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Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 2-3 MAGGIO-DICEMBRE 2018
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 2-3 MAGGIO-DICEMBRE 2018
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 2-3 MAGGIO-DICEMBRE 2018
E-book377 pagine3 ore

Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 2-3 MAGGIO-DICEMBRE 2018

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Fondata nel 1979 da Mario Gabriele Giordano, “Riscontri”, la Rivista che Mario Pomilio ebbe a definire “bella e severa”, ha sempre conservato la sua fondamentale connotazione così originariamente definita nell’Editoriale programmatico: «la fede in una cultura che non sia strumento in rapporto a fini prestabiliti, ma coscienza critica della realtà; non filiazione di precostituite ideologie, ma matrice di fatti e di comportamenti anche etici e politici: che insomma proceda e operi nel vivo della comunità civile non per dogmi ma per riscontri».

Sommario: Francesco D’Episcopo, «Riscontri» di vita e di cultura; Ettore Barra, Il governo dei mercati; Alessandro Ruffo, Napoleone in Egitto. Incomprensioni e fraintendimenti agli albori dell’orientalismo moderno; Marco Mercato, Il sogno concreto. Dalla città ideale alla città reale nel secondo Quattrocento; Raffaele Di Zenzo, Joseph Tusiani: poeta e scrittore in quattro lingue; John Butcher, Remo Ceserani commentatore dell’Orlando furioso; Dario Rivarossa, Vittorio Pica: lʼumile coraggio dellʼuomo atlante; Francesco Barra, Fra Diavolo e Lèopold-Sigisbert Hugo; Tina D’Aniello Di Benedetto, Scienza e tecnica nella ricerca archimedea; Lorenzo Mori, Il pericolo ottomano in Europa. Giovanni III Sobieski e l’assedio di Vienna; Mario Losco, Cinque nuove indagini crociane; Francesco D’Episcopo, Decadenza della cultura; Giuseppina Di Luna, Una lanterna accesa nell’oscurità dei nostri tempi. Gli aforismi di Mario Gabriele Giordano; Arianna Cerusa, La Trinità Bantu. Viaggio nella Svizzera di Max Lobe; Mariella Zarrilli, Viaggio nei Seventies. Gli anni settanta di Carlo Crescitelli.
LinguaItaliano
Data di uscita4 gen 2019
ISBN9788829589548
Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità: N. 2-3 MAGGIO-DICEMBRE 2018

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    Anteprima del libro

    Riscontri. Rivista di Cultura e di Attualità - AA,VV.

    Note

    «RISCONTRI» DI VITA E DI CULTURA

    Due volte, nella vita, mi è capitato di dover dire no alla direzione di una rivista: la prima, con il caro eroico amico editore Luigi Pellegrini di Cosenza, dove avrei dovuto prendere il posto di un meritorio critico meridionalista, Francesco Bruno, che, per una strana legge di contrappasso, avrei studiato e riscoperto, restituendolo in pieno alla letteratura meridionale e nazionale; una seconda volta, con l’altrettanto caro ed eroico amico Mario Gabriele Giordano, il quale aveva affettuosamente insistito perché prendessi le redini di una rivista, che, negli ultimi anni, avevamo, lui ed io, fatto di tutto per farla sopravvivere, inventandoci importanti fascicoli monografici e adottandola persino nell’Università. Ma a nulla sono valsi i nostri sforzi: le spietate leggi dell’economia hanno avuto ancora una volta la meglio su quelle fortemente fragili di una cultura, la nostra, nonostante tutto, libera e felice, che ha lasciato segni non trascurabili del suo passaggio.

    In un’altra occasione, collaborando ancora con una casa editrice meridionale, le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli, ero stato coinvolto in un’opera di salvataggio di una storica testata meridionale Nord e Sud: anch’essa senza fortuna, per una serie di incidenti di percorso, che non è qui il caso di riportare e ricordare.

    Dirigere una rivista è compito estremamente impegnativo, che richiede tempo e fatica inesauribili, e questo ben lo sa chi, come me, nel corso della sua densa e intensa attività di studioso, ha dovuto curare voluminosi atti di convegni, opere collettanee, quindi di vari autori, da sottoporre ad una rigorosa opera di adeguamento a comuni norme tipografiche ed editoriali. Forse anche per questa ragione ho rinunciato persino di dirigere, presso la prestigiosa casa editrice napoletana appena menzionata, una importante collana di italianistica da me inventata e che ancora continua le sue gloriose pubblicazioni.

    Il futuro, in tal senso, è dei giovani, dotati di fresche energie da devolvere alla causa comune. Nel caso specifico di Riscontri, poi, Mario Gabriele Giordano voleva che la rivista, a ragione, continuasse le sue pubblicazioni ad Avellino, capoluogo della provincia, che gli ha dato i natali e che a me è particolarmente cara per ragioni umane e culturali. Noi, dell’antica redazione, siamo dunque particolarmente lieti e soddisfatti che la rivista sia passata nelle giuste mani di un giovane editore irpino, Ettore Barra, una garanzia scientifica per il cognome che porta e quotidianamente vive in famiglia, ma anche una sicura speranza per una editoria, che in Irpinia negli ultimi anni si era svuotata di nomi e di testate di storico rilievo. Auguri, dunque, a questa nuova serie, alla quale non faremo mancare il nostro apporto culturale, ma non solo, da buoni meridionalisti, convinti sempre più che, come in famiglia, se non ci aiutiamo noi, non ci aiuta nessuno.

    Dell’antica stagione ricorderemo i viaggi avventurosi con Mario Gabriele Giordano presso tipografie, ancora governate dalle dure leggi del piombo e dalla saggia guida di espertissimi proti, chiamati a governarlo, come nella chiusura di uno storico fascicolo su Alfonso Gatto e le arti figurative, da me curato con particolare amore e seguito con altrettanto amore dall’allora Direttore. Ancora ricorderemo i molti convegni, presentazioni, presso la storica Biblioteca Provinciale di Avellino, e altrove, il coraggio e la forza, mostrati nel proporre corposi fascicoli monografici, alcuni a cura esclusiva dello scrivente, ma anche di altri meritori studiosi, in compagnia talvolta di Mario Gabriele Giordano. Sarebbe, in tal senso, utile riproporre l’elenco completo di questi fascicoli; idea che suggerii all’allora Direttore, che la eseguì, però, non per sua colpa, con scarsa eleganza tipografica. Chi poi volesse solo avere sentore di ciò che Riscontri ha fatto potrà andare a leggere la bella lapide marmorea che adorna il muro dello stabile, dove sorgeva la storica tipografia Pergola, nel cuore di Avellino, alla quale, si deve, tra l’altro la stampa della prima silloge poetica di Alfonso Gatto, Isola, che il poeta salernitano, innamorato del capoluogo irpino, pubblicò grazie all’aiuto economico della famiglia Muscetta, che aveva una avviata attività commerciale nel rione Ferrovia. Quanti ricordi e quanti personaggi, molti purtroppo scomparsi, affollano un album di ricordi, che invitano tuttavia a credere nel futuro e a proporre, come ulteriore e significativa iniziativa, la pubblicazione degli Indici di Riscontri. Solo allora, infatti, chi legge potrà rendersi effettivamente conto di ciò che abbiamo ed hanno fatto uomini autentici di cultura, che si sono ritrovati, come dinanzi ad un irpino focolare domestico, intorno a Riscontri, una rivista che ha imposto, con serietà e sobrietà, la centralità della periferia ad un Paese sempre distratto e assente.

    Francesco D’Episcopo

    IL GOVERNO DEI MERCATI

    Editoriale

    Quando Aristotele elaborò la sua brillante teoria sulle forme di governo, più di duemila anni fa, non sarebbe stato possibile nemmeno immaginare un governo non politico. Infatti in tutte e tre le forme di governo individuate nella Politica – ovvero monarchia, aristocrazia e democrazia (così come nelle loro rispettive degenerazioni) – a farla da padrone era in ogni caso il noto «animale politico». Forse se lo Stagirita ripetesse oggi il suo studio parlerebbe piuttosto di «animale economico». Oppure, tradotto in termini più moderni, di operatore finanziario. Quel poco che resta, infatti, del dibattito politico è monopolizzato dalla gara tra chi ritiene di interpretare meglio i desiderata dei mercati.

    Senza aver prima consultato, come oracoli, le agenzie rating è oggigiorno impensabile approvare una manovra economica e perfino varare un nuovo governo. Mentre nell’antichità gli oracoli, come quello di Delfi, venivano interpellati solo per sancire – come profezie post eventum – le decisioni che la politica aveva già preso, oggi avviene l’esatto contrario. Dagli oracoli contemporanei si pretendono invece previsioni e vaticini esatti del futuro, sempre puntualmente smentiti.

    Se la borsa crolla è dovere del politico fare un passo indietro o, come si suol dire con marcato eufemismo, di lato. E così, quasi senza farci caso, si è passati ad un vero e proprio governo dei mercati che la quasi totalità dei commentatori accetta, tacitamente, come unica forma di governo ormai possibile. Forma di governo, però, del tutto inedita e quindi dagli esiti imprevedibili.

    Non si vuole certamente indulgere qui in prospettive complottiste. Quella finanziaria è una realtà internazionale, composta da una tale molteplicità di piccoli e grandi operatori da rendere impensabile l’esistenza di qualsiasi complotto. La storia infatti, piena di congiure e complotti, dimostra che essi possono realizzarsi solo su scala locale e mai in dimensioni più grandi. Per il semplice motivo che le cospirazioni sono fondate sulla segretezza e quando qualcosa è noto oltre un certo numero di persone, statisticamente, non è più possibile mantenere il segreto. Né d’altro canto, pur con tutti i mezzi di comunicazione oggi a disposizione, sarebbe possibile coordinarsi in una realtà così complessa.

    Se non complottano è altresì vero, per quanto possa sembrare banale ricordarlo, che gli operatori finanziari fanno il proprio interesse: e che nel farlo molto spesso speculano. Le riflessioni che si potrebbero fare in proposito sono tante. Ad esempio, come può la speculazione finanziaria influenzare positivamente l’azione di governo? Nel momento in cui la speculazione prende di mira un Paese, scommettendo sul suo default, fino a che punto può essere utile al governo lasciarsi spingere nella direzione voluta dai mercati? Per non parlare del fatto che i mercati non rispondono alla volontà popolare e non hanno come fine il bene comune, la cui salvaguardia dovrebbe invece essere l’obiettivo della politica.

    Inoltre un buon governo dovrebbe avere tra le sue qualità la lungimiranza e il sangue freddo, virtù difficile da trovare nella Borsa. Con le sue continue cadute ed impennate che nessun esperto può mai spiegare fino in fondo, anche a causa della grande rilevanza del fattore piscologico-emotivo che ne caratterizza l’attività. Può davvero un’azione di governo abbandonarsi ai capricci e ai sobbalzi di umore di una simile realtà?

    Eppure non sempre è stato così, e in realtà sembra che per ora i mercati siano stati chiamati alla responsabilità di governo solo nell’ambito dell’Unione Europea. Per dimostrarlo basta fare due semplici esempi: l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e la Brexit. A prescindere dal giudizio politico che ciascuno può avere riguardo i due avvenimenti, come dimenticare le preoccupanti fibrillazioni dei mercati in attesa del temuto responso popolare? Responso, in entrambi i casi, rivelatosi negativo rispetto alle speranze e alle attese degli operatori finanziari. Senza che però questo innescasse gli scenari apocalittici paventati da molti commentatori politici, non sempre interessati ad uno studio della realtà sine ira et studio. Come quel giornalista che accusava rabbiosamente Trump di stare distruggendo l’economia americana già solo con la sua elezione, visti i cali di borsa dei primi giorni di mandato. Salvo poi, ristabilizzatisi i mercati, spiegare che sì – alla fine – il Presidente e i mercati avevano fatto pace perché «tra ricchi ci si capisce sempre». Con un plateale voltafaccia e repentino passaggio, consumatosi nel giro di due giorni, da un atteggiamento turbo-capitalista ad uno di stampo vetero-comunista.

    Perché, dunque, i mercati hanno risparmiato dalla loro ira il popolo statunitense e quello britannico? La risposta è che, a ben vedere, non possono permettersi di attuare le loro minacce. Nel mondo anglosassone anche gli interessi finanziari si inquadrano in un contesto istituzionale solido, dove i governi mantengono l’autonomia decisionale e sono in grado di trovare soluzioni di sintesi. Se, da un lato, gli operatori finanziari portano avanti i loro interessi, dall’altro ci sono governi pronti a reagire contro gli attacchi speculativi. Inoltre, proprio perché gli operatori finanziari perseguono i propri interessi, la loro convenienza sta tutta nell’adeguarsi – il più velocemente possibile – ai nuovi scenari politici. E non nello sfidarli indefinitamente, per motivi ideologici, in una guerra senza quartiere che – col crollo dell’intero sistema – segnerebbe anche la loro rovina.

    Se effettivamente gli stati non possono più fare a meno dei mercati finanziari, non per questo gli operatori economici possono assurgere a funzioni di governo. In paradigmi surreali dove il governo propone e il mercato dispone. L’invadenza di quest’ultimo, dopo la crisi greca, è così evidente che, anche in assenza di attacchi speculativi, si invoca talvolta il suo intervento diretto. Come nel caso del referendum costituzionale del 2016 che se bocciato – come effettivamente accadde – avrebbe portato il Paese al collasso. Così si diceva, per una questione che invece lasciava del tutto indifferenti le borse. O, ancora, come nel caso della manovra economica 2019 la cui impostazione espansiva non ha mai veramente spaventato i mercati. Questi ultimi, infatti, hanno reagito male solo nei momenti di maggior tensione tra il governo italiano e la commissione europea, che invocava, per l’appunto, l’intervento rieducativo da parte delle borse.

    C’è da dire che, almeno fino a qualche decennio fa, nessun operatore finanziario avrebbe mai nemmeno immaginato di poter assumere un tale – costante – ruolo direttivo (o, per meglio dire, coercitivo) come di fatto si registra oggi in Europa. Se ciò è potuto accadere è solo per una rinuncia della politica dettata da calcolo o da disinteresse. Tutto l’impianto politico-finanziario UE, con un Parlamento debole e una Banca centrale che – caso unico al mondo – per statuto non governa la sua moneta, sembra costruito in questa direzione. Come se la politica avesse deciso di non decidere, lasciando lo sviluppo economico-sociale nelle mani della speculazione finanziaria, in un rinnovato stato «di guerra di tutti contro tutti» e di feroce darwinismo sociale. Oppure, caso ancor più inquietante, come se l’architetto del grande edificio europeo avesse volutamente inserito dei difetti di progettazione tali da facilitare le incursioni dall’esterno. Nella folle convinzione di poter controllare la speculazione indirizzandola contro i propri avversari interni e lasciandole il lavoro sporco. Come se la belva – una volta lasciata scorrazzare liberamente per il continente – non fosse destinata ad aggredire anche il suo benefattore una volta finite le prede.

    Ettore Barra

    NAPOLEONE IN EGITTO. Incomprensioni e fraintendimenti agli albori dell’orientalismo moderno

    Studi e contributi

    I presupposti culturali della spedizione napoleonica

    «Qui tutto si riduce a nulla: la mia gloria è già superata; questa minuscola Europa non le offre abbastanza. Dobbiamo andare in Oriente; tutte le grandi glorie vengono di là»[1].

    Fauvelet de Bourrienne, segretario personale di Napoleone, gli attribuisce queste significative parole, pronunciate poco prima della partenza per la Campagna d’Egitto. Esse evidenziano l’atteggiamento con cui il grande condottiero si apprestava alla sua prima spedizione in un territorio orientale. Al di là delle realistiche mire politiche che lo animavano, ad affascinarlo era l’idea dell’Oriente come culla di tutti i grandi imperi, unico luogo in grado di permettere ad un uomo in cerca di gloria di affermare la propria essenza. Ed è proprio esprimendo simili concetti che egli descriverà la propria esperienza egiziana:

    In Egitto, mi trovai libero dagli ostacoli di una civiltà opprimente. Ero pieno di sogni... Mi vedevo fondare una religione, avanzare nel cuore dell’Asia, guidare un elefante, con un turbante in capo, e in mano il nuovo Corano che avrei composto secondo le mie esigenze. Nelle mie imprese avrei fuso le esperienze dei due mondi, sfruttando a mio vantaggio il teatro di tutta la storia, attaccando la potenza dell’Inghilterra in India, e riprendendo contatto, mediante questa conquista, con la vecchia Europa[2].

    È improbabile che Napoleone ritenesse realizzabili in toto tali sogni, ma il fatto stesso che li avesse è indice di un’attrazione che va ben oltre la dimensione utilitaristica. I primi contatti del Bonaparte con l’Egitto e con la sua favolosa descrizione risalgono all’adolescenza e sono facilmente rintracciabili nei suoi manoscritti giovanili. Ciò che è più importante sottolineare è come fu sulla visione a metà tra il mitico e l’ideologico offerta dai testi classici e da quelli degli orientalisti francesi, che ad essi si rifacevano, piuttosto che sui dati provenienti dalla realtà empirica, che Napoleone basò non soltanto l’idea della conquista egiziana ma la sua stessa pianificazione pratica nella piena convinzione che non vi fossero sostanziali differenze tra il contenuto dei testi e la realtà[3].

    Particolarmente importanti per la pianificazione della Campagna d’Egitto furono le opere del filosofo ed orientalista francese Constantin-François de Volney. Ciò che di esse più colpì il Bonaparte fu l’elenco degli ostacoli che un ipotetico corpo di spedizione francese avrebbe incontrato invadendo l’Egitto. Secondo de Volney i conquistatori si sarebbero trovati a combattere tre guerre: una contro l’Inghilterra e i suoi interessi locali, una contro l’Impero Ottomano e una contro i musulmani. Grazie alle sue avvertenze, di cui Napoleone fece tesoro, de Volney diventò un autore fondamentale per chiunque volesse accostarsi all’Oriente e le sue opere iniziarono ad essere viste come ciò che avrebbe permesso all’uomo occidentale di non lasciarsi confondere dall’Oriente rendendolo un frutto da cogliere a piacimento[4].

    Un altro esempio dell’atteggiamento testuale di Napoleone, termine con cui si intende la tendenza ad identificare l’Egitto presente nei testi con quello reale, è dato dalle motivazioni per cui fondò l’Institut d’Ègypte. Egli scelse infatti di portare con sé una nutrita équipe di studiosi con il preciso scopo di schematizzare ciò che avrebbero visto includendolo all’interno del quadro offerto dalla cultura francese. Per conquistare realmente l’Egitto era necessario prenderne possesso a livello concettuale, rendendo la sua stessa esistenza subordinata al significato attribuitogli dagli europei. Ma qual era, per Napoleone, questo significato?

    L’Egitto era considerato un punto nodale nei rapporti tra Africa, Asia ed Europa, il luogo in cui si era svolta una storia che coinvolgeva grandi nomi occidentali oltre che la patria di arti e monumenti di una civiltà un tempo fiorente. Al di là della sua importanza strategica, dunque, la conquista dell’Egitto andava portata a termine per ciò che esso aveva significato nel passato e per le relazioni che aveva intessuto con la storia dell’Europa. Conquistare l’Egitto diventava il modo per una nazione moderna di affermare la propria forza e la fondatezza delle proprie ambizioni di dominio mostrandosi capace di fare propria un’importante espressione dell’antichità stessa[5]. Per Napoleone e per gli orientalisti francesi l’Egitto moderno e la sua conquista dunque non avevano alcun valore intrinseco ma ne acquisivano uno soltanto in virtù di un passato glorioso di stretti contatti con l’Occidente. Il significato stesso dell’esistenza dell’Egitto diveniva quello di essere conquistato dalla Francia e ricevere da essa i benefici della civiltà. Ancora da mettere in atto su un piano pratico, la conquista era già avvenuta nella mente di Napoleone poiché il destino dell’Egitto non poteva essere

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