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Le frontiere del capitale: Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo
Le frontiere del capitale: Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo
Le frontiere del capitale: Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo
E-book273 pagine4 ore

Le frontiere del capitale: Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo

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Info su questo ebook

L’ossessiva necessità di vendere sempre più merci sempre più in fretta è uno dei vettori maggiormente importanti del capitalismo contemporaneo, che lo rende in continua crisi e in continua ristrutturazione, e sempre più accelerato nei suoi processi espansivi. L’organizzazione di una produzione just in time, la fulminea movimentazione delle merci lungo il pianeta, la possibilità istantanea del consumo: queste le tre direttrici che la logistica contemporanea pianifica e coordina. Dalle grandi navi oceaniche ai magazzini di periferia, dagli algoritmi delle piattaforme digitali ai geli delle notti solcate dai rider, questo libro ripercorre la riflessione quinquennale del percorso di ricerca Into the Black Box, proponendo una serie di analisi, sguardi e inchieste su un mondo in rapida trasformazione. Nel volume trovano spazio interventi di taglio politico e analisi di lotte e conflitti, ricostruzioni storiche e spunti su alcune tendenze dello sviluppo digitale, fornendo una panoramica e una serie di chiavi di lettura per una critica del presente.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2023
ISBN9788867184040
Le frontiere del capitale: Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo

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    Anteprima del libro

    Le frontiere del capitale - Into the Black Box

    PREQUEL

    Questo volume nasce dal percorso di ricerca collettiva Into the Black Box.

    Era il finire del 2013. Da qualche anno si susseguivano in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto blocchi dei facchini ai cancelli degli interporti. Eravamo in piena crisi economica globale. Dopo la bolla dei subprime Usa , l’intero territorio europeo aveva visto abbattersi la scure dell’ austerity. Le piazze di mezza Europa si incendiarono. Per confrontarsi su questo, un seminario internazionale intitolato proprio Tea ching the Crisis si tenne a Berlino. Partecipammo entusiasti. Giovani militanti e ricercatori di mezzo mondo portarono le loro esperienze e analisi. Piazza Syntagma, Porta del Sol, Piazza Taksim, Kottbusser Tor o le strade di Lubiana: chi aveva attraversato quei luoghi di conflitto si incontrò per parlare di crisi, di reazioni, di lotte e di prospettive. Da Bologna portammo l’esperienza delle lotte nella logistica e non è riduttivo dire che davanti a noi si aprì un mondo (puntata 4.1).

    Confrontandoci, leggendo, partecipando e approfondendo scoprimmo che la logistica era in tensione ai quattro angoli del globo. Si annotavano blocchi logistici in Canada, Australia, Cile, Grecia, Cina, Olanda, Belgio e altrove. I lavoratori di quel settore sfruttavano la loro posizione strategica. In un mondo dove la produzione è globale, dove ogni passaggio del processo produttivo si svolge in un luogo diverso, se blocchi un segmento puoi arrivare a bloccare tutto. Facchini e operai della logistica evidentemente lo sapevano. O comunque, lo facevano. Noi l’abbiamo scoperto con loro. Grazie a loro.

    A fianco a forme più o meno intense di conricerca, negli anni immediatamente successivi al 2013 abbiamo incontrato strumenti teorici importanti. In primo luogo i lavori di Keller Easterling ( Extrastatecraft. The power of infrastructure space – Verso, 2014) e Deborah Cowen ( The deadly life of Logistics – Minnesota Up, 2014). Sempre in ambito anglofono, libri e articoli di Edna Bonacich e Jake Wilson, Anna Tsing, Stefano Harney e Fred Moten, Sandro Mezzadra e Brett Neilson. Inoltre, e non certo meno importante, la riscoperta di una radice italiana operaista di studi critici sulla logistica: la rivista «Primo Maggio», i lavori di Sergio Bologna, e ovviamente il Dossier Trasporti del 1978. Con strumenti teorici di matrice marxiana e operaista, partecipazione ai movimenti e con un confronto proficuo e costante con compagne e amici, ci siamo spinti/e ad accogliere la logistica come campo di studio, lotta e lavoro. Inoltre, con la logistica abbiamo scoperto una lente (vedi la puntata 3.1) attraverso cui scrutare la storia e le mutevoli geografie del capitalismo globale (su questo 3.2 e 4.2).

    Lo sbocciare della cosiddetta industria 4.0, del capitalismo delle piattaforme e della gig economy ha in qualche modo radicato ed espanso la nostra prospettiva. Nei secondi anni Dieci, la logistica ha mantenuto e anzi incrementato la sua efficacia ermeneutica imponendosi come razionalità alla base del potere algoritmico delle piattaforme. Nuovi soggetti al lavoro hanno invaso le nostre città costruendo nuovi campi di battaglia (vedi puntata 3.6). A fianco ai facchini delle sigle più tradizionali, i rider del food delivery o i driver di Amazon hanno portato nuove forme di lotta o puntellato quelle in corso (si veda la puntata 4.3 sui gilets jaunes), prodotto nuovi modelli di sindacalismo auto-organizzato, e issato nuove rivendicazioni, squarciando il velo elegante e confortevole del capitalismo 4.0 (vedi puntata 3.5). Come percorso di ricerca collettiva abbiamo seguito, partecipato e scritto di questa effervescenza (si vedano le puntate 4.5, 4.6 e 4.7). Ancorati/e a un’attenzione puntuale rivolta a ciò che è circolazione (si veda la puntata 4.4), l’orizzonte degli ultimi anni ci è apparso (o, almeno, così ci sembra) piuttosto nitido e leggibile. Leggibile attraverso gli occhi della logistica (puntata 3.3).

    Certo, riunire scritti pensati singolarmente come facciamo in questo volume significa dare il là a un vero e proprio montaggio. E montare un film o una serie televisiva significa quasi riscriverli, collocandoli in un contesto narrativo differente. Costruire un nuovo significato rispetto alla mole di fotogrammi accumulati. Per fare il montaggio bisogna essere immersi nelle questioni tecnico-espressive e artistiche del film, saperne tirare le fila (coerenza della trama, caratterizzazione dei personaggi, comprensibilità delle idee di fondo, etc.), ma anche porsi dal punto di vista dello spettatore/ice che è totalmente all’oscuro delle problematiche e degli a priori del film.

    Per questo motivo, nel costruire questo volume abbiamo provato a fare un lavoro di montaggio doppio: esterno e interno. Da un lato tentiamo di restituire quello che abbiamo definito capitalismo a trazione logistica, capitalismo delle piattaforme, e delle tendenze e scenari di conflitto al suo interno. Lo facciamo mettendo in sequenza una serie di inquadrature (riquadri teorici) e di scene (stralci di inchiesta). Un montaggio che, come per tutta la nostra produzione, si svolge come un lavoro di équipe che si coadiuva procedendo per tagli, catalogazione, organizzazione, dialoghi, effetti speciali. Dall’altro lato, invece, abbiamo provato a riunire alcuni degli scritti che a noi sembrano più efficaci per restituire il nostro percorso, sperando che riproponendoli in una tale forma olistica risultino utili a raccontare una piccola storia collettiva del nostro presente.

    MONTAGGIO

    Ouverture

    Geminiano Montanari nasce a Modena il primo giugno 1633. Fino al 1664 studia, viaggia e lavora tra la Toscana, Salisburgo e Vienna, e tra il 1657 e il 1658 compie un avventuroso viaggio alle miniere d’argento di Ungheria, Boemia e Stiria allo scopo, tra l’altro, di sperimentare un’innovativa pompa idraulica. Dopo questo periodo lavorerà in università tra Bologna e Padova, dove morirà il 13 ottobre 1687. Montanari è un uomo di un’altra epoca, come si può dedurre dal fatto che il suo inquadramento come matematico si accompagna a riconoscimenti nei campi dell’ingegneria, della metallurgia, della meccanica, della fisica, dei moti celesti nonché delle tecniche amministrative e contabili, come pure dell’astrologia e dell’alchimia. Ma è soprattutto per i suoi studi sulla moneta che viene assoldato per varie ricerche, sia dai Medici fiorentini che dalle autorità veneziane, in un momento storico in cui circolavano quattro monete (quelle preziose d’oro e d’argento, quelle bancarie – le promesse di pagamento, quelle basse, a poco o nullo valore intrinseco – e, infine, quelle immaginarie, non circolanti, puramente contabili e legali). Contribuisce anche a realizzare un torchio a bilancia per il conio di speciali monete d’argento, che diverse zecche europee già producevano, usato dal Granduca fiorentino per contrabbandarle in Turchia e di qui in Persia, dove inteverrà direttamente il Gran Visir per interromperlo.

    Quando Marx descrive le condizioni degli operai di Londra parla dei loro quartieri come delle «miniere della miseria [che] vengono sfruttate dagli speculatori dell’edilizia con maggiore profitto e con minore spesa di quanto siano mai state sfruttate le miniere di Potosì. Il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica e quindi dei rapporti di proprietà capitalistici in genere diventa qui così evidente». Dopo questa metafora che su scala planetaria lega lo sviluppo della metropoli inglese all’estrazione di argento in Bolivia, Marx, in una nota, richiama una frase di Montanari tratta dal volume Della moneta (1683 circa), che raccoglie vari scritti non pubblicati. L’inattualità di Montanari trasuda dall’italiano che suona a noi desueto. Ma l’immagine che descrive pare essere una di quelle alle quali, in particolare con l’accelerazione storica vissuta con la pandemia, siamo abituati/e a simbolizzare il nostro presente. Scrive Montanari: «È così fattamente diffusa per tutto il globo terrestre la comunicazione de’ popoli insieme, che può quasi dirsi essere il mondo tutto divenuto una sola città in cui si fa perpetua fiera d’ogni mercanzia, e dove ogni uomo di tutto ciò che la terra, gli animali e l’umana industria altrove producono, può mediante il denaro stando in sua casa provvedersi e godere. Maravigliosa invenzione!».

    Come non pensare a una persona che, seduta in casa propria, ordina oggi su qualche piattaforma digitale una qualsiasi merce prodotta altrove per potersela godere? Montanari sembra dirci che au fond è l’astrazione del denaro che consente questa circolazione globale. Nei circa 350 anni trascorsi tra Montanari e noi, potremmo dire che lo scarto spazio-temporale tra l’astrazione capitalistica e la sua concretizzazione si è progressivamente ridotto, riempiendo il mondo di apparati logistici, infrastrutture, processi urbani, macchine.

    Scena I - 29 luglio 2021

    Nel porto di Rotterdam, fondato nel 1283, attracca la Ever Given, una delle navi portacontainer più grandi al mondo. Lunga quattrocento metri, a bordo trasporta 18.300 container con merci di ogni tipo per un valore stimato attorno ai 600 milioni di euro. Il viaggio della Ever Given era iniziato l’8 marzo a Yantian, in Cina, proseguito a Tanjung Pelepas (Malesia), e dopo aver scaricato parte del suo carico a Rotterdam terminerà le consegne nel Regno Unito, per poi riprendere le sue usuali rotte transoceaniche. Solitamente il viaggio è tuttavia molto più breve e fruttuoso. Una parte dei container sono infatti colmi di vestiario per la stagione estiva, che ormai sono fuori tempo massimo per essere commercializzati. E anche una serie di altre merci (in particolare di Ikea e Lenovo) potrebbero risultare ormai inutili. La nave infatti, qualche mese prima, è diventata un caso mondiale rimanendo incagliata nel Canale di Suez, bloccandolo totalmente per quasi una settimana a partire dal 23 marzo, ed è stata quindi costretta a fermarsi sino a inizio luglio per accertamenti e procedure legali.

    Il proprietario della Ever Given è la giapponese Shoei Kisen Kaisha, la nave è registrata a Panama, il management tecnico è della compagnia tedesca Bernhard Schulte Shipmanagement (Bsm), ma la compagnia di trasporti che la gestisce (la Evergreen Marine) ha la sede centrale a Luzhu (Taiwan). Quando si incaglia vicino al villaggio Manshiyet Rugola, per Shoei inizia una estenuante trattativa con il governo egiziano (richiesta: un miliardo di dollari di riparazione danni) che si concluderà con un accordo i cui termini non sono stati resi noi. Nel corso del contenzioso, a tre membri dell’equipaggio è consentito lasciare l’imbarcazione, cosa usualmente non concessa, in quanto il loro contratto a tempo è scaduto. Nonostante le dimensioni, la Ever Given ha a bordo solo il capitano (incriminato per l’incidente) e 25 marinai, tutti indiani e con contratti per lo più legati a singole missioni. D’altronde la storia degli equipaggi marittimi è intrecciata a doppio filo con la storia del colonialismo, tanto che ancora oggi le crew marittime globali sono composte in prevalenza da forza lavoro cinese, filippina, indiana e indonesiana.

    Scena II - 27 novembre 2020

    È ancora notte a Kemps Creek, nel Nuovo Galles del Sud (Australia), all’estrema propaggine dell’immenso sprawl urbano che costeggia il cuore di Sydney nell’entroterra, dalla parte opposta al mare di Tasman. Il più grande magazzino australiano di Amazon (grande quanto 24 campi da rugby) è in piena funzione, tra poche ore le flotte di driver inizieranno a sparpagliarsi per una tra le giornate di lavoro (ormai in realtà la distinzione giorno/notte non corrisponde più alla dicotomia lavoro/sonno) più pesanti, quella del Black Friday, dove il giro di vendite di Amazon ha numeri da capogiro. La forza lavoro di Amazon, 1.2 milioni di impiegati diretti a livello globale, è oggi spremuta al massimo, e affiancata da altre centinaia di migliaia di lavoratori/ici assunti per l’occasione. Dopo Kemps Creek a partire saranno i driver di Daito, estrema periferia di Osaka (Giappone), assieme agli altri otto Fullfilment center (i magazzini in linguaggio amazonese) nipponici. Inseguendo il sorgere del sole toccherà quindi alle altre centinaia di magazzini sparsi per India, Arabia Saudita, Turchia, svariati paesi europei, per concludere la giornata in Brasile, Stati Uniti e Canada – i contesti nei quali opera quotidianamente Amazon.

    Questa dorsale logistica planetaria che pompa merci all’interno di centinaia di milioni di abitazioni emette ogni anno cinquanta milioni di tonnellate di CO2, ma la multinazionale tecnologica ha progressivamente assunto un profilo da impero non basandosi solo su questa mega-macchina della distribuzione, bensì diversificando il suo business in maniera estremamente ramificata, aggiungendo all’e-commerce il cloud computing, lo streaming digitale, l’intelligenza artificiale. Amazon è parte delle cosiddette Big Tech, tra le più influenti compagnie del pianeta e detiene un capitale di molto superiore al Pil di numerosi Stati. Il suo fondatore, Jeff Bezos, si è lanciato negli ultimi anni verso la nuova frontiera dell’economia spaziale, progettando turismo extra-orbitale per ricchi. Il 21 giugno 2021, dopo aver completato il suo volo inaugurale di 10 minuti fino alla cuspide dello spazio esterno e ritorno, dal deserto del Texas occidentale, Bezos, vestito con una tuta spaziale blu e un cappello da cowboy, ha mandato un tweet ringraziando i dipendenti e i clienti di Amazon, notando che: «Hanno pagato per tutto questo». Sui social è partita una ridda di commenti che dicevano che: «Sì, i lavoratori di Amazon hanno pagato con salari più bassi, la rottura dei sindacati, un luogo di lavoro frenetico e disumano, e gli autisti di consegna che non hanno l’assicurazione sanitaria durante una pandemia […] E i clienti di Amazon stanno pagando perché Amazon abusa del suo potere di mercato per danneggiare le piccole imprese».

    Scena III - 16 marzo 2019

    Sin dalla mattina violenti scontri avvolgono gli Champs-Élysées, una delle strade più famose e lussuose di Parigi e del mondo. Fino al 1616 in quella via c’erano dei semplici campi, fu Maria de’ Medici a far costruire un percorso alberato che si estendeva dal Louvre fino alla Tuileries. Attraverseranno le diverse stagioni della storia francese e tutt’ora sono un simbolo contestato. Fino a sera decine di migliaia di persone manifestano e a fine giornata moltissimi negozi di lusso e ristoranti esclusivi sono in fiamme. Numerosi i negozi saccheggiati e gli assalti ai blindati delle forze dell’ordine. Si stimano 200 milioni di euro di danni. La mobilitazione va in scena in tutto il paese e s’intreccia con i cortei per la giustizia climatica, e la giornata – il diciottesimo sabato di fila di protesta – è particolarmente dura perché cade il giorno successivo alla chiusura della consultazione nazionale proposta da Macron per dibattere su alcune rivendicazioni dei gilet gialli.

    Le migliaia di pettorine catarifrangenti che si aggirano per le vie del lusso vengono spesso da fuori Parigi e sono il simbolo di un movimento nato a partire dalla scintilla di un aumento dei costi del trasporto, e non è un caso che sia una strada e non una piazza il terreno della loro battaglia. La forza del movimento è stata d’altro canto il blocco delle rotonde stradali diffuse su tutto il territorio, l’inceppamento della circolazione e l’interruzione dello scorrere del tempo capitalistico, dall’altro l’imposizione di una rigidità temporale che per mesi e mesi si è definita nella mobilitazione di tutti i sabati, gli Atti dei gilets jaunes .

    Scena IV – 22 gennaio 2018

    Più di 50 rider di Hong Kong si sono ritrovati davanti alla sede di Deliveroo in Jervois Street per dar vita a uno sciopero contro un cambio nella app con cui lavorano e che rischiava di abbassare le loro paghe. Qualche giorno prima anche in Belgio e Olanda i fattorini del food delivery – queste nuove soggettività del lavoro che hanno iniziato a popolare le strade delle principali città del mondo con i loro borsoni dai colori sgargianti quasi fossero degli enormi cartelloni pubblicitari su due ruote – per via della decisione dell’azienda di trasformarli in lavoratori autonomi. A Parigi durante un altro sciopero i loro colleghi del neonato Clap – Collectif des livreurs autonomes de Paris – hanno esposto uno striscione che recita: «La rue est notre usine». La strada è la nostra fabbrica. Uno slogan semplice ma che riassume efficacemente sia la dislocazione dei processi produttivi all’interno degli spazi urbani sia la costituzione di nuove soggettività operaie metropolitane. Scioperare non vuol dire tanto bloccare la produzione quanto inceppare i flussi, impedire la copertura di quel maledetto ultimo miglio che va fatto nel più breve tempo possibile. Ad aprile la prima assemblea italiana delle unions – forme innovative di sindacalismo metropolitano basate sull’auto-organizzazione e il conflitto – tenutasi a Bologna ha lanciato il primo logout collettivo dalle piattaforme di food delivery contro quella che i rider hanno ribattezzato la schiavitù dell’algoritmo. La data scelta non è casuale – il primo maggio – come a segnare una ricollocazione di questa figura emblematica del capitalismo delle piattaforme all’interno di un patrimonio collettivo di lotte di classe piuttosto che sotto l’ombrello della retorica neoliberale dell’imprenditore di sé stesso.

    Intermezzo

    Il découpage è un metodo di analisi critica di un film, che esamina nel dettaglio la messa in scena operata dal regista. Etimologicamente deriva dalla parola francese découper che significa frammentare. Possiamo dire di aver adottato metodologicamente un procedimento di analisi critica che ha scomposto in alcune scene i flussi capitalistici, frammentandole e approfondendole in quanto tali. In fase di post produzione si tratta però di rimontarle, provando dopo il primo approccio scompositivo a dar loro un differente significato. Questa operazione serve per togliere normalità alle operazioni del capitale, cercando di portarne in risalto quell’aspetto gotico, alchemico, fantasmatico che l’analisi marxiana attribuisce al capitale. La realtà del capitale è infatti popolata da entità spettrali, un «mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose» ( Il Capitale, III, p. 943). L’oggettività spettrale della merce che fluisce cela al suo interno un arcano, la radice materiale dell’accumulazione. Lo sfruttamento del lavoro vivo. La doppia faccia degli spettri di Marx, dove il carattere fantasmatico del capitale deriva dall’avere carattere sociale ed essere una semplice cosa. E dove il lavoro vivo è spettro che può però tramutarsi in un fantasma che si aggira.

    Lasciando a chi legge la possibilità di un proprio montaggio delle quattro scene da poco presentate, qui proponiamo una tecnica connotativa alla Sergej Ėjzenštejn. Ossia: frammentiamo l’immagine unitaria del capitale per costruire un significato differente attraverso l’associazione di scene che prese singolarmente avrebbero una valenza diversa. Proponiamo di seguito alcuni riquadri per questa differente traiettoria interpretativa.

    Il punto che ci sembra importante da preservare è quello di costruire una comprensione sofisticata del presente che miri a tenere insieme uno scandaglio delle dinamiche oggettive, di potere e di comando – sistemiche se vogliamo – con i conflitti, le lotte, le alternative, i potenziali di rottura che si producono costantemente al loro interno. Legare, in altre parole, circolazione e riproduzione capitalista – la logistica del capitale – con il suo costante contro-piano – il fil rouge del lavoro vivo, della sua autonomia e della sua ribellione.

    Per rimanere sulla metafora cinematografica, si tratta di praticare un continuo campo-controcampo, mostrare la caratteristica dialettica, la natura relazionale del rapporto di capitale, il suo sviluppo incerto, non lineare né predefinito. Di fronte a un presente che appare come un immane Capital Game apparentemente senza via d’uscita, suggeriamo di guardare alla radice antagonistica del rapporto di capitale, rovesciare e rimontare le sue scene, per scrivere finali differenti. Con Capital Game richiamiamo evidentemente la fortunata serie tv dal successo planetario Squid Game, e più in profondità intendiamo alludere al carattere complessivo assunto oggi dalla sussunzione reale capitalista.

    I° riquadro: Le frontiere del conflitto

    Il concetto di frontiera oggi ha assunto un significato epistemico decisamente ampio. Sandro Mezzadra e Brett Neilson hanno costruito un libro intero su questo termine, 1 e anche nei loro lavori più recenti esso assume carattere cruciale. In generale ci sembra che l’utilizzo che fanno questi due studiosi del concetto di frontiera sia conseguente a un’analisi del capitalismo contemporaneo inteso come un rapporto sociale che, attraverso la sua capacità estrattiva, «attinge ai suoi molteplici fuori per sostenersi e perpetuarsi». 2

    Frontiera, in questo senso, definisce quanto sta all'interno del capitalismo e quanto sta potenzialmente fuori (come, ad esempio le pratiche di cooperazione sociale) in una prospettica generale che vede il capitalismo alla continua ricerca/costruzione di nuovi territori e nuovi processi di accumulazione da innescare.

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