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Panarchia: Un paradigma per la società multiculturale
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E-book334 pagine5 ore

Panarchia: Un paradigma per la società multiculturale

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Info su questo ebook

Per secoli siamo stati abituati a considerare la politica nel suo rapporto con la territorialità. Abbiamo imparato ad adorare, come un idolo, lo Stato-nazione. Ci siamo convinti che fosse naturale, entro un certo spazio, che degli esperti o delle maggioranze decidessero su tutto e che lo decidessero per tutti. Ma all'alba del ventunesimo secolo questo modello non funziona più: viviamo in una società multiculturale, frammentata, solcata da tensioni. Una parte crescente dei rapporti umani ed economici si svolge in una dimensione immateriale. Oggi insomma siamo chiamati a ripensare la nostra idea di organizzazione sociale: ripensare il ruolo dello Stato e, di converso, quello degli individui e delle comunità. Abbiamo bisogno di regole, certo, ma queste regole devono adattarsi alla varietà delle forme di vita che abitano il mondo. È infine giunto il tempo della panarchia?
LinguaItaliano
EditoreD Editore
Data di uscita7 giu 2017
ISBN9788894830095
Panarchia: Un paradigma per la società multiculturale

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    Panarchia - Gian Piero de Bellis

    Gian Piero de Bellis

    Panarchia

    Un paradigma per la società multiculturale

    Panarchia

    Un Paradigma per la società multiculturale

    a cura di Gian Piero de Bellis

    Prefazione di Raffaele Alberto Ventura

    Questo libro è stato edito da D Editore per la collana ESCHATON

    D Editore adotta la procedura della double peer review.

    Copyright D Editore © 2017. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione puo essere fotocopiata, riprodotta, archiviata memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore.

    D Editore

    Roma

    Contatti:

    Telefono: +39 320 8036613

    www.deditore.com

    info@deditore.com

    ISBN: 9788894830095

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione: Il tempo della Panarchia

    Introduzione: ​La Panarchia. Nascita, ripresa e diffusione di una idea

    Atto I

    Sulla produzione della sicurezza (1849)

    Resoconto di una seduta della Società di Economia Politica di Parigi (Ottobre 1849)

    Atto II

    Panarchia (1860)

    Una recensione all'articolo Panarchie di Paul-Émile de Puydt (1860)

    Alla scoperta di Paul-Émile de Puydt (2008)

    Atto III

    Panarchia. Una idea dimenticata del 1860 (1909)

    Alcune idee false sull'anarchia (1905)

    Atto IV

    Verso le comunità volontarie (1986)

    Note su panarchia e anarchia (1986)

    Atto V

    Sul volontarismo (1885)

    Antecedenti di una società anarchica (1894)

    La concezione anarchica (1901)

    L'Unione Cosmopolita (1930)

    Parole di un Vedente (1934)

    Anarchia senza additivi ideologici (1980)

    Lo Stato (1952)

    La legge della varietà necessaria (1956)

    La democrazia con la d minuscola (1962)

    Systemantics (1975)

    La teoria del multigoverno (1977)

    Atto VI

    Scegliere la propria nazionalità (La storia dimenticata dell'autonomia culturale) (2000)

    Ai monopolisti di tutti i partiti (2005)

    Panarchia, Poliarchia, Personarchia (2005)

    Libertà di gestione (2009)

    Riflessioni sulla panarchia (2013-2014)

    Appendice La panarchia, ovvero il contratto personale e le comunità volontarie non territoriali

    Note

    Prefazione: Il tempo della Panarchia

    di Raffaele Alberto Ventura

    La panarchia sta per tornare di moda: e dire che non lo è mai stata. Le prestigiose edizioni universitarie Routledge hanno da poco pubblicato l’antologia Panarchy. Political Theories of Non-Territorial States [1] che segna di fatto il debutto in società di una dottrina che ha molti padri.

    Il primo padre è Paul-Émile de Puydt, un botanico belga che nel 1860 pubblica sulla Revue Trimestrielle di Bruxelles un articolo intitolato appunto Panarchia. L’autore, appassionato di economia politica, vi presenta la sua curiosa invenzione ovvero un ambizioso progetto di riforma sociale che, per sua sfortuna, cadrà direttamente nel dimenticatoio. Ci sarebbe rimasto per sempre se negli anni Cinquanta l’attivista libertario tedesco John Zube non avesse scoperto, tradotto e archiviato il testo, per poi smarrire l’originale nel suo esodo verso l’Australia dove tutt’ora vive.

    E questo ci porta al secondo padre. Senza nulla conoscere del precedente, Gian Piero de Bellis ha semplicemente reinventato la parola alla fine del suo saggio Poliarchia: un paradigma [2] pubblicato in rete nel 2000. Pochi mesi dopo, John Zube lo contatta e gli rivela l’esistenza del testo di de Puydt, cosicché de Bellis comincia a indagare la storia del concetto. Dopo lunghe ricerche, riesce a ritrovare un esemplare dell’articolo originale alla Bibliothèque Royale de Belgique e fonda il sito panarchy.org, che raccoglie suoi testi inediti e altro materiale. Così inizia la costruzione retrospettiva di una nuova tradizione intellettuale a metà strada tra anarchia e libertarianismo, nella quale convergono autori tra loro inconciliabili come il liberale Gustave de Molinari e l’anarchico Max Nettlau. A nutrire la riflessione intervengono anche nomi molto diversi come Marx e Rothbard, Hilferding e von Mises, Marcuse e Stirner, Schumpeter e Illich. Questo spudorato eclettismo è la chiave di tutto, perché secondo de Bellis sarebbero le vecchie categorie politiche a tenerci prigionieri di alternative sterili.

    Di panarchia continua a non parlare praticamente nessuno, ma le idee sono nell’aria. Tutto sta nel riuscire ad agglutinarle attorno a quella parola. Rilevando delle affinità nella riflessione di uno studioso dell’università di Harvard, Aviezer Tucker, de Bellis lo contatta e lo informa sulla panarchia. Anche in questo caso, il concetto sembra riempire un vuoto e fa scattare qualcosa. È lui il terzo padre che cercavamo: nel corso delle sue ricerche sugli stati non-territoriali e sull’ideologia della Silicon Valley, Tucker finisce per fare della panarchia la chiave di volta di una teoria metapolitica che formula in due articoli del 2010. Il titolo del secondo è emblematico: Sovereignty without Territory, Emigration without Movement: The Panarchist Solution [3].

    Sovranità senza territorio

    È in questo articolo che Tucker avverte: «È possibile svincolare la sovranità dalla territorialità ovvero immaginare stati non-territoriali». Così facendo, sostiene lo studioso con allegro ottimismo, «i fenomeni migratori cesserebbero di essere un problema politico». Ma in fin dei conti non è che abbiamo davvero una scelta: secondo Tucker «sono le stesse trasformazioni tecnologiche ed economiche associate alla globalizzazione che di fatto stanno avvicinando la situazione mondiale a uno stato di panarchia».

    L’antologia uscita per Routledge, curata proprio da Tucker e de Bellis, si prefigge l’obiettivo di indagare l’attualità del concetto di panarchia a fronte dell’emergenza di fenomeni disparati: l risveglio dei nazionalismi, la coesistenza di culture negli spazi urbani, lo sviluppo del cloud computing, dei social network e delle cripto-valute come Bitcoin, ma anche la nascita delle cosiddette micronazioni… Fenomeni per i quali le categorie politico-giuridiche tradizionali si mostrano inadeguate e per i quali la trasformazione della politica in una cloud pare una conseguenza plausibile.

    Ma che cos’è, dunque, la panarchia? Ci sono tante idee di panarchia quanti sono i suoi padri, quindi cominciamo dal primo. Per molti aspetti Paul-Émile de Puydt, peraltro notevolissimo acquarellista di orchidee, non è altro che un liberale classico, molto classico. Un seguace di Adam Smith insomma. Ma basta valicare lo scoglio dei suoi peana di circostanza in onore del Laissez-faire per arrivare al cuore della sua originale proposta politica. L’idea è semplice: poiché gli uomini non riescono a mettersi d’accordo su una forma di governo che convenga a tutti, de Puydt propone che ogni uomo scelga per sé il regime che preferisce:

    Radunatevi in assemblea, redigete il vostro programma, formulate il vostro bilancio, aprite delle liste di adesione, contatevi, e se voi siete in numero sufficiente per sopportarne i costi, fondate la vostra repubblica.

    Al che logicamente scatta la domanda retorica: Dove questo? Nelle Pampas? De Puydt risponde: Non proprio, ma qui, dove voi siete, senza alcuno spostamento. E in pratica come si fa? Semplice, dice lui:

    Apriamo, in ogni comune, un nuovo ufficio, l'ufficio dello stato politico. Questo ufficio fa pervenire, ad ogni cittadino maggiorenne, un formulario da riempire, come quello per le imposte o per la tassa sui cani. Domanda: qual è la forma di governo che voi desiderate? Voi rispondete in tutta libertà: monarchia, o democrazia, o altro.

    Così formulato il sistema è ingenuo; né risulta immediatamente chiara la sua utilità. Ma l’idea di fondo è suggestiva perché scuote alle fondamenta uno dei capisaldi dello Stato moderno: l’associazione necessaria tra un territorio e un ordinamento giuridico. E se fosse invece possibile immaginare una sovrapposizione di ordinamenti svincolati da ogni organo territoriale? Ammettiamo pure che non sia possibile: al punto cui siamo arrivati, sarebbe comunque necessario.

    I panarchici e la società multiculturale

    La panarchia, secondo Aviezer Tucker, sarebbe la risposta alla crisi del cosiddetto Stato westfaliano. Nel 1648 la Pace di Westfalia aveva chiuso la stagione delle guerre di religione europee ratificando un principio formulato un secolo prima ad Augusta ed espresso nella massima Cuius regio, eius religio. Vale a dire: alla popolazione stanziata entro ogni territorio corrisponde un sistema di regole da rispettare, protestante oppure cattolico secondo la confessione del sovrano. E a ogni sovrano, inoltre, è dovuto il riconoscimento da parte degli altri sovrani, che devono guardarsi dall’interferire nei reciproci affari.

    In Westfalia si era posto il fondamento del moderno Stato-nazione, caratterizzato dalla piena sovranità sulla popolazione che si trova sul territorio controllato. Ma questo presupponeva una certa uniformità dei governati. Così per formare dei cittadini adatti alla convivenza, nel corso dell’Ottocento molti Stati europei iniziarono a investire in politiche d’istruzione (pubblica e obbligatoria) dei giovani e di assimilazione (forzata) delle minoranze. Ma ora che il fallimento dei modelli d’integrazione è sotto gli occhi di tutti, chi può ancora credere nell’efficacia di queste politiche? L’articolazione tra regio e religio si è definitivamente spezzata, e sul medesimo territorio coesistono ormai, talvolta con qualche difficoltà, gruppi culturalmente molto diversi che comprensibilmente reclamano di essere riconosciuti.

    Se il ventesimo secolo ha segnato la crisi dell’idea westfaliana di Stato — generalizzando una condizione di sovranità limitata determinata da rapporti di forza geopolitici — il ventunesimo sembra annunciare il suo definitivo tracollo. È la società liquida di cui parla Zygmunt Bauman e lo stato di crisi che dà il titolo al suo recente libro [4] scritto con il sociologo Carlo Bordoni. Un multiculturalismo ipocrita e incapace di darsi un sistema di norme fondamentali. Nelle parole di Bauman:

    Un sistema che riconosce la legittimità di culture diverse dalla nostra, ma ignora o rifiuta quanto vi è di sacro e non negoziabile in tali culture. Questa mancanza di autentico rispetto risulta profondamente umiliante.

    È per questo che, secondo i panarchici, la riflessione sulla coesistenza tra ordinamenti giuridici diventa urgente. Le differenti culture evidentemente continuano a esistere ma non ci sono più frontiere capaci di separarle. La società umana si dirige verso il suo massimo grado di entropia. Se teniamo alla pace civile dobbiamo dotarci degli strumenti metapolitici adatti a regolare l’inedita articolazione tra territorio e popolazione che caratterizza il nostro secolo. Ed ecco la soluzione: la panarchia, appunto.

    Proprio come ha avuto un inizio, lo Stato westfaliano può anche avere una fine. Con la panarchia, il principio del Cuius regio, eius religio verrebbe contemporanemente superato e pienamente realizzato: superato nella sua dimensione rigidamente spaziale, ma realizzato nella sua sostanza.

    La fine dell’assolutismo giuridico

    De Puydt già notava che per fare coesistere diversi ordinamenti è necessario accordarsi su un set di meta-regole condivise. Ma perché queste regole comuni siano ritenute legittime e rispettate, è anche necessario che non entrino in conflitto con i valori sacri e non negoziabili di cui parla Bauman. Per limitare questo conflitto tra visioni del mondo divergenti, l’ideale panarchico prevede che le meta-regole valide per i differenti gruppi sociali siano in numero limitato e minimamente intrusive; in aperta controtendenza con la propensione dei moderni Stati di diritto a imporre all’intera società una singola idea di bene, di emancipazione e di progresso per mezzo di un colossale sistema di leggi che in gran parte dei casi non verranno nemmeno applicate. Gli uni opprimono in nome del diritto scriveva de Puydt, echeggiando Marx che vedeva nell’ordinamento giuridico uno strumento nelle mani di una singola classe sociale.

    La panarchia potrebbe sembrare una teoria dello Stato minimo; ma contrariamente al liberalismo non si tratta di un modello individualista, poiché le ulteriori funzioni politiche necessarie alla vita civile sono delegate a corpi intermedi. Così ogni gruppo potrebbe in realtà scegliersi lo Stato che vuole, minimo o massimo che sia, reazionario oppure libertario. La panarchia è anche una teoria della tolleranza radicale; ma questo non implica necessariamente uno Stato molle, bensì eventualmente uno stato tanto più forte quanto più si limita a fare un numero limitato di cose che è effettivamente in grado di fare, piuttosto di pronunciare un numero esuberante di promesse che non può mantenere.

    La società civile non sarebbe più un sistema eliocentrico composto da individui isolati che gravitano attorno allo Stato, ma una galassia strutturata da zone temporaneamente autonome (come direbbe Hakim Bey) in continua trasformazione, interazione e sovrapposizione. Non si tratterebbe in alcun modo di ghettizzare le diverse culture, poiché l’articolazione degli ordinamenti non seguirebbe un criterio topografico.

    Se lasciamo da parte le scenette di de Puydt all’ufficio del comune, l’idea panarchica non è in sé utopistica. Diversi sistemi di norme positive in qualche modo già coesistono: ad esempio sullo stesso territorio il regolamento dei mezzi pubblici coesiste con il codice di giustizia sportiva che coesiste con il diritto canonico, eccetera. Questa articolazione ha persino un nome: pluralismo giuridico. L’idea non è nemmeno nuova poiché se crediamo al giurista Paolo Grossi un sistema simile era caratteristico dell’ordine giuridico medievale, dal titolo del suo libro del 1995 [5]: il diritto all’epoca non era prodotto da una singola entità ma da un insieme disomogeneo di soggetti. Era perciò un diritto vivo, flessibile, plurale, che aderiva ai fatti, contrariamente al nostro che impone un solo modello sociale e alla fine serve più che altro a dare lavoro a poliziotti e avvocati.

    Secondo Grossi la storia successiva al Medioevo, dalla pace di Westfalia alla presa della Bastiglia, è stata invece la storia di come lo Stato si è progressivamente arrogato questo monopolio imponendo un vero e proprio assolutismo giuridico. Paolo Grossi, oggi membro della Corte Costituzionale, è senza dubbio un panarchico che non sa di esserlo; uno dei tanti autori che, con poca forzatura, si possono far salire sul carro della panarchia — assieme ai tanti e disparati che Gian Piero de Bellis ha già convocato in questa strana avventura.

    Noi gli auguriamo la migliore fortuna. E per una volta ci lascia qualche speranza per l’avvenire. Scrive de Bellis:

    Come la tolleranza religiosa ha messo fine alle guerre di religione e alle persecuzioni religiose, così è altamente probabile che la tolleranza politica faccia lo stesso per quanto riguarda guerre e persecuzioni che hanno la loro origine in convinzioni politiche che si vogliono imporre a tutti.

    Introduzione: ​La Panarchia. Nascita, ripresa e diffusione di una idea

    di Gian Piero de Bellis

    La nascita

    Il termine panarchia sembra sia stato usato per la prima volta da un filosofo cosmopolita Frane Petric (Franciscus Patricius) nato nel 1529 nell’isola di Cherso, al largo delle coste della Dalmazia, e morto a Roma nel 1597. Nel suo trattato Nova de universis philosophia ( Nuova filosofia degli universi) pubblicato nel 1591 (con una seconda edizione modificata nel 1593) egli presentò in quattro parti ( Panaugia, Panarchia, Pampsychia, Pancosmia) la sua visione del mondo in cui l’universo, la natura e il sapere sono visti come un tutto integrato. Questo approccio spiega l’insistenza nell’uso del prefisso Pan che significa Tutto in Greco .

    Tuttavia, è stato solo tre secoli più tardi che uno scienziato (botanico) e letterato di nome Paul-Émile de Puydt utilizzerà il termine panarchia con il significato che sarà qui esaminato. Nel 1860 egli pubblicò sulla Revue Trimestrielle, di Bruxelles, un articolo estremamente originale intitolato Panarchie. In esso l’autore applica ai rapporti sociali e politici l’idea della concorrenza economica ( laissez-faire, laissez-passer) ricavata dalla pratica e dalla teoria economica.

    Nella concezione di de Puydt, molti governi liberamente scelti dagli individui possono coesistere l’uno accanto all’altro sullo stesso territorio e produrre, in maniera più efficiente ed economica, tutti quei servizi che sono attualmente forniti, molto spesso in maniera scadente e costosa, da uno stato a sovranità territoriale monopolistica. Nella concezione della panarchia, la fine di qualsiasi monopolio politico e la libertà di scegliere tra governi in concorrenza tra di loro, sarebbero fattori decisivi, se non indispensabili, per ottenere servizi sociali migliori e a prezzi più convenienti.

    Se de Puydt è colui che ha dato origine, in epoca moderna, al termine panarchia, il primo ad avanzare la proposta di governi in concorrenza fu Gustave de Molinari, un economista della tradizione liberale classica, direttore del Journal des Économistes dal 1881 al 1909. In uno scritto apparso nel 1849 sotto il titolo De la production de la sécurité ( Sulla produzione della sicurezza – documento 1) egli espresse la convinzione che la protezione e la sicurezza delle persone rappresentano un servizio che, come gli altri, può essere garantito da agenzie, liberamente scelte dagli individui e in competizione tra di loro, attraendo clienti sulla base della qualità delle loro prestazioni (impegno e risultati).

    In un libro pubblicato lo stesso anno, intitolato Les Soirées de la Rue Saint-Lazare ( Le serate della Rue Saint-Lazare), e che consiste in una serie di conversazioni tra tre personaggi che hanno differenti visioni del mondo (un conservatore, un socialista e un economista), Gustave de Molinari, che parla a nome dell’economista, avanza apertamente la richiesta dell’introduzione di Liberi governi intendendo con ciò «governi i cui servizi posso accettare o rifiutare in base alla mia libera volontà» (Undicesima Serata).

    E la ragione di tale richiesta consiste nel fatto che, con la fine del monopolio statale e lo sviluppo della concorrenza, il prezzo dei servizi (primo fra tutti quello della sicurezza) «si ridurrebbe sempre a livello dei costi di produzione», in quanto «ognuno stipulerebbe un contratto con l’agenzia che gli ispira la massima fiducia e le cui condizioni contrattuali gli appaiono le più favorevoli» (Undicesima Serata).

    Sfortunatamente, un’idea molto ragionevole ed estremamente pratica come questa non ha incontrato alcun successo, schiacciata dagli interessi materiali potenti rappresentati dagli strati parassitari (lo sciame burocratico in crescita dei profittatori dello stato nazionale) e respinta dalle incrostazioni mentali di secoli di un passato feudale basato sul territorialismo (un territorio, un padrone). Gli stessi liberali, in una seduta della Società di Economia Politica di Parigi, nell'ottobre del 1849 hanno respinto tale idea giudicandola inattuabile se non assurda (documento 2). Quindi, anche i fautori della concorrenza economica si sono mostrati compatti nella difesa del monopolio statale in materia di servizi sociali. Ciò vuol dire che le bende dell'ideologia erano e sono in grado di spegnere i lumi della logica e della sperimentazione sociale.

    Ecco perché nulla è emerso da questa idea, né un dibattito teorico, né tanto meno un esperimento pratico. I socialisti statalisti e i conservatori statalisti hanno dettato l’agenda delle idee e degli eventi e per più di un secolo questa concezione è rimasta ibernata; con una sola eccezione di rilievo.

    Nel 1909 Max Nettlau, lo storico dell’anarchia, scrisse un articolo pubblicato da Der Sozialist, diretto da Gustav Landauer a Berlino. Il titolo dell’articolo è Panarchie. Eine verschollene Idee von 1860 ( Panarchia. Un’idea dimenticata del 1860 – documento 6). Fin dalla prima frase Nettlau manifesta il suo entusiasmo per l’idea di governi coesistenti in concorrenza tra loro: «Da tempo mi affascina l’idea di come sarebbe bello se finalmente, nell’opinione comune sul succedersi delle istituzioni politiche e sociali, la fatale espressione uno dopo l’altro fosse sostituita con quell’altra molto semplice e chiara uno affianco all’altro».

    Nel resto dell’articolo Nettlau comunica al lettore la sua scoperta del testo di de Puydt e confessa quanto sia rimasto attratto dall’idea della tolleranza reciproca nella vita politica e sociale espressa da questo autore attraverso la proposta di governi non territoriali a cui gli individui possono aderire e contribuire in maniera libera e volontaria.

    Purtroppo, nessun anarchico riprenderà l'esame di questa idea e il movimento anarchico, nel suo complesso, sarà sempre più infestato da diatribe settarie e da scoppi di rabbia e di violenza individuali che ne danneggeranno sia la concezione che l'immagine.

    La ripresa

    L’idea affascinante proposta da Auguste de Molinari e Paul-Émile de Puydt, sostenuta entusiasticamente da Max Nettlau, sarebbe forse rimasta una gemma nascosta se non fosse stato per l’operato di Kurt Zube e soprattutto di suo figlio John Zube.

    Nel 1977, Kurt Zube pubblicò, sotto lo pseudonimo di K. H. Z. Solneman, Un Manifesto Anarchico, in cui l’idea della panarchia è presentata e commentata in termini molto positivi.

    Comunque, è stato John Zube il migliore e più costante sostenitore della panarchia, grazie a una serie di saggi e libri scritti soprattutto a partire dagli anni ’70. Tra gli scritti brevi, una menzione particolare va fatta a una serie di note On Tolerance ( Sulla Tolleranza, 1982) in cui l’idea di base della panarchia, e cioè «la tolleranza per qualsiasi esperimento di vita sociale basato sulla tolleranza» è espressa nella maniera più convincente e razionale possibile. La vita personale e sociale è vista come una esperienza continua in cui ognuno apprende dai propri errori o da quelli degli altri e così facendo progredisce e si sviluppa. Senza la libertà di sperimentare viene a mancare all’individuo la condizione di base per una vita ricca di significato. La tolleranza e la libera sperimentazione, per quanto riguarda la propria vita, sono le basi su cui poggia la panarchia.

    In un altro scritto breve, The Gospel of Panarchy ( Il Vangelo della Panarchia, 1986), John Zube definisce la panarchia con le seguenti parole:

    La realizzazione di tante comunità varie e autonome quante sono richieste dalla scelta volontaria delle persone, tutte non-territoriali, cioè prive di qualsiasi monopolio territoriale, coesistenti l’una accanto all’altra, e mescolate, come lo sono i loro appartenenti, sullo stesso territorio o anche su territori differenti, e al tempo stesso distinte l’una dall’altra da leggi personali, forme amministrative e giuridiche, come lo sono o potrebbero esserlo chiese differenti

    In questa antologia si riportano due scritti di John Zube in cui si sottolinea il legame tra panarchia e comunità volontarie (documento 8) e si rimprovera agli anarchici di non essere stati conseguenti alle loro idee di scelte libere e volontarie per tutti, qualunque fosse il risultato in termini di organizzazione sociale per l'individuo (documento 9).

    Sotto l’impulso e l’ispirazione diretta o indiretta di John Zube, altri autori hanno iniziato a produrre articoli che trattano della panarchia. Nel 2005 un economista svedese, Richard CB Johnsson (documento 21), ha scritto alcuni saggi sul concetto di governo non-territoriale e la fine del territorialismo (il monopolio territoriale dello stato) che costituisce la condizione necessaria per lo sviluppo della panarchia.

    In tempi più recenti, Michael Rozeff (documento 23), ex professore di finanza alla Buffalo University (New York), è diventato un sostenitore appassionato e lucido della panarchia, con una serie di saggi che sono stati tradotti anche in italiano.

    In precedenza, altre figure di rilievo, pur senza utilizzare il termine panarchia, avevano espresso simili idee e aspirazioni. Si vedano ad esempio Werner Ackermann (documento 12), Henri Follin (documento 13) e Moritz Schlick (documento 15). Auberon Herbert, sviluppando la filosofia del volontarismo, aveva posto le basi di una concezione basata sullo stato volontario e sulla tassazione volontaria (documento 10).

    L'idea della tassazione volontaria sarà sostenuta anche da Benjamin Tucker in un saggio dal titolo Liberty and Taxation, pubblicato sul periodico Liberty 1881-1908. Egli afferma:

    È certamente vero che la tassazione volontaria non potrebbe prevenire l’esistenza di cinque o sei ‘Stati’ in Inghilterra, e che i membri di tutti questi ‘Stati’ potrebbero vivere nello stesso territorio… E allora? Ci sono più di cinque o sei confessioni religiose in Inghilterra, e spesso accade che i membri di molte di loro vivono nella stessa circoscrizione. Ci sono molte più di cinque o sei compagnie assicurative in Inghilterra, e non è insolito per i membri della stessa famiglia stipulare una assicurazione sulla vita e sui beni contro i sinistri o contro gli incendi presso diverse società di assicurazione. Produce questo un danno a qualcuno?

    In questi passaggi Tucker va oltre le differenze tra anarchia e panarchia e mostra i loro aspetti comuni in termini di libertà di scelta, volontarismo, tolleranza.

    Lo stesso può dirsi per quanto concerne Voltairine de Cleyre. Nel suo scritto La concezione anarchica (documento 11) pubblicato la prima volta in Free Society (1901) essa respinge qualsiasi posizione angusta rappresentata dalle differenti scuole di pensiero presenti all’interno del movimento anarchico e proclama la

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