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Love Thy Sister: Mina's Adventure, #1
Love Thy Sister: Mina's Adventure, #1
Love Thy Sister: Mina's Adventure, #1
E-book217 pagine3 ore

Love Thy Sister: Mina's Adventure, #1

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Info su questo ebook

Si dice che i guai non vengano mai soli, che piova sempre sul bagnato e che non si debba mai lasciare la strada vecchia per la nuova… Già, perché si sa quello che si lascia e mai i casini in cui ci si trova.
E Mina Calvi, italiana d'origine ormai trapiantata, con suo sommo disappunto, in California, ne sa qualcosa. Anzi, ne sa fin troppo.
Da sempre impulsiva e incostante, si è ritrovata a vivere con una sorella iperprotettiva nell'idilliaca Orange County, dove l'Italia è solo un ricordo e un lavoro stabile che tenga conto del suo caratteraccio... un miraggio.
Ma tutti i problemi volano fuori dalla finestra nel momento in cui l'azienda di sua sorella viene scossa da un omicidio e la sua vita dalla rivelazione di un segreto di famiglia simile a un'atomica gettata in cantina.
Nemmeno l'aiuto e il conforto di Brian Starrs, il bel californiano dagli occhi azzurri, riescono a proteggerla dalla rete di tradimenti, slealtà e bugie in cui è rimasta incastrata e da cui emergere sembra impossibile.

LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2023
ISBN9798223727552
Love Thy Sister: Mina's Adventure, #1

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    Anteprima del libro

    Love Thy Sister - maria grazia swan

    Capitolo 1

    Veneto-Italia. Estate 1992

    Il puzzo di morte permeava l’aria.

    La pioggia del mattino non l’aveva dissolto. Il sole del pomeriggio non l’aveva incenerito, spazzandolo via. Si librava, incurante del cinguettio degli uccelli, del fruscio delle lucertole spaventate o dello scricchiolio dei sassolini sotto i suoi sandali. Mina si fermò accanto a una tomba aperta e osservò l’uomo corpulento che vi scavava all’interno.

    Il sudore riluceva sulla sua testa calva. Quando sollevò lo sguardo e la vide, il becchino appoggiò la pala al muro di terra, scacciò le mosche che gli ronzavano intorno alla fronte aggrottata e strizzò gli occhi. «‘Giorno.» Si pulì il viso con il dorso della mano ricoperta dal guanto, esponendo così alla vista una macchia umida sotto l’ascella.

    «Buongiorno

    Erano trascorsi dieci anni, ma ben pochi cambiamenti erano stati apportati nel modo di seppellire i morti nella sua piccola città natale.

    «Come mai c’è questo cattivo odore?» gli domandò.

    «Dobbiamo riesumare i corpi prima del tempo. Una volta si trattava di intervalli di venticinque anni. Ora quell’intervallo si è ridotto a diciotto, e certe volte anche a quindici, a seconda delle esigenze. Questo qui non era pronto per uscire, ma devo fare spazio per la prossima sepoltura. Non abbiamo più posto.» Scrollò le spalle, riparandosi gli occhi dai raggi che lo colpivano mentre le parlava. «È qui per far visita a qualcuno?» E il suo sguardo scivolò sul vaso che Mina teneva in mano, ricolmo di ciclamini bianchi.

    «Sì, alla cripta di famiglia. Non ci vado da anni.» Lanciò uno sguardo verso i portici a volta che si rincorrevano l’un l’altro lungo il perimetro del cimitero. «Quella dei Calvi.» A quel punto il dolore contro cui aveva combattuto fin dalle prime luci del mattino la agguantò alla gola.

    «Oh, capisco, sei l’americana.» Il becchino si diede una raddrizzata per poi avvicinarsi al muro di terra che delimitava la tomba. Era più alto di quanto lei avesse pensato. Inoltre, l’odore del suo corpo si mescolava alla dolcezza nauseante della terra in decomposizione, quasi al punto da sopraffarla. Mina si portò i fiori alle narici per neutralizzare quell’afrore, dopodiché fece un passo indietro, allontanandosi dalla buca vuota. L’americana? Forse l’aveva confusa con Paola. Perché per quanto la riguardava dubitava di aver incontrato quel tizio prima di allora, se non si contava oltretutto il fatto che aveva appena sedici anni quando era partita per gli Stati Uniti. Lui invece sembrava avere una quarantina d’anni. Magari era uno dei vecchi compagni di scuola di sua madre...

    Gli rivolse un saluto cortese, poi si voltò e si diresse verso il sentiero che conduceva alle volte ad arco e, successivamente, nei sotterranei che ospitavano la camera funeraria della sua famiglia. In realtà i Calvi non erano i suoi genitori. Ma nessuno ne era al corrente, lì in Italia, e lei era ben decisa a mantenere inalterato lo stato delle cose. D’altronde non c’era bisogno di riscrivere la storia della sua nascita, dal momento che tutte le persone coinvolte erano ormai morte. Le tombe, ordinatamente contrassegnate, si susseguivano fila dopo fila lungo la strada che conduceva ai gradini attraverso i quali era possibile accedere al portico prospicente le cripte.

    Quel cimitero era di gran lunga diverso dalla maggior parte dei sepolcreti americani, dove l’erba ricopriva il terreno e le scritte erano semplici e senza pretese, atte a creare l’illusione di un prato verde e tranquillo. Tuttavia gli italiani avevano un rapporto diametralmente opposto con i loro morti. I bordi delle tombe erano in mattoni, granito o legno, per esempio. E le lapidi, uniche e massicce, raccontavano la storia del caro estinto con statuette, lampade e fiori. Tanti fiori. Serviva ad annunciare al mondo che quella sottoterra era stata un’anima amata. Durante i mesi primaverili ed estivi, gran parte dei fiori presenti nel campo santo erano disposti in creazioni fresche ed elaborate, con scritte in oro su nastri sgargianti intrecciati a felci, petali e persino palloncini. Camminando, lanciò un’occhiata alla sua modesta pianta. I ciclamini erano stati i preferiti di sua nonna, un simbolo delle Dolomiti, le montagne che circondavano la valle.

    Mina avrebbe voluto concentrarsi sulla sua meta, davvero, eppure non riusciva a distogliere la mente dall’odore persistente di decomposizione che aleggiava nell’aria, né a scrollarsi di dosso l’inquietante sensazione che quel becchino se ne stesse lì a osservare ogni sua mossa.

    C’erano poche persone nei dintorni, ed erano tutte donne intente a cambiare l’acqua ai vasi e a togliere le erbacce dalle lapidi. Solo il ronzio delle api continuava a turbare il silenzio, e fu così finché i piedi di Mina non approdarono sulle spesse lastre di granito che costituivano la base dei portici a volta. Le bare erano state poste sotto terra, all’interno di scompartimenti ordinatamente organizzati. In sostanza, il pavimento su cui camminava era il soffitto delle cripte. Ognuna di quelle appartenenti a qualche famiglia era segnalata in maniera architettonica da due archi su ciascun lato. Vi era poi un massiccio anello di ferro posizionato al centro di un blocco quadrato di granito, ed era con una gru azionata manualmente che era possibile agganciarlo e sollevarlo a seconda delle necessità, consentendo l’apertura, simile a quella di una cantina, della cripta per calare eventuali nuove bare.

    Ascoltò i propri sandali dalla punta aperta mentre ticchettavano sulla pietra, con l’eco che risuonava per tutto il porticato ad arco. Da bambina, Mina temeva di camminare su quelle lastre perché non erano sigillate tra loro, ma solo tagliate in modo da collegarsi l’una all’altra come giganteschi pezzi di un puzzle. La prima volta che aveva assistito alla deposizione di una cassa aveva avuto degli incubi per settimane. E dopo quell’episodio, si era rifiutata per anni di visitare il cimitero, per paura che le pietre scivolassero via e lei cadesse di sotto, tra i corpi in decomposizione. E anche da adulta, nonostante l’area fosse immersa nel sole del mezzogiorno, Mina conservava nel cuore il ricordo di quella paura lontana.

    Tuttavia, nulla di tutto ciò ebbe importanza quando raggiunse la cripta della famiglia Calvi e il sorriso di sua nonna, sigillato per restare tale nell’eternità. Fece fatica a ricordare le persone che la occhieggiavano dalle loro cornici ovali in ceramiche nelle foto che aveva davanti, compreso il suo patrigno. Una graziosa lampada in ferro battuto proiettava un debole fascio di luce su una felce rinsecchita, al centro della parete di marmo a cui era affissa insieme ai volti e ai nomi di ciascuno. Mina si premurò di rimuovere la pianta morta, dopodiché si fermò e passò le dita sul sorriso incorniciato di nonna. Al tatto era fresco, a differenza delle lacrime che le erano finite sul dorso del polso.

    Il dolore che per tanto tempo aveva tentato di tenere nascosto al centro del proprio petto si fece strada, e a quel punto il pianto si tramutò in veri e propri singhiozzi. Era giusto sfogarsi. Era giusto lasciarsi andare al lutto. La foto di Paola avrebbe dovuto trovarsi lì, accanto a quella di nonna, anche se sua madre era stata sepolta lontano da lì, in America.

    Mina finì per sentirsi a proprio agio da sola in quel luogo sacro, e dopo un po’ smise anche di piangersi addosso. Sostituì la felce con i suoi ciclamini. Poi si toccò la fronte con i polpastrelli per farsi il segno della croce, in un rito cattolico tanto radicato da non poter essere messo da parte. Ave Maria, piena di grazia. Si concentrò, cercando di ricordare la preghiera che le aveva insegnato la nonna.

    Una mano le toccò la spalla.

    E lei sobbalzò per lo spavento.

    «Mina? Sei proprio tu? Sei davvero tu?»

    La donna, bionda e alta, non aveva un aspetto familiare.

    «Ci... ci conosciamo?»

    «Non ti ricordi di me? Loredana. Loredana Lanza. Eravamo in classe insieme. La classe della signora Rita, ricordi?» La bionda fece un passo indietro e fissò Mina con audacia, quasi la stesse sfidando perché convinta che una persona come lei, così affascinante, fosse impossibile da dimenticare.

    «La signora Rita me la ricordo, ma... forse sono i tuoi capelli. Non erano scuri?». Quella però era una domanda stupida. Nella classe della signora Rita tutti avevano i capelli scuri, sia i ragazzi che le ragazze. E poi si vedeva chiaramente che la donna che le era di fronte li aveva tinti.

    Loredana gettò indietro la testa e rise, mostrando la curva del collo e un accenno di scollatura. Dopodiché scosse i capelli ricci e lunghi fino alle spalle, come fanno le persone che escono da una piscina. Mina si guardò intorno, per controllare che non ci fosse magari qualcuno da impressionare. Tuttavia erano sole, quindi non c’era alcun motivo di dare spettacolo. Allora che significava tutta quella teatralità?

    «Lanza, il tuo cognome è Lanza. Mi ricordo. Aspetta... sei la sorella gemella di Vittorio?»

    «Ero.» L’espressione di Loredana mutò e le sue labbra si arcuarono in un sorrisetto triste. «Il mio caro, povero fratello è morto. Sono passata dalla nostra cripta per portargli dei fiori freschi.»

    «Morto? Oh, mi dispiace molto. È... era così giovane. Che cosa è successo?»

    «Vittorio era giovane, già,» annuì l’altra, «e premuroso. Sempre pronto a dare una mano. Un essere umano davvero meraviglioso. Sembra che Dio prenda sempre i migliori.» Loredana si fece il segno della croce. «È morto nel Natale del 1989. È scivolato ed è caduto da una scala mentre aiutava le suore a montare le luminarie. Faceva il volontario lì ogni anno, era una specie di tradizione. Come papà. Sai, Vittorio sentiva il dovere di portare avanti l’usanza di famiglia, da quando nostro padre era passato a miglior vita.»

    1989, l’anno della morte di Paola. I capelli sul collo di Mina si drizzarono. Avrebbe dovuto offrire alla sua ospite delle parole di conforto, ma non riusciva a liberare la mente da quella coincidenza.

    «A proposito,» riprese Loredana, il cui umore sembrava essere tornato a sintonizzarsi in piena modalità joie de vivre, «come sta quella meraviglia di tua sorella Paola?»

    Mina deglutì a fatica e scelse con cura le parole. «Purtroppo Paola non è più con noi. Anche lei è morta qualche anno fa, più o meno nello stesso periodo di tuo fratello. Una triste coincidenza.» Si preparò alla domanda successiva di Loredana su come fosse morta. Domanda che tuttavia non arrivò mai. Al contrario, la bionda le infilò una mano sottobraccio e la esortò come avrebbe fatto una vecchia amica. Fu un gesto insignificante, ma sufficiente a farle scattare un’immagine nel cervello. Ricordava Loredana come una ragazza irritabile e tosta, e un po’ più tarchiata del fratello. Vittorio e la sorella gemella... Avevano due anni in più di Mina, ma Loredana aveva dovuto ripetere qualche anno, così da ritrovarsi in una delle classi della signora Rita.

    «Morta, eh? È un peccato. Ma dai, vieni con me e lascia che ti mostri le bellissime rose che ho appena portato a Vittorio. Hanno un profumo meraviglioso.»

    Riluttante, Mina si trovò costretta a seguirla dato che la stava letteralmente trascinando, e giunse in un’altra cripta che suppose appartenesse alla famiglia Lanza. Altre immagini del passato le sfrecciarono davanti agli occhi. Quella di Loredana era una delle famiglie più antiche e ricche della città. I Lanza possedevano infatti una fabbrica di stuzzicadenti. E lei ricordava che quando era bambina le donne anziane del paese erano solite spettegolare su tutti i soldi spesi per quella cripta lussuosa e ricoperta di marmo. Si diceva che le foto dei loro cari estinti fossero incorniciate da intelaiature d’oro massiccio, anche se sua nonna le aveva assicurato si trattasse invece di ottone, mantenuto lucido da persone assoldate unicamente per quello scopo.

    Loredana quel giorno indossava un profumo forte, e sul viso ostentava un trucco pesante. I suoi gioielli così sofisticati, poi, erano troppo belli per essere datati. E il ticchettio dei suoi tacchi a spillo risuonava tanto squillante contro il marmo sotto ai loro piedi da attutire quello dei modesti sandali di Mina.

    La cripta della famiglia Lanza sarebbe potuta passare per un negozio di fiori. Le rose fresche vi erano disposte ad arte davanti, e c’erano almeno quattro tipi di gigli sullo sfondo. Ognuna di quelle deliziose composizioni sembrava essere stata acquistata da un talentuoso designer floreale. Doveva costarle un bel po’ di soldi mantenere quotidianamente uno spettacolo del genere.

    «Vedi?» Loredana asciugò una lacrima invisibile da sotto le ciglia cariche di mascara. «Mi manca così tanto. Vengo a trovarlo tutte le volte che posso.»

    Mina annuì, mettendo silenziosamente a paragone i suoi ciclamini con tutta quella stravaganza floreale. Qualcosa, nel quadro che le si stagliava davanti, la metteva a disagio. In fin dei conti lei e Loredana non erano mai state esattamente amiche ai tempi della scuola. Certo, Mina aveva frequentato Vittorio, ma se in parte lo aveva fatto per sopperire alla mancanza di un fratello, dall’altra c’era stato soprattutto il fatto che lui si era sempre dimostrato gentile con lei, anche quando gli altri bambini non lo erano. Quel ragazzo era solito parlarle con dolcezza, e sorrideva spesso a differenza della sorella, che invece riservava a chiunque un comportamento aggressivo e prepotente. Alla fine, ovviamente, la cosa le si era ritorta contro, perché avevano tutti iniziato a prenderla in giro. Eppure, a guardarla in quel momento, simile a un’effervescente Marilyn Monroe, non lo si sarebbe detto.

    «Allora, chi altro c’è qui con te? Quanto tempo vi fermate? Avete una macchina? Voglio che mi racconti tutto sull’America,» la travolse Loredana, con una raffica di domande veloce come proiettili vacanti.

    «Mio Dio, Loredana, rallenta...»

    «Shht, ti prego, chiamami Lola. Nessuno mi chiama più con quel nome. Io sono Lola, adesso, Lola Lanza. Non suona molto meglio?»

    Lola, Loredana o Miss Lanza che fosse, quella donna era piena di sorprese. «D’accordo... Lola, sono qui da sola. Ho affittato un appartamento da un professore che sta trascorrendo le vacanze estive in California. Un amico che lavora nel mondo dei viaggi ha interceduto per me. Mi fermo per un mese, sono arrivata giusto ieri. E non ho la macchina. Anzi, ho il jet lag che mi sta col fiato sul collo, quindi finito qui credo che andrò subito a sdraiarmi per un po’.»

    «Un professore? Intendi il professor Cervi? Insegna inglese alla scuola professionale.»

    «È il suo nome, sì. Frequenta i corsi dell’Università della California del Sud.»

    «Allora posso darti un passaggio fino a casa. So esattamente dove abita.»

    «Ti ringrazio, ma preferisco camminare. Dopo venti ore passate in quell’aereo soffocante penso mi farà bene un po’ di movimento. Mi aiuterà a superare il fuso orario.» Così dicendo Mina prese le distanze dal mucchio di fiori nella cripta. Tra quelli e il profumo di Lola le stava venendo il mal di testa. Era una cosa pazzesca: quell’olezzo riusciva a essere sia sgradevole che fragrante allo stesso tempo. E lei non vedeva l’ora di uscire da lì e respirare un po’ di aria normale.

    Sarebbe tornata l’indomani, per fare visita alla nonna in pace e in solitudine. In quel modo avrebbe anche avuto la possibilità di passeggiare per il cimitero, leggere i nomi degli ospiti e guardarne le foto, in modo da ricollegarsi in maniera eccellente al passato.

    Lola la accompagnò fino al cancello arrugginito, blaterando di Hollywood e Beverly Hills. E nel momento in cui giunsero all’ingresso le disse: «Allora a presto, mia cara amica, ci vediamo presto.» In inglese!

    Se aveva voluto impressionarla, ci era riuscita.

    «Ma che brava, parli benissimo l’inglese,» si complimentò nella sua vecchia lingua.

    Lola le rivolse un sorriso e un inchino, poi tornò a parlare in italiano. «Conosco solo qualche frase, ma ci sto lavorando.»

    «Fai benissimo. A presto, Lola.» Si affrettò a uscire di lì per poi riversarsi in strada. Dopodiché si fermò all’ombra di una fila di cipressi. Non mancavano mai nei cimiteri italiani, lungo i sentieri che portavano alla loro entrata, come fossero dei fari per l’aldilà. Mina scorse dall’altra parte della strada, su quella che un tempo era stata una collinetta alberata, un’enclave esclusiva di villette.

    Quando hanno iniziato a

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