzi giovani e un uomo ugualmente grasso, annuirono minacciosamente. «Devono essere consegnate al torturatore perché confessino le loro colpe e i demoni siano scacciati da loro.»
Intimidita, sentendosi in minoranza e isolata, Giovanna abbassò lo sguardo sul suo piatto senza sapere che rispondere; il polso le bruciava come se già le fiamme la stessero divorando. Erano tutti diventati pazzi? Pazzi e pieni d’odio verso una mendicante che chiedeva soltanto una piccola elemosina, anche se la turbava come quella finta vecchia si fosse messa a correre veloce, dopo avere afferrato la moneta.
Uno scherzo? Doveva essere uno scherzo ben congeniato!
Prese un profondo respiro. Tutto intorno a lei sembrava cambiato, deformato, divenuto improvvisamente misero e trascurato. Persino le posate avevano perso ogni brillantezza e le tovaglie, che le erano sembrate così eleganti, ora facevano pensare ai tessuti consunti e lavati troppe volte di un’osteria di paese.
S’illuse che fosse finito, che la causa di tutto fosse soltanto colpa di qualcosa che aveva mangiato e che le aveva fatto male, o qualcosa che aveva bevuto, anche se aveva solo assaggiato il vino, quando un’altra donna, in piedi tra il locale e il dehors, intervenne urlando furiosa.
«Le streghe bisogna darle al torturatore e bruciarle! E quella insensata le è andata incontro, si è lasciata toccare e non ha provato a fermarla. Le ha passato del metallo! È stata complice!»
Massimo scrollò le spalle, esitò e parlò contro voglia, controllando la voce. «La strega non l’ha toccata. Ha cercato di farlo, ma non è riuscita a toccarla. Sono un revisore, ci penserò io a lei.»
Un revisore? Giovanna ebbe uno scatto di ribellione che riuscì a nascondere solo in parte: lei era capace benissimo di pensare a se stessa! Tuttavia non era il momento di litigare con Massimo e una paura irragionevole le entrò nelle ossa. Quegli uomini, quelle donne, non scherzavano parlando di torturare, di incarcerare e bruciare.
Un’automobile transitò lenta nella strada con un suono faticoso e lasciandosi dietro uno sgradevole odore di fumo acido; il veicolo era un modello fuori moda e mal tenuto, nero come un carro funebre. Un patetico esemplare da esposizione, proveniente da un altro secolo.
La tensione si allentò in parte. Il cameriere, come riscuotendosi dall’incantesimo che l’aveva paralizzato, finì di servire i clienti con gesti troppo attenti e si allontanò silenzioso.
Stordita, ancora preda di una vertigine fastidiosa, rivivendo senza lucidità i momenti in cui la zingara aveva afferrato la moneta da cinquanta centesimi, Giovanna finì di mangiare senza appetito bocconi che sembravano essersi corrotti e inaciditi, aspettando da Massimo la possibilità di parlare di altro; di loro due, soprattutto. Un futuro insieme, convivere oppure sposarsi, come Giovanna sperava e temeva al tempo stesso; invece dopo l'incidente, il suo fidanzato era diventato ostile e freddo, chiuso a ogni approccio. Le rispondeva a monosillabi o non rispondeva per nulla, le spalle curve e il volto teso verso il piatto e verso la piazza, quasi a sorvegliare la strada per paura che la zingara tornasse.
La zingara o la strega?
Giovanna non era più sicura di nulla e si sentiva ingiustamente accusata, mentre Massimo sembrava impacciato per gli sguardi ostili e sospettosi delle persone presenti agli altri tavoli.
«Si sta vergognando di me!», pensò allibita Giovanna, aggiustandosi il vestito e sentendolo sgradevole e inadatto. Maledizione, che cosa si era messa addosso? Ricordava con certezza di avere scelto una blusa ricamata, di averla provata almeno dieci volte confrontandola con altri vestiti più o meno disinvolti, invece scopriva che qualcosa di folle era successo e lei aveva indossato un’altra camicetta, molto accollata e senza trasparenze. Perché? Come aveva potuto decidere di essere così sciatta? Non ricordava, era troppo confusa. Oltre tutto, il tessuto era ruvido e quasi grezzo, fastidioso e poco femminile. Forse non era neppure pulito.
Nascose il volto dietro le mani e cercò di cancellare l'incubo assurdo che stava vivendo. Aspettò invano di svegliarsi con le mani che le tremavano.
Respirò a fondo e soffio via l’aria con lentezza, desiderosa che la cena finisse in fretta e si concluse, infatti, dopo che lei ebbe accettato come dolce un frutto triste e insipido che il cameriere aveva portato senza neppure consultarli, e una tazzina che Giovanna aveva pensato fosse caffè e che, invece, aveva il gusto di una tisana d'erbe, fredda e amara.
«Buona!», mormorò mentendo, spinta dal desiderio di sentire la propria voce spezzare il silenzio.
Il cameriere posò sul tavolo un vassoio di rame ossidato e un foglio leggermente stropicciato e aperto. Massimo lesse il foglio scuotendo la testa. «Venti scudi. Dieci e dieci!»
Aprì il proprio portafoglio e mise sul vassoio un biglietto strano e quadrato.
Giovanna esitò perplessa e lui, aggressivo, la guardò finalmente negli occhi e ripeté secco: «Venti scudi, dieci e dieci.»
La ragazza vacillò disperata, chiudendo le mani a pugno e infilandosi le unghie nei palmi per cercare con il dolore di cancellare un incubo che era troppo reale. Doveva pagarsi la sua parte? Dieci scudi? Che cosa significava? Macchinalmente cercò e aprì la sua borsetta, una borsa mai vista in precedenza, grande e scura. Provò la paura di stare frugando nella borsa di un’altra persona e si aspettò altre grida sdegnate, poi, rassegnata a tutto quello che ancora poteva succedere, si decise e dall’interno afferrò una busta di cuoio, immaginando fosse una specie di portafoglio. La busta conteneva un documento su cui Giovanna scoprì la foto di una sconosciuta troppo seria, il cui volto era identico al suo, e cinque foglietti spessi: uno era uguale a quello messo sul vassoio da Massimo e, con un gesto veloce, la ragazza lo prese e sovrappose all’altro, timorosa di sbagliare come una giocatrice di carte che sa di stare bleffando.
«Dieci scudi!»
Era quello che lui aspettava, perché si alzò sgarbatamente e si avviò all’uscita, con Giovanna che dovette correre per stargli dietro.
Il cameriere si scostò e non fece neanche un accenno di saluto, vedendoseli passare davanti.
Giovanna conosceva a memoria il piccolo parcheggio a spina, dove Massimo aveva posteggiato la sua lucida Lancia colore grigio metallizzato quando erano arrivati; adesso, invece, lo spiazzo era occupato da un prato, con l’erba che affiorava stanca e malata tra sassi e sabbia. L’auto, tutte le automobili del parcheggio, erano sparite, però Massimo non sembrò preoccuparsi e continuò a piedi, con un passo lungo e irritato.
Giovanna lo seguì disorientata, dovendo trottare senza riuscire a camminargli al fianco. Sperò rallentasse, al contrario l'uomo muoveva passi sempre più lunghi e veloci mentre lei incespicava nelle scarpe dure e piatte che si era scoperta ai piedi. Senza i tacchi si sentiva a disagio e troppo piccola. Le si velarono gli occhi di frustrazione e sofferenza.
«Ti prego, non correre! Massimo, cosa è successo?»
Lui si fermò, fece per ribattere, allargò le braccia e riprese camminando un poco più lentamente. Solo dopo una cinquantina di passi sbottò rabbioso. «Che cosa è successo? Giovanna, lo chiedo io a te, cosa è successo! Da quando tu te la intendi con le streghe?»
«Io? Quella zingara …»
«Zingara? Che cosa significa? Strega, chiamala con il suo nome! Tu cosa le hai dato?»
«Io? Le ho solo offerto una moneta!»
«Un disco di metallo? Come l’hai ottenuto e perché l’hai dato alla strega? Lo hai fatto perché ne stregasse la materia? Perché ti stregasse?»
Giovanna non seppe che rispondere e la sconvolgeva capire che la rabbia di Massimo, sempre così controllato e ironico, era vera. Non lo riconosceva più, non conosceva più nulla di lui! Che cosa era successo all'uomo con il quale voleva vivere? Che cosa era successo a lei stessa?
Ebbe paura. «Non ho fatto nulla di male, lo giuro!»
«Non devi giurare! Possibile che tu non ti renda conto? Tu sei andata da lei e quella ti ha toccato. Le hai dato una maledetta moneta di metallo! Sei andata contro di lei per cacciarla e sei cambiata! Ti ha fatto un maleficio.»
«No! Solo, solo che …»
Un maleficio? Forse era davvero quello che le era successo!
L’uomo la guardò e per un attimo parve accennare un sorriso, un riflesso di quello sguardo sornione che lei amava in lui: «Solo che sei una strega anche tu? Che il diavolo ti ha sempre morso dentro il cuore?»
Non era un gioco, Massimo non scherzava. Giovanna aprì la bocca più volte prima di trovare le parole. «Il diavolo? Che cosa stai dicendo? Io non ho fatto nulla.»
Non ci fu risposta e camminarono a lungo, vicini e lontanissimi, per strade buie e sotto la pioggia fine che, improvvisamente, s’intensificò. Nascosto chissà dove, un gatto randagio si lamentava e miagolò straziante.
Si spostarono per lasciare passare un veicolo a cavalli che procedeva nel buio, in una corsa pericolosamente veloce.
«I custodi!», disse Massimo con una smorfia di disprezzo.
«Chi sono?»
Massimo alzò le spalle e la fulminò con uno sguardo: «Lo sai bene chi sono! Sono i difensori della gerarchia, i cacciatori di streghe. Di streghe come te! Li avrei dovuti chiamare e consegnarti a loro perché t’interroghino.»
Nel buio Giovanna inciampò e batté un ginocchio a terra, senza che Massimo si preoccupasse di aiutarla a