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L'AS Roma dalla A alla Z
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E-book1.356 pagine21 ore

L'AS Roma dalla A alla Z

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Info su questo ebook

Tutto quello che devi sapere sul mito giallorosso

Una raccolta di episodi inediti che hanno fatto la storia di una maglia leggendaria 

Ormai da novant’anni l’AS Roma accompagna e plasma la vita della capitale e di quei milioni di tifosi che, come canta l’inno del club giallorosso, «ha fatto innamorare». Un amore fatto di campioni, aneddoti, stagioni sofferte e vittorie struggenti. Questo libro ripercorre il fiume di una storia irripetibile, portando alla luce quei piccoli episodi che servono a restituire il colore di anni lontani. Come fu che Cardarelli non andò alla Lazio? Qual è la data della prima amichevole in cui Agostino Di Bartolomei vestì la maglia della prima squadra? E ancora: la lettera scritta da Renato Sacerdoti ai “suoi” ragazzi dopo il ritorno in serie A, il mancato ingaggio di Alfredo Di Stefano e quelli “impossibili” realizzati vestendo di giallorosso Selmosson e Batistuta. Da Angelino Cerretti a Francesco Totti, da Italo Foschi a Franco Sensi e James Pallotta, da capitan Masetti a Daniele De Rossi, una Roma analizzata dalla A alla Z per ripercorrere la leggenda di una squadra e una tifoseria unici al mondo.
Massimo Izzi
ha alle spalle 15 volumi dedicati alla storia giallorossa, tra cui l’unica biografia di Italo Foschi. Nel 2012 è stato designato per far parte della Commissione della Hall of Fame giallorossa. Con la Newton Compton ha pubblicato vari titoli, tra cui AS Roma. La grande storia (con Fabrizio Grassetti e Gabriele Pescatore) e Le 100 partite che hanno fatto la storia della AS Roma (con Tonino Cagnucci).
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2017
ISBN9788822714886
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    Anteprima del libro

    L'AS Roma dalla A alla Z - Massimo Izzi

    526

    I marchi, i nomi commerciali, i logotipi AS ROMA sono di titolarità

    esclusiva della Soccer S.a.s. di Brand Management S.r.l.

    e il relativo utilizzo è stato rilasciato su licenza.

    Immagini: © AS Roma S.p.A.,

    Archivio AS Roma / Luciano Rossi, Archivio AS Roma / Marcello Salustri, Archivio AS Roma / Luciano Cecchetti, Archivio AS Roma / Simone Cecchetti

    Collezione di Massimo Izzi, collezione di Tonino Cagnucci

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1488-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Massimo Izzi

    La AS Roma dalla A alla Z

    Tutto quello che devi sapere sul mito giallorosso

    a Mario Grassi, calciatore dell’AS Roma

    Daje Roma Daje

    DANTE GHIRIGHINI

    TI AMO

    MASSIMO DOLCE, Commando Ultrà Curva Sud

    Una fede… Una volontà… Un traguardo. Vincere malgrado tutto

    Curva Sud, 23 ottobre 1983

    Indice

    Prefazione

    Introduzione

    Giocatori

    Presidenti, allenatori e membri dello staff

    I luoghi della AS Roma

    Personaggi e tifosi

    Varie. Aneddoti, associazioni, libri, riviste e altro

    Appendice. Altri giocatori romanisti

    Ringraziamenti

    Tavole fuori testo

    Prefazione

    Scrivo queste righe nel giorno del mio compleanno, e anche per questo i ricordi si affollano.

    È un onore essere stato scelto per la prefazione di un libro dedicato agli uomini e alle donne dei primi 90 anni della Roma, scritto da un amico come Massimo Izzi. Scorrendo i nomi che si susseguono in queste pagine, sono però entrato in una grande difficoltà, perché di tantissimi, quasi di tutti vorrei dire, conservo un’immagine, una parola, un gesto affettuoso, un ricordo. Vorrei parlare di tutti loro perché li porto nel cuore e mi scuseranno se per l’esiguo spazio a disposizione non potrò farlo.

    Mi torna in mente Renato Sacerdoti che mi fece firmare il primo contratto con la Roma nel 1957. Mi aveva proposto come collaboratore Roberto Minaccioni, mentre Angelino Cerretti scrisse la lettera di presentazione che, recentemente, ho scoperto essere ancora conservata dall’Archivio Storico della Roma. Il mio primo incarico fu di seguire la Squadra Ragazzi al torneo di Sanremo. In ricordo di quei giorni, ho fatto incorniciare una foto della squadra, con tanto di Coppa, che ho esposto nella mia casa [tra i ragazzi di quella formazione si riconoscono i volti di Alberto Orlando e Francesco Scaratti e quello dell’accompagnatore e futuro presidente della Sezione Calcio Augusto D’Arcangeli, N.d.A.]. Da allora, sempre nel Settore Giovanile, ho lavorato al fianco del Mister Guido Masetti e quindi ho avuto anche modo di vedere crescere e poi consacrarsi i talenti di Agostino Di Bartolomei e Francesco Totti [sempre alle pareti della sua abitazione, Giorgio ha esposto una foto che lo ritrae abbracciato al fuoriclasse di Porta Metronia, con la seguente dedica di Francesco: «Alla vera storia di Roma», N.d.A.]. Ancora, sfogliando queste pagine ho ritrovato i nomi di Franco Sensi e Dino Viola, i presidenti che, assieme a Mister Nils Liedholm e a Mister Fabio Capello e a tutti i ragazzi di quegli splendidi gruppi, mi hanno regalato la gioia di due scudetti. Ho ritrovato anche Daniele De Rossi, il mio Alda, e Mister Luciano Spalletti, che affettuosamente mi chiamava il Presidente dello Spogliatoio. Quante emozioni assieme a loro e assieme a compagni di lavoro come Vittorio Boldorini e Fernando Fabbri… ecco, mi ha emozionato ritrovare vicino ai nomi dei nostri grandi campioni giallorossi anche le storie di questi grandi amici che hanno fatto parte della leggenda della Roma e della mia vita. È bello che anche i più giovani, come la mia nipotina Eleonora e Gabriele, Anita, Giorgia e Dario possano conoscerli. Dei miei tanti anni nella Roma ricordo tutto, le vittorie e le sconfitte, i tanti viaggi e gli incontri fatti e mi permetto di citare quello con Giovanni Paolo II, che resta per me indimenticabile. Tra le centinaia di personaggi che mi sono cari mi è impossibile non dedicare un pensiero a Bruno Conti che tanta parte ha nelle vicende di cui leggerete [un biglietto autografo a firma di Bruno Conti è incorniciato assieme a una foto del campione del mondo del 1982. Dice, tra l’altro: «Grazie per la tua semplicità, per la tua amicizia, per la tua umanità (…). Mi hai insegnato cose della mia vita», N.d.A.] e a tutti i ragazzi del Settore Giovanile, quelli che sono diventati dei campioni e quelli che oggi conducono la loro vita impegnati magari in altri campi, ma sempre conservando, come me, l’amore per la maglia giallorossa che è raccontato in questo libro.

    Giorgio Rossi

    Introduzione

    Quando nel 1911 Italo Foschi acquistò dalla Cooperativa Italia per case popolari lo stabile in via Forlì 16 al costo di «16.000 lire complessive, pagate con trattenuta mensile di novanta lire mensili» dal suo stipendio di scrivano straordinario avventizio di 3a classe presso la Corte dei Conti, certamente non poteva ancora immaginare che in quella palazzina il 7 giugno 1927 avrebbe visto la luce e sarebbe stata fondata dalla fusione di tre Club (Fortitudo-Pro Roma, Alba-Audace e Foot Ball Club di Roma), quella che istantaneamente sarebbe diventata la passione sportiva più grande e l’amore condiviso di un’intera città. Quello che è certo è che dopo aver conseguito la maturità classica all’Ennio Quirino Visconti, in piazza del Collegio Romano, ed essersi laureato in legge nel 1906, Foschi fu il primo, in anni in cui il calcio nella capitale languiva ancora in uno stadio pionieristico, a maturare il sogno, l’esigenza e il progetto di regalare alla città di Roma una grande squadra di calcio che la potesse rappresentare, nei cimenti agonistici, in tutto il mondo. Nel marzo 1928 nella prima relazione sociale della storia giallorossa, l’avvocato Piero Felice Crostarosa definì quel suo intendimento profondo come «la visione di una Roma grande e disciplinata». Dopo che, con l’Ordine del giorno del 22 luglio 1927, le strutture di governo del Club divennero pienamente operative, a quella visione gli atleti giallorossi e tutti coloro che del Club hanno fatto parte, a qualsiasi titolo, in questi 90 anni di attività, hanno dato corpo, sudore, passione e anima.

    Il primo contingente di casacche della Roma venne costituito da 59 maglie in lana giallorossa e da 20 maglie di cotone, sempre giallorosse, che i giocatori non potevano «per nessuna ragione asportare». Tutti i tesserati di prima e seconda squadra avevano in usufrutto una sola maglia e l’unica eccezione nella quantità del corredo venne fatta per Carpi, Isnaldi, Liberi e Brencoli, i 4 atleti in rosa che non percepivano nessun compenso e giocavano per puro piacere. Ecco, il loro compenso era stata la maglia, così come il compenso di migliaia e quindi milioni di tifosi romanisti è stato quello di riconoscersi e donarsi all’ideale che l’Associazione Sportiva Roma, nella buona e nella cattiva sorte, nella sconfitta come nella vittoria rappresenta. Questo libro ha l’ambizione di raccontare dei frammenti della storia della Roma attraverso la vita, gli avvenimenti, le opere di un numero non esaustivo (sarebbe impossibile), ma fortemente rappresentativo, di quegli uomini che hanno parteggiato, sofferto e gioito per la Roma. Calciatori universalmente noti (da Francesco Totti e Agostino Di Bartolomei fino a Fulvio Bernardini e Attilio Ferraris IV), e misconosciuti (come Mario Grassi, morto in prigionia dopo essere partito per il fronte russo durante la seconda guerra mondiale, ed essere stato catturato sul fronte del Don), ma anche presidenti, allenatori, massaggiatori, magazzinieri, tifosi: tutti accomunati da un sentimento che ha rappresentato e rappresenta la sintesi miracolosa di una storia millenaria. La Roma, nascendo, ha scelto non solo un nome ma anche i colori di una storia che è allo stesso tempo un destino e un traguardo. Per questo alzare la bandiera con i colori giallorossi al vento o indossarli sui campi italiani ed europei è così prezioso e irripetibile. Centinaia di storie, di avvenimenti, di destini emozionanti, burrascosi e passionali, si mescolano alfine in una vicenda che, come la città, vive in una dimensione unica. Abbiamo cercato di raccontarla ancora partecipi dalla gioia misteriosa, profonda e potente che ci assaliva (e ci assale), al pari di tantissimi altri tifosi, quando da bambini, da una radio cigolante, sentivamo, rispecchiandoci negli occhi di nostro padre: «La Roma è passata in vantaggio!». È davvero, come qualcuno ha detto, la frase più bella del mondo.

    Giocatori

    ABBATINI BRUNO. Genzano (RM), 30 giugno 1938. Attaccante. Due stagioni nel Club, dal 196o al 1962.

    ABEL XAVIER (DA SILVA COSTA ABEL LUÍS XAVIER). Nampula (Mozambico), 30 novembre 1972. Difensore. Una stagione nel Club, nel primo semestre 2005.

    ACCONCIA ITALO. Castelvecchio Subequo (AQ), 20 aprile 1925 – Firenze, 12 febbraio 1983. Centrocampista. Una stagione nel Club, dal 1951 al 1952.

    Rimasto orfano di padre a tre anni, a sette entra in un collegio salesiano. Qui nelle partite con i suoi coetanei, viene notato da Pietro Piselli (già tecnico dell’Alba e per poche settimane anche della Roma nell’interregno prima dell’arrivo di Garbutt). Quando il tecnico spiega alla madre del piccolo talento che intende avviarlo al calcio professionistico, la reazione è di netto rifiuto. Italo continuò a giocare di nascosto, finché il giorno dell’esordio in Serie C, con l’Aquila calcio che giocava a Salerno, fuggì calandosi dal balcone della sua camera e lasciando una lettera alla madre. Durante l’occupazione nazifascista si dà alla macchia. A questo punto la madre viene arrestata e per permettere il suo rilascio Italo si presenta alle autorità militari ed è inviato in Germania, precisamente a Ulma, vicino Stoccarda. Da qui fugge nuovamente e riesce a riparare a Bologna con un amico. Alla ripresa dell’attività calcistica segue il suo mentore Piselli a Catanzaro, in Serie B e da qui approda alla Fiorentina. La sua carriera era definitivamente decollata (assieme a quella universitaria che lo vede iscritto a legge). Solido, esperto, viene individuato come uno degli acquisti ideali per riportare la Roma in linea di galleggiamento dagli inferi della Serie B. Inizia a far vedere che investire su di lui non è stato un errore il 14 ottobre 1951, contro il Modena, giocando una partita da manuale. Per Il Giallorosso: «Ha cominciato così così ma poi è venuto a galla grande, forte, splendido, tanto da farsi considerare il migliore uomo in campo. Contro di lui tutti gli avversari hanno ceduto e le palle fornite agli attaccanti sono state decine e decine». Due settimane più tardi, il 28 ottobre 1951, dopo la gara vinta a Valdagno con il Marzotto, fa ancora parlare di sé: «Sempre strano questo futuro avvocato. Inizia in sordina, poi comincia a crescere fino a diventare gigante». Proseguirà sempre su buoni livelli e ancora l’11 maggio nella goleada esterna contro la Reggiana «i suoi interventi non destano apprensione», scrive Il Giallorosso, «superato recupera sempre e riesce a strappare palloni su palloni dai piedi degli avversari. Anche nel lavoro di impostazione si è impegnato con notevole precisione». Solo nel finale del campionato, come nel pareggio interno con il Brescia del 22 maggio, dimostra di avere il fiato grosso e Il Giallorosso commenterà: «Anche Italo, il muletto infaticabile di tante partite ha accusato dei colpi a vuoto. […] Per non peccare di eccessiva severità va detto che Acconcia ha saputo sempre porgere alla squadra il fermo sostegno del suo gran movimento e della sua costante opera d’interdizione». A campionato vinto, vero gitano del calcio, riprenderà il suo peregrinare trasferendosi al Genoa.

    ACERBI MARIO. Lodi (MI), 1o luglio 1913 – Lodi (MI), 20 febbraio 2010. Difensore. Quattro stagioni nel Club, dal 1939 al 1943.

    La notizia del suo acquisto venne ufficialmente confermata, senza clamori, dal Littoriale del 15 giugno 1939, che in un trafiletto intitolato La Roma è al completo?, scriveva: «Alla Società premeva un terzino e lo ha finalmente trovato di suo gradimento nel lodigiano Acerbi che ha già firmato per i colori giallorossi».

    In quel lontano 1939 la Roma si radunò il 10 agosto, con il ritiro che scattò a Cave il giorno seguente. Così, il primo contatto di Mario Acerbi con Testaccio avvenne il 24 agosto, con una partitella in famiglia di 80' senza pause. Il nuovo arrivato venne messo in squadra con Fusco, Bonomi, Coscia e Pantó. Prelevato dal Fanfulla, Acerbi era stato osservato più volte e in prima persona dal Cavalier Biancone che evidentemente aveva visto in lui il profilo di un buon difensore, già maturo, ma acquistabile a un prezzo contenuto. L’investimento fu ottimo, perché Acerbi si conquistò i galloni da titolare che mantenne sino all’anno dello scudetto. In quella stagione ebbe un inizio sfortunato, contro il Napoli, in amichevole, il 5 ottobre 1941, e contro la Fiorentina il 23 novembre, due episodi sfortunati che costano altrettanti gol: Schaffer gli continua a dare fiducia nonostante tra i rincalzi vi siano giovani di grandissimo valore come Andreoli e Nobile. Acerbi è animato da grande voglia di rivalsa che dimostrerà anche il giorno del suo infortunio il 21 dicembre 1941 contro la Triestina. Quel giorno alla mezz’ora, Pasinati tentando una rovesciata colpirà violentemente il ginocchio destro del terzino giallorosso facendogli quasi schizzare via la rotula. Acerbi con uno spirito a metà tra l’eroismo e la follia tentò di rientrare nella sua posizione. Poi venne condotto in ospedale. Il suo campionato era finito. Si rivide il 14 giugno 1942 quando in borghese fu a bordocampo durante la partita e scese in campo a esultare assieme ai compagni al triplice fischio finale.

    ACQUARONE PIETRO. Arma di Taggia (IM), 23 gennaio 1917. Centrocampista. Una stagione nel Club, dal novembre 1940 al 1941.

    ADRIANO (LEITE RIBEIRO ADRIANO). Rio de Janeiro (Brasile), 17 febbraio 1982. Attaccante. Una stagione nel Club, dal 2010 al marzo 2011.

    AGOSTINI MASSIMO. Rimini, 20 gennaio 1964. Attaccante. Due stagioni nel Club, dal 1986 al 1988.

    AJIDE OLASUNKANMI AKANDE. Lagos (Nigeria), 24 dicembre 1985. Centrocampista. Due stagioni nel Club, dal 2002 al 2004.

    ALBANI LUIGI. Roma, 25 maggio 1928. Portiere. Sette stagioni nel Club, dal 1948 al 1955.

    La sua avventura nella Roma inizia il 21 luglio 1948 quando per l’Ostiense arriva la notizia dell’acquisto di Riccini dal Bracciano. Albani è così libero di accasarsi alla Roma. Nell’Ostiense Albani era cresciuto sotto le attenzioni di Degni, Marinucci e Dominici. Non è difficile immaginare che proprio Giovanni Degni, ex tecnico romanista, abbia segnalato il suo nome. Il 24 ottobre 1948 a Bari, il sogno della sua vita, quello di giocare con la Roma si corona. Albani che si avvia a diventare Er Palletta, compie una parata strepitosa (le cronache non ci dicono chi scagliò il tiro), che è il degno incipit della sua avventura nella Roma. Nella stagione 1951/52 è uno degli alfieri che riportano la squadra giallorossa in Serie A, leggendaria la sua prestazione a Verona del 22 giugno, indubbiamente la gemma della sua carriera. Dopo sette minuti dal fischio d’inizio, la cronaca conta tre interventi di rilievo, al 18', poi, il cronista che via telefono sta trasmettendo la gara a Roma smette di parlare: Palletta entra alla disperata nel cuore di una mischia per togliere il pallone dai piedi di Dini. Quando afferra la sfera rimedia un calcione che glielo fa sfuggire lasciandolo davanti alla rete incustodita. Il portiere romanista, con uno scatto ritorna sul pallone e lo smanaccia con forza allontanandolo. Al 32' compie l’intervento più importante della sua vita. Pivatelli, come una furia, si libera di Cardarelli e Tre Re e solo davanti ad Albani saettò in rete come se da quel gol dipendesse la sua esistenza. Albani intuì la direzione, partì in anticipo e sventa. È un miracolo laico… Si va avanti in un’agonia di emozioni sino al 90', quando l’arbitro Longagnani dice che può bastare che per i Lupi l’ultimo masso di granito che ostruiva la strada della Serie A si è frantumato per sempre. I giocatori sono stravolti, Cardarelli, ancora sul campo viene avvicinato dai cronisti. Urla per superare il frastuono impazzito che si è scatenato: «Avete visto Albani? Quello è il vero cuore dei romani. Domani sera alle 7 partirò a piedi per andare al Divino Amore per sciogliere il voto». Nel 1953 le gerarchie della prima squadra cambiano. Scrive Fran nel numero unico La Roma 1953/54: «L’arrivo di Moro lo fa portiere di riserva, ma Albani non tiene il broncio. E sorride perché egli desidera soltanto rimanere a Roma e alla Roma. Queste sono le sue parole: Non potrò mai pensare di lasciare la maglia giallorossa e di andare via dalla Garbatella, dove sono nato e abito». Rimarrà in giallorosso sino al 1955.

    ALDAIR (NASCIMENTO DO SANTOS ALDAIR). Ilhéus (Brasile), 30 novembre 1965. Difensore. Tredici stagioni nel Club, dal 1990 al 2003. Hall of Fame AS Roma.

    Gioca sin da bambino, a otto anni, nell’Ipiranga, la squadretta allenata dal padre. Sei anni più tardi supera un provino per il Vasco da Gama, dove giocherà attaccante, e si trasferisce con la famiglia a Rio, ospite di suo zio Nino.

    Aldair è introverso, patisce l’inserimento in una realtà professionistica e dopo quattro mesi racconta a casa di essersi fatto male e che i responsabili del Vasco non lo fanno giocare abbastanza. Ottiene così di andare in una squadra di quartiere, il Caxia, dove, stanco di prendere calci, si trasforma in difensore. Nel 1986, Juarez, ex giocatore del Fluminense, osservatore proprio per conto del suo vecchio Club, gli chiede di sostenere un provino e anche questa volta nessuno ha niente da eccepire e Aldair firma il primo contratto da professionista della sua vita. Presto si ritrova in prima squadra a giocare a fianco di Zico, Edinho e Renato e arriva a conquistare la maglia della Nazionale (con cui debutta il 5 marzo 1989 nella gara contro l’Ecuador) e a vincere il campionato (gara decisiva giocata il 13 dicembre 1987 contro l’International di Taffarel in un Maracanã stipato di 91.034 spettatori). La sua fama travalica ormai l’oceano e il Benfica lo acquista portandolo in Europa. Per Aldair accettare è tutt’altro che facile, non vuole lasciare il Brasile e ha appena conosciuto quella che diventerà sua moglie. Arrivato in Portogallo, le cose non vanno come sperato: «Ebbi un primo infortunio che mi tenne lontano dal campo», ricordò Aldair nel libro Grazie Alda, «e così Eriksson mi mise un po’ da parte». La Roma ne approfitta, intavola una trattativa e nonostante il Benfica con il brasiliano in campo abbia conquistato la finale di Coppa dei Campioni riesce ad acquistarlo. Dopo i Mondiali italiani, che lo vedono tra i convocati del Brasile, veste per la prima volta la maglia della Roma nell’amichevole con la Ternana del 19 agosto 1990. L’impatto con il Campionato Italiano, così come accaduto in Portogallo è problematico. Il 18 novembre a Torino la Roma viene travolta dalla Juventus per 5-0. Un rovescio così pesante non si abbatteva sui Lupi dal 15 maggio 1960 e il boccone da trangugiare, per giunta contro un’acerrima avversaria, è amarissimo. Sul banco degli imputati, l’accusato chiamato in causa è proprio il brasiliano, autore di un’autorete e impotente di fronte alla tripletta di Schillaci, l’uomo di cui ha curato la marcatura. Il ritorno dalla trasferta piemontese è terribile. Il Messaggero gli appioppa un 4 in pagella mentre per la penna di Gabriele De Bari: «Aldair è triste. Sull’Airbus 300 Alitalia che riporta a casa la Roma da Torino, è il ritratto della solitudine. Uno dei pochissimi posti vuoti è proprio al suo fianco. Non parla, non lega con i compagni». Sembra un de profundis, ma non conoscono di che pasta è fatto. Tre giorni dopo, a Genova, in Coppa Italia, inizia a dare evidentissimi segnali di riscossa. Giuseppe Rossi scrive: «Aldair semina il panico per tutto il campo, arrivando a offrire a Völler la più comoda delle palle gol». Alla vigilia della partita con il Bologna, la settimana dopo la batosta di Torino, dice a Francesco Padoa di sentirsi sacrificato nel doversi dedicare esclusivamente alla marcatura: «Prima di venire in Italia non mi era mai capitato di dovermi appiccicare a un avversario per 90 minuti. Faccio questo e non posso fare niente altro. Ma non sono rassegnato […] vorrei giocare come nel Benfica, avanzare, cercare il gol. Finora ne ho fatto uno solo, quello per la Juventus». Il giorno seguente, contro il Bologna, il primo tempo si chiude in pareggio, in apertura di ripresa Pluto rimedia una gomitata al lato sinistro della fronte in uno scontro aereo. I tre punti di sutura non fermano il sangue che macchia la vistosa fasciatura. Giuseppe Rossi scrive che dall’alto della tribuna Aldair sembra «un eroe di Testaccio». Al 58' Pairetto nega un rigore alla Roma per un fallo di Villa su Salsano e due minuti più tardi, quando Aldair segna, lo stadio Olimpico diventa un sambodromo. Quel giorno, 25 novembre 1990, Roma e i romanisti s’innamorarono di Aldair. Certo, non si è trattato di un amore privo di contrasti, tanto che più volte il brasiliano è stato sul punto di lasciare la capitale; la prima nel 1992 quando, «dopo due anni che stavo qui», dice Aldair a Roma Magazine il 30 agosto 2002, «mi voleva il Galatasaray che mi riempiva di soldi, ma io dissi no». A seguire, dopo la vittoria nel Mondiale del 1994, quando la Roma ha tesserato tre stranieri (Balbo, Thern e Fonseca) e il Tottenham si presenta con un’offerta di 9 miliardi. Sensi forse ci pensa ma poi, il 12 agosto 1994, dichiara: «È il nostro campione del mondo. È il mio amico campione. Resta con noi». Infine, nel 1999, firma un pre-contratto con l’Inter di Moratti con Ronaldo che caldeggia il suo acquisto. È in scadenza di contratto, ma la partenza di Zeman e la sua rinuncia ai soldi (tanti di più) promessi da Moratti sventano nuovamente il suo addio. Il premio più bello per questa fedeltà sarà lo scudetto del 2001 che Aldair affianca alla Coppa Italia (1991), oltre all’infinito palmarès con la Nazionale brasiliana composto da due Coppe America (1989 e 1997), un titolo mondiale (1994) e una medaglia di bronzo olimpica (1996). Di un campione così immenso (Hall of Fame dal 2012), uno dei più grandi della storia del calcio, rimane anche l’estrema modestia, basta ricordare che quando venne eletto capitano dai compagni, all’inizio della stagione 1998/99, il suo voto era andato a Cafu.

    ALENIČEV DMITRIJ. Velike Luki (URSS), 20 ottobre 1972. Centrocampista. Due stagioni nel Club, dal 1998 al gennaio 2000.

    ALGHISI LUCIANO. Milano, 18 aprile 1917. Attaccante. Due stagioni nel Club, dal 1938 al 1940.

    Arrivò un po’ come un oggetto misterioso, tanto che quando Eugenio Danese, come riportato sul Littoriale del 13 agosto 1938, se lo trovò di fronte per la prima volta a Bagni di Farfa, dove la Roma era per ritemprarsi in attesa dell’inizio della nuova stagione riuscì solo a osservare: «È bruno e di vigorosa struttura atletica». Poco dopo, esattamente il 27 agosto e sempre sul Littoriale, il quadro si chiarisce: «Avevate sentito nominare Alghisi prima che venisse alla Roma? E dire che Alghisi passava alla Roma senza grandi pretese. Gioca da ala: veloce e abile può uniformarsi benissimo al giuoco di tutta la prima linea romanista, quest’anno composta da giovani ventenni in vena di prodezze». La prima sgambata la fa a Testaccio contro il Perugia di Sergio Andreoli, il 28 agosto 1938, ma il debutto vero e proprio avvenne per Alghisi in un modo che neanche nel sogno più sfrenato avrebbe potuto sognare. Si giocava a Testaccio la prima di campionato contro il Milano, la squadra della sua città natale, il 18 settembre 1938. In una partita assolutamente sonnolenta tutto si decideva al 17' della ripresa. La cronaca del Littoriale del giorno seguente dice: «Breve passaggio di Coscia ad Alghisi in corsa, il tempo per attendere la palla sul piede sinistro e un ta-pum trasversale di ragguardevole potenza. Palla in rete senza colpe per Zorzan». Il prosieguo della sua carriera romanista si assestò su livelli meno clamorosi ma sempre dignitosi.

    ALISSON (BECKER ALISSON RAMSÉS). Novo Hamburgo (Rio Grande do Sul, Brasile), 2 ottobre 1992. Portiere. Due stagioni nel Club, dal 2016, prosegue…

    Falcão tornò a Porto Alegre nell’aprile 2011. Il giorno della presentazione un muro di folla era assiepato alle reti del campo di allenamento. A ricevere Falcão anche uno dei magazzinieri degli anni in cui era la stella dell’Internacional. Quando però, sul campo, con tanto d’inseparabile cappellino e fischietto con il secondo Julinho Camargo, iniziò a lavorare, Alisson non era ancora nella prima squadra. Ci sarebbe entrato solo due anni più tardi… due anni di troppo per trovare Paulo che in quella avventura era durato meno dei 100 giorni di Napoleone. Paulo, però, un’idea del ragazzo se la deve in qualche modo essere fatta, perché quando a gennaio del 2016, si cominciò a scrivere che la Roma aveva battuto la concorrenza della Juventus e aveva fatto suo questo portiere, dichiarò subito a Giancarlo Dotto: «Alisson è un grande portiere, molto bravo e forte fisicamente. Un ottimo acquisto», e ancora: «È un ragazzo fantastico sotto ogni punto di vista. È giovane, ha grandi doti fisiche, ha carisma, sa farsi sentire e rispettare soprattutto dai compagni più anziani e più esperti». È vero che Alisson era tutto fuorché uno sconosciuto visto che aveva già debuttato in Nazionale, il 13 ottobre 2015, contro il Venezuela, in una gara del girone di qualificazione ai Mondiali, insomma, non certo il torneo della parrocchia. A completare le referenze, poi, era arrivato Doni, che a Roma Radio, aveva fatto viaggiare la sua voce oltre oceano e aveva detto: «Giudicare un portiere giovane non è facile. Ma secondo me sarà il portiere del Brasile ai prossimi Mondiali e in futuro. Non ho dubbi. Certo, deve giocare, se riuscirà a farlo bene alla Roma diventerà il titolare del Brasile. La Roma ha fatto benissimo a prenderlo. È giovane, ha personalità e qualità. Deve abituarsi presto a una pressione cui forse non è abituato, ma penso sia già pronto. Sono molto contento perché sarà un giocatore da Roma per tanti anni». Quel se giocherà, era naturalmente legato alla concorrenza interna, quella di Szczęsny, che inaspettatamente avrebbe trovato sbarcando in maglia giallorossa.

    Alisson sbarcò a Fiumicino il 17 marzo 2016. Alla Gazzetta dello Sport, che gli chiese di illustrare le proprie caratteristiche rispose: «Mi ritengo un portiere veloce che ha un buon senso della posizione tra i pali. Quando la palla è in attacco cerco di seguire sempre l’azione, posso migliorare sempre e qui mi concentrerò con le uscite con la palla tra i piedi. Mi metto sempre a disposizione dei compagni per essere una risorsa aggiuntiva». Dopo aver trascorso un’annata a mezzo servizio, per Alisson è giunto il momento di dimostrare tutto il suo valore.

    ALLEMANDI LUIGI. San Damiano Macra (CN), 8 novembre 1903 – Pietra Ligure (SV), 25 settembre 1978. Difensore. Due stagioni nel Club, dal 1935 al 1937.

    Uno dei difensori che ha fatto la storia del nostro calcio, campione del mondo nel 1934 agli ordini di Vittorio Pozzo. A Roma arrivò con un colpo del neopresidente Scialoja a tempo quasi scaduto, negli ultimissimi giorni di mercato. Non fece in tempo a mettere piede nella capitale che arrivò la notizia della fuga di Guaita, Scopelli e Stagnaro. Allemandi, come testimoniato da Angelino Cerretti che era presente in quel frangente, non la prese bene. Angelino raccontò l’episodio dalle pagine del settimanale La Roma, nel 1954, scrivendo: «In poche ore la Roma aveva acquistato un grande terzino ma aveva perso due grandissimi attaccanti. E Allemandi, quando seppe del… fattaccio, brontolò: Se avessi aspettato qualche ora, non avrei più firmato il cartellino». Gigi Allemandi, giunto al canto del cigno, era arrivato a Roma per vincere e quella notizia lo aveva realmente turbato. La notizia del suo arrivo in giallorosso si era propagata come una frustata. Il numero unico AS Roma lo presentò così: «Il nome squilla come una tromba di guerra, Luigi Allemandi è sceso all’ultimo momento a prestare man forte a Monzeglio. A ricostruire soprattutto quel duo leggendario cui sono legate tante glorie del calcio italiano. Il più forte, indubbiamente, di tutte le coppie delle sedici che pur ne vanta di fortissime […]. L’innesto di Allemandi provocherà inoltre automaticamente un più costante rendimento della linea mediana e darà modo a Bernardini di dedicarsi con assoluta tranquillità a quel suo compito di centrosostegno che è nel suo tipo di gioco […]. L’apporto di Allemandi è per questo incalcolabile, preso a sé, l’atleta è un giocatore intelligentissimo ed è l’unico terzino italiano che possa vantarsi di aver tenuto al guinzaglio Sindelar, quando Sindelar era un castigo di Dio. È l’impeto fatto persona senza che il suo metodo di combattimento sia a dismisura falloso. Generosissimo, ancor mobilissimo, gonfio di coraggio e ricco d’astuzia […] modesto anche se la classe di cui è zeppo gli darebbe il diritto di ostentare una certa spavalderia. Ma consapevole della sua forza e impavido di natura, il nuovo acquisto, o meglio l’ultimo acquisto della Roma, conferisce alla pattuglia dei giallorossi tutti i crismi per puntare allo scudetto». La sua prima stagione fu comunque all’altezza della sua fama, giocava e giocava alla grande, poi, fuori dal campo faceva una vita ritirata. Prese casa a Testaccio, quindi, perché questa era una cosa che ancora usava negli anni ’30, preparandosi al dopo calcio, decise di aprire un colorificio in via di Ripetta, in cui, quando non era impegnato con le partite o gli allenamenti, non era difficile trovarlo. Patrizia Ajo, su Giallorossi del 15 maggio 1972 scrisse che Allemandi «era chiuso in se stesso a doppia mandata. Si esauriva tutto nel calcio. Un calcio maschio, quadrato, gagliardo. A sua immagine e somiglianza. […] A guardarlo ti dava subito l’idea di una forza della natura a servizio del calcio attivo. In tutte le circostanze della vita riduceva allo spicciolo il convenevole. Parlava poco e poco temporeggiava. Sul campo entrava deciso. Capitava così che beccasse a volte l’uomo in luogo del pallone. E gli arbitri lo marcavano a vista […]». Dopo aver sfiorato lo scudetto con la Roma, nel 1937 lasciò i giallorossi, tornò nella capitale un anno più tardi per un’estrema parentesi nella Lazio, più che altro da allenatore, ma il suo rapporto con la Roma rimase sempre buono. Il calcio rimase sempre nella sua vita, tanto che nel primo dopoguerra, sfollato a Brunate, prese ad allenarsi con un gruppo di ex (tra questi Magnozzi, Pitto e Frossi). Passò l’Epifania del 1946 a giocare una partita di calcio a Lugano contro una formazione di calciatori ticinesi.

    ALLEMANDI ROBERTO. Oliva (Argentina), 1o agosto 1912. Difensore. Cresciuto nel Settore Giovanile del Club. Cinque stagioni nella Roma, dal 1932 al 1937.

    ALLIEVI WALTER. Seveso (MI), 14 gennaio 1960. Centrocampista. Due stagioni nel Club, dal 1978 al 1980.

    ALLONI ERMANNO. Milano, 21 dicembre 1931. Centrocampista. Una stagione nel Club, dal 1956 al 1957.

    ÁLVAREZ REYES EDGAR ANTHONY. Puerto Cortes (Honduras), 18 gennaio 1980. Centrocampista. Tre stagioni nel Club, dal 2005 all’agosto del 2007 (con un periodo in prestito al Messina).

    ALZANI ROMOLO. Roma, 8 marzo 1921 – Roma 3 ottobre 2002. Centrocampista. Cresciuto nel Settore Giovanile del Club. Una stagione nella Roma, dal 1940 al 1941.

    A Romolo Alzani devo uno degli incontri più belli in venticinque anni di ricerca sulle tracce degli uomini che hanno vestito la maglia della Roma. Lo vidi per la prima volta ai bordi di un campo da tennis, all’inizio degli anni ’90, quando si dilettava ancora a inseguire lungolinea e a infilare dritti e rovesci sulla terra rossa. Un uomo carismatico, profondo e di quella signorilità che viene dai comportamenti. Feci una figura terrificante perché a quei tempi, per quanto ne avessi studiato la permanenza nella Roma, ero totalmente ignaro del prosieguo, tutto biancoceleste, della sua carriera. Rimasi molto male, ma la statura del personaggio è tale che questi trascorsi si perdono come una virgola all’interno di un romanzo avvincente. Era appassionato di teatro Romolo Alzani e mi disse, lo ricordo sempre quando penso a lui, che il momento più bello della sua vita era stato quando con la Nazionale Militare si era trovato per la prima volta a Broadway: «Davanti alle insegne luminose con i nomi dei vari spettacoli», mi disse, «mi accorsi che le lacrime mi scendevano giù dagli occhi».

    Alzani è stato senza ombra di dubbio un predestinato del calcio, uno di quelli in grado sin da bambino di far trasparire le sue evidenti qualità. Sbocciato calcisticamente nell’Alba (dove lo aveva indirizzato il cugino Nazzareno Celestini), cresce in una famiglia di romanisti e ben presto entra nel Settore Giovanile giallorosso. Nel maggio 1938, quando vince il Campionato Federale Ragazzi, Il Littoriale, non a caso lo definisce «il fuoriclasse della squadra». Sul suo nome si appuntano interessi crescenti e nel 1939/40 la Roma lo spedisce a farsi le ossa al Rimini dove vive una stagione più che positiva. Tornato alla base, debutta in Serie A (Venezia-Roma 1-0 del 16 febbraio 1941).

    Quando mi raccontò quell’esordio lo fece con quel tono scanzonato e arguto che lo caratterizzava e mi disse solamente: «Ci fu chi scrisse bene e chi scrisse male, ma sinceramente non credo di aver demeritato». Rimase una ferita aperta quella partita, perché dopo un anno in prestito, nell’agosto 1942, la Roma decise di privarsi di lui cedendolo all’Ala Littoria. Alzani rimase sempre tenacemente convinto che a deciderne l’addio alla maglia giallorossa fosse stato Vincenzo Biancone. Non nascondeva il rammarico per non averne chiesto ragione, per un senso di soggezione, al Cavaliere, magari in uno dei tanti derby in cui s’incrociarono negli anni a venire. Per la Roma fu una perdita, grave, perché la privò di un calciatore giovane e attaccato alla maglia. Lo sperpero di un patrimonio creato in anni di formazione. Nel febbraio 1944, Mario Antonacci, ex medico sociale della Roma scriveva di lui: «Giovanissimo è un’autentica speranza del calcio romano. Calmo, riflessivo, è l’unico che abbia ereditato da Bernardini, alla cui ombra, nel Campo Testaccio, è cresciuto e si è formato, la dote di lanciare le due ali con poderosi e perfetti traversoni. Calcia e tira con ambo i piedi, con pari precisione e potenza. Pregevole il suo gioco di testa e rimarchevole il tocco di palla». Alzani, dopo aver giocato i campionati di guerra con Tirrenia e Ala Italiana, proprio su suggerimento di Fulvio Bernardini arriva alla Lazio dove compirà tutta la trafila fino a diventarne il capitano. Diviene poi allenatore lasciando un’impronta di correttezza e signorilità unita a grandi insegnamenti morali che travalicano la valenza tecnica che fu comunque grande.

    AMADEI AMEDEO. Frascati (RM), 26 luglio 1921 – Frascati (RM), 24 novembre 2013. Attaccante. Cresciuto nel Settore Giovanile del Club. Undici stagioni nella Roma (comprese le due di guerra), dal 1936 al 1938 e dal 1939 al 1948. Hall of Fame.

    Era il 2007 e mi trovavo a collaborare all’organizzazione della mostra che Fabrizio Grassetti e l’UTR realizzarono a Testaccio. Amadei venne in visita e il suo accompagnatore si rivolse a me dicendomi: «Devo accompagnare Amadei in macchina e poi tornare qui. Vuoi venire?». Amedeo era diretto al suo Forno e non ci pensai un secondo, sapevo che sarebbe stata una cosa da raccontare ai nipoti. Quando superammo l’Acquedotto e imboccammo la discesa che porta alla fermata metro di Porta Furba, Amadei che era stato, come sempre, cordiale e affabile, si fece serio e la voce gli s’incrinò: «Qui», disse, «proprio su questa salita stavo per essere rastrellato dai tedeschi che razziavano lavoratori da avviare in Germania. C’era tanta gente, una confusione… e riuscii a scappare». Tutte le volte che passo in quella strada mi torna in mente quel momento.

    Il padre di Amadei si chiamava Romeo, sposò la sua Elena e si ripromisero di avere un maschio. I primi due figli, però, furono due splendide bambine, Antonella e Adriana: solo al terzo tentativo arrivò Amedeo, futuro capitano della Roma e tra gli attaccanti più forti mai visti in Italia. Nell’oratorio di Capocroce il giovanotto aveva stretto amicizia con un certo Cristofanelli che giocava mezzo-destro. Fu lui a dirgli, un bel giorno dell’estate del 1935, che a Campo Testaccio era indetta la leva per i piccoli aspiranti romanisti. I due l’indomani partirono in bicicletta da Frascati. Nel libricino Amadei asso del gol, è descritto proprio l’arrivo nel tempio romanista: «Zi’ Checco li guidò negli antri bui del sottoscala di Testaccio donde era ricavato tutto il comfort degli spogliatoi delle docce e dei magazzini della Roma di quel tempo. Si trovarono in mezzo a una muta di ragazzini vestiti di maglie dai colori incredibili, con scarpe che neanche un rigattiere avrebbe conservato. In mezzo a loro troneggiava un uomo coi capelli bianchi dal viso aperto, un vecchio topo di segreteria, Giulio Scardola, che ancora oggi è l’uomo che scova tra la ragazzaglia dei fuori porta la futura speranza Giallorossa. Scardola prese nota dei due nuovi arrivati e mosse verso la piuttosto calva platea del Testaccio, oggi scomparso. Come fece per suddividere quella forma di passerotti cinguettanti e seguire i loro movimenti e le loro prodezze? A fine adunata Scardola chiamò i due frascatani e disse loro che potevano considerarsi soci della Roma e che il prossimo allenamento era fissato pel martedì seguente». Fece tutta la trafila, una trafila beninteso di mesi, non di anni, perché già alla fine del 1936 si cominciò a sentire parlare di lui anche tra i grandi. Il 18 febbraio 1937, i segnali divennero sempre più forti. Amedeo gioca con gli Allievi rinforzati da Valinasso, Marchegiani e Colaneri contro la squadra titolare in vista della preparazione per il derby del 21 febbraio. Segue a distanza di poco più di due mesi il debutto in Serie A, giovanissimo, a quindici anni, nove mesi e sei giorni, il 2 maggio 1937, contro la Fiorentina. Una settimana dopo a Lucca segna il primo gol con la maglia giallorossa. Nella Roma cresce finché la società non intavola la trattativa per portare nella capitale Bonomi. I soldi in cassa non ci sono e Amadei viene inserito nell’affare. I dirigenti dell’Atalanta, che hanno l’occhio lungo, provano addirittura a rilevare il giovanotto a titolo definitivo, ma alla fine la quadra si trova sul prestito. La notizia viene diffusa il 20 luglio 1938. Per Amadei, a Bergamo arrivano i primi soldi veri della carriera, visto che a Roma per un mocciosetto venuto dal vivaio non c’erano stati che spiccioli e pacche sulle spalle. Quando tornò dalla stagione in nerazzurro, Amadei era entrato nella prima fase della sua evoluzione di atleta. Un esempio del suo gioco di allora lo diede il 15 ottobre 1939 contro il Liguria. L’aneddoto lo racconta Vittorio Finizio: Amadei si trova di fronte Mario Malatesta, un romano che nel 1927 era stato provato dalla Roma nell’amichevole precampionato con il Livorno. Non gli bastò per salvarsi dal trattamento che Amadei gli riservò. Al primo pallone giocato, con un tocco d’interno, pieno d’effetto, lanciò il pallone sulla sinistra dell’avversario, correndo a raccoglierlo scattando dal lato opposto. Piombò come un falco e una volta davanti al portiere lo fece secco. Aveva una velocità spaventosa e fino alla conquista dello scudetto il suo gioco fu basato fortemente su questo scatto devastante. Schaffer iniziò, man mano a spostarlo dall’ala al centro del fronte d’attacco ma non si trattò di una mutazione repentina. Vennero poi i tornei di guerra e nel 1944, il Fornaretto divenne capitano, dopo essersi buttato alle spalle una folle squalifica di cui parliamo in un altro paragrafo di questo libro. Nel 1947 era ormai un giocatore nel pieno della maturità, il derby giocato il 16 novembre di quell’anno ne è una prova sublime. Il Calcio Illustrato, per la penna di Rizieri Grandi, aprì la sua prima pagina scrivendo: «Il destino di questo ennesimo confronto cittadino si è chiamato domenica Amadei: per quello che ha fatto il prodigioso giocatore nei soli 25 minuti in cui è rimasto in campo […] atleticamente e tecnicamente irresistibile».

    Nel 1948 la situazione difficilissima delle casse sociali impose la sua cessione. Il 16 settembre gli amici e i compagni di squadra diedero un banchetto di saluto all’idolo di tante battaglie sportive che partiva per Milano entrando nella leggenda già in quel momento e non stupì che nel 2012 verrà eletto nella prima Hall of Fame varata dalla Roma. Ma ci fu mai la possibilità di rivederlo nella Roma? A dire il vero se ne parlava sempre, quasi come del ritorno dei Beatles… ma come per i quattro di Liverpool, alla fine il ritorno non ci fu. Nel gennaio 1971 sempre Vittorio Finizio, che queste curiosità non se le teneva, glielo chiese senza tanti giri di parole e riportò la sua risposta su Roma Sport: «Avevo con la Roma un preciso debito di riconoscenza. Ma avrei avuto anche una grossa, troppo grossa responsabilità. La folla romana mi ricordava come uomo che faceva i gol. Io non ero più tale mi ero trasformato in uno che i goal li faceva fare. Perciò avrei deluso i tifosi». Volle rimanere, nella memoria dei tifosi, quel fulmine vendicatore che aveva contribuito a spianare la via dello scudetto: Amedeo Amadei, Ottavo Re di Roma, per sempre.

    AMARILDO (TAVARES DE SILVEIRA AMARILDO). Campos dos Goytacazes (Brasile), 29 giugno 1939. Attaccante. Due stagioni nel Club, dal 1970 al 1972.

    Il 22 luglio 1970, Amarildo giungeva a Roma per le visite mediche che ufficialmente lo confermavano come un giocatore giallorosso. Cinque giorni più tardi il grande Paolo Biagi, iniziava, tra il serio e il faceto, il suo articolo sul Corriere dello Sport in questo modo: «Giorni fa mi era saltato in testa di chiedere a un amico psicologo e psicanalista se, per caso, certe manifestazioni di insofferenza di Amarildo sul campo di gioco avessero una derivazione freudiana. L’amico psicologo e psicanalista era in vacanza per cui non ne ho fatto più niente […] Amarildo è certamente un personaggio contraddittorio: tanto calmo, sereno, ragionevole nella vita privata quanto reattivo fino al raptus isterico sul campo di gioco». L’apprensione per i suoi comportamenti era grande, tanto che nella sua seconda stagione, Anzalone fece la voce grossa arrivando a dichiarare a Giallorossi dell’ottobre 1971, a mo’ di memento: «Pellacce come il Vieri, o come Amarildo che ti gioca una partita su quattro perché il resto dei giorni lo passa al gabbio, quest’anno daranno lezioni di fair play». Il carattere di Amarildo, insomma, era un punto debole, che però nei due anni romani, il brasiliano riuscì a tenere sufficientemente imbrigliato. C’era poi, invece, la sua grande sapienza tecnica che si vide sin dalla prima partita. Il debutto, guarda caso, contro la sua Fiorentina. Dopo il gol di Chiarugi passarono sei minuti. Amarildo batte una punizione, guadagnata da Scaratti e fa tremare l’interno del montante facendo schizzare il pallone fuori. Il tutto con: «un tiro stupendo, angolato, carico di effetto, nel quale l’ottimo Superchi appariva completamente tagliato fuori». L’anno dopo l’ex campione del mondo fece piangere Anzalone dopo il gol all’ultimo minuto contro la Sampdoria (il 17 ottobre 1971). Era un calciatore dalle sensazioni forti e dal carisma altrettanto importante. Amarildo aveva una storia calcistica che pesava e che gli permetteva, per esempio, il 18 luglio 1971, di volare al Maracanã di Rio de Janeiro per assistere a Brasile-Iugoslavia, gara celebrativa dell’addio alla Seleção del Divino Pelé che alla fine del primo tempo uscì da campo nascondendo le lacrime che gli solcavano il viso con la maglia gialloverde. Negli spogliatoi incontrò Pelé, e a documentarlo c’è anche una foto che lo mostra con il CT Zagallo (che guiderà il Brasile anche nella vittoriosa finale contro l’Italia del 1994), O Rei e Claudio Coutinho (il tecnico che non convocò Falcão per i Mondiali del 1978). Spiegarsi con un personaggio di questa statura non era facile, ma aveva il suo fascino per tutta la squadra e l’ambiente giallorosso. Campione indiscusso, Amarildo è rimasto sempre profondamente legato ai colori giallorossi tanto che nel 2013, su iniziativa e richiesta del figlio Rildo Tavares Silveira, la Roma ne festeggiò il compleanno inviando a Rio de Janeiro una maglia numero 11 della Roma con la scritta AMARILDO.

    AMELIA MARCO. Frascati (RM), 2 aprile 1982. Portiere. Cresciuto nel Settore Giovanile del Club. Due stagioni nella Roma, dal 1999 al 2001.

    Nel 2000 Fabio Capello gli fece arrivare un telegramma e Marco Amelia si ritrovò nel ritiro di Kapfenberg, nell’Austria più profonda, a guardare da vicino la Roma dei grandi. Andrea Michelini, inviato della Roma, prende un caffè con lui e gli chiede chi fosse il suo mito. Amelia non deve pensarci su: «Angelo Peruzzi». Se qualcuno gli avesse detto che sei anni più tardi avrebbe vinto un titolo mondiale assieme a lui, probabilmente non ci avrebbe creduto. Per il momento, il 21 luglio, si ritrovò, nella prima amichevole dell’anno, contro il Lebring, a difendere la porta della prima squadra, rilevando, nell’ultimo quarto d’ora Lupatelli. Il tecnico lo convoca anche per l’esordio in Coppa UEFA contro il Nova Gorica, il 14 settembre, quando farà da dodicesimo ad Antonioli. Stessa prassi nel doppio confronto di Coppa Italia del 17 e 22 settembre con l’Atalanta. Il 23 novembre, in Coppa UEFA con l’Amburgo, è invece il dodicesimo a guardia del titolare Lupatelli. Durante l’assenza di Antonioli, Amelia viene portato regolarmente in panchina nell’8a e 9a giornata di campionato (Roma-Fiorentina 1-0 e Perugia-Roma 0-0). Il 24 giugno salirà sul palco del Circo Massimo assieme ad altri compagni per partecipare alla festa del tricolore appena conquistato. Lasciata la capitale, vive una carriera di alto livello impreziosita, nel 2006, dalla convocazione, alle spalle di Buffon e Peruzzi, per i Mondiali di Germania che lo consacrano Campione del Mondo.

    AMENTA MAURO. Orbetello (GR), 23 novembre 1953. Centrocampista. Due stagioni nel Club, dal 1979 al 1981.

    Non è che fosse un supercampione, Mauro Amenta, ma che non fosse da annoverare nell’elenco degli ultimi della fila se ne accorse perfettamente anche il Petisso Pesaola che il 23 settembre 1979 andò a sbirciare la Roma contro il Pescara di Angelillo. Al 34', quando la Roma era già in vantaggio in virtù della rete di Scarnecchia, Amenta avanza sulla sinistra, si libera del suo marcatore e stringe al centro per battere a rete non appena entrato in area lasciando di sasso Piagnerelli. Pesaola allargò gli occhi e, a fine gara, scrisse per la cronaca che avrebbe dovuto pubblicare il Guerin Sportivo: «Particolarmente in luce Amenta e non solo per il gol. L’ex viola sembra aver ritrovato completamente quella forma che lo aveva messo in luce due anni or sono al Perugia». Il Petisso, leggendo gli schemi di Nils (che paragonò a Von Karajan), aveva intuito come fosse una pedina importante, sincronizzato nei ripiegamenti difensivi quando Spinosi, novello terzino fluidificante, saliva in qualche sortita.

    Ma da dove saltava fuori Amenta? Nato a Orbetello, toscano e pescatore, è innamorato del mare. Al pallone non ci pensa proprio, sono gli amici che dopo le classiche battute nella fauna marina lo trascinano in spiaggia a giocare. Come raccontò a Marco Evangelisti del Corriere dello Sport: «Ero mancino e segnavo con tutto quello con cui si può segnare. Il destro, il sinistro, la testa». Un bel giorno si accorge di lui l’allenatore della squadra locale e il ballo inizia. Non ha fatto mai una scuola calcio, ha cercato se mai di rubare con gli occhi, come al Genoa, quando si ritrova al fianco di Gigi Simoni, l’allenatore, che però «era uno che non ti faceva vedere il pallone». A Perugia, Mauro ha un impatto emotivo forte, si sente a casa, e in campo si vede. Liedholm lo nota proprio in un’amichevole contro i grifoni e cerca di portarlo in rossonero. Niente da fare, però, l’affare non si chiude. Nils riesce però ad averlo nella sua seconda Roma, un gruppo un po’ western, in cui Amenta si cala alla perfezione: «Ci mettevamo a metà campo e miravamo alla traversa, mille lire al colpo, ci riuscivano in pochi, io ero uno dei pochi». Quando è stanco, negli allenamenti, spesso si mette in porta e il Barone fa divertire, a zonzo per il campo, Tancredi e Paolo Conti. Altro calcio? Altro calcio. In due anni due Coppe Italia e un grande rimpianto sportivo, quello di essere andato solo in panchina per Juventus-Roma del gol di Turone: «Che poi il gol fu quasi un dettaglio […]. L’arbitro ne combinò mille».

    ANCELOTTI CARLO. Reggiolo (RE), 10 giugno 1959. Centrocampista. Otto stagioni nel Club, dal 1979 al 1987. Hall of Fame.

    Roberto Tedeschi è un mito, ed è un fotografo… si potrebbe dire che è un mito fotografo, ma finirebbe per dispiacergli, perché prima viene il mestiere, lo scatto, il momento imprigionato per l’eternità. Roberto si è fatto le ossa lavorando all’inizio della carriera per la rivista Giallorossi, che lo spediva dovunque ce ne fosse bisogno. E così nel luglio 1979 lo inviarono alla Ca’ del Liscio di Ravenna. A fare che? La Ca’ del Liscio era il regno di Raul Casadei, quello di Romagna mia… Romagna in fiore… E detta così non sembra proprio una serata epica, più che il calcio vengono in mente anziane signore dalle gote rosse che ballano a ritmi compassati. La missione del fotografo, però, era un’altra. Quella sera non si teneva il Festival del liscio, ma la premiazione annuale del Guerin d’oro. In quegli anni il premio assegnato dal popolare settimanale equivaleva all’Oscar del calcio italiano. Un premio ambito e un’occasione per celebrare i campioni affermati ed emergenti del movimento pedatorio tricolore. Una vetrina, insomma, che nel tempo aveva visto crescere enormemente il proprio prestigio. Tra i premiati dell’edizione 1979 spiccava anche il neoacquisto della Roma Carlo Ancelotti, Guerin di bronzo quale migliore giocatore della Serie C, ex aequo con un altro ragazzuolo di belle speranze di nome Pietro Vierchowod. La missione del buon Roberto era quella di fare delle foto d’impatto all’ex giocatore del Parma. Se ne fosse uscito fuori qualche scatto significativo c’era una buona probabilità che l’immagine avrebbe trovato posto sulla copertina di Giallorossi, nel numero 85.

    Imbrigliare un genio come Tedeschi, però, è impossibile, perché il suo occhio vede oltre l’ordinario. Una volta arrivato a Ravenna non aveva voglia di scattare la classica istantanea con il trofeo: ordinario, troppo scontato. Alla cerimonia si presentò Nils Liedholm, neoallenatore della Roma e tecnico neocampione d’Italia con il Milan. Italo Cucci, direttore del Guerino e patron della serata, era riuscito a ottenere la sua presenza a una sola condizione. Nils aveva chiesto di essere sistemato allo stesso tavolo di Ancelotti, con il quale desiderava parlare in santa pace. Lo scatto che finirà sulla copertina di Giallorossi, alla fine della fiera, non mostrerà nessun palco e nessun trofeo. Tedeschi cattura l’esatto istante in cui Liedholm, seduto su una poltrona, viene avvicinato da Cesare Maldini, allenatore del Parma, che probabilmente gli sta dicendo: Mister le presento Carlo Ancelotti, perché Nils non guarda Maldini, ma è ritratto intento a girarsi mentre sullo sfondo, in un impeccabile completo marrone chiaro abbinato con la cravatta e con lo sguardo pudicamente abbassato, sta arrivando Carlo Ancelotti.

    Se si deve scegliere un momento in cui è nata la grande Roma di Liedholm, ebbene questo è il primo vagito. È difficile dire quanto abbia rappresentato per la Roma Ancelotti (al di là dello scudetto vinto, delle quattro Coppe Italia, dei tre secondi posti, dell’avventura nella Coppa dei Campioni, che non poté vivere fino in fondo per il secondo infortunio ai legamenti). Di quella squadra è stato allo stesso tempo potenza e classe, disciplina e fantasia, furore agonistico e fosforo. Sono forse poco obiettivo, perché Carletto è stato, a mio avviso, il prototipo insuperabile del calciatore romanista. Arrivò al Circo Massimo pochi giorni più tardi in punta di piedi, spiegando ai giornalisti incuriositi che il suo nome si scriveva con una L soltanto e chiedendo a tutti di non aspettarsi troppo da lui. Agostino Di Bartolomei, prudente e riflessivo nel valutare i compagni, dopo poche settimane (all’inizio del 1979) disse la sua su questo neoacquisto arrivato da Reggiolo: «È un ragazzo eccezionale. Secondo me, nel giro di un paio di anni, diventa uno dei più forti rifinitori in circolazione. Può giocare in vari ruoli […] ha un bel tocco, visione di gioco, stile, grinta nei tackles, bel temperamento. Secondo me farà molta strada». Ago non sbagliava.

    ANDERSSON SUNE. Södertälje (Svezia), 22 febbraio 1921 – Solna (Svezia), 29 aprile 2002. Centrocampista-Attaccante. Due stagioni nel Club, dal 1950 al 1952.

    La sua esperienza nella Roma iniziò nell’estate del 1950, minata da un grosso equivoco. Andersson doveva la popolarità internazionale alla lunga militanza nella Nazionale svedese (con cui aveva conquistato l’oro olimpico nel 1948) che in quegli anni stava scalando posizioni su posizioni nelle gerarchie del calcio europeo. In due occasioni, proprio nella ribalta più prestigiosa, vale a dire durante i Campionati del Mondo di Brasile 1950, aveva ricoperto il ruolo di mezzala ma nelle altre ventisei apparizioni con la rappresentativa della sua Nazionale aveva sempre giocato da mediano, come del resto, in assoluto, da quando a quindici anni aveva iniziato a calcare i campi erbosi del football. In quella manifestazione, l’atavica carenza di velocità era stata compensata dal tiro potente di Sune e Vincenzo Biancone lo aveva dunque inserito nei consigli girati alla Roma. Venne pertanto acquistato come mezzala, cosa che non mancò di mettere il giocatore in grande difficoltà. Il Giallorosso del 14 marzo 1951 scrisse che le prime parole che Andersson era riuscito a pronunciare rivolto al suo allenatore erano state: «Io numero 4, numero 6, non numero 10». Questo impiego fuori ruolo aveva indubbiamente contribuito alla luna nera della Roma 1950/51 e, per un certo periodo, dopo la conclusione del campionato, si parlò molto concretamente della fine del suo rapporto con i colori giallorossi. Alla fine, però, rimase e fu una scelta felice, perché lo svedese trovò infinite occasioni per rendersi utile alla causa, come in apertura di campionato, il 21 ottobre 1951, quando contro il Venezia siglò il gol del 2-0. L’arbitro concesse un calcio di punizione da una distanza tale che il portiere non ritenne opportuno piazzare la barriera. Il Giallorosso osserverà: «Non conoscevano i veneti la potenza del tiro di Andersson. E mal gliene incolse. Partì un pallone carico di nitroglicerina che andò a spegnersi direttamente nel sacco, fermato dalla rete». E ancora, contro il Marzotto, il 28 ottobre 1951, sempre Il Giallorosso lo definisce: «Un artista, un giocoliere, un coordinatore, un animatore, pensate tutto quello che volete di lui. […] Quello che ha fatto fare andrebbe scritto in lettere d’oro. E dire che c’era chi avrebbe voluto mettere in disparte questo fuoriclasse». Un crescendo continuo, dunque, fino ad arrivare a prestazioni super come l’11 maggio contro la Reggiana, quando è devastante: «Veramente spettacoloso. Alcune sue azioni suscitano applausi a scena aperta e furono espressione di talento calcistico. Un capolavoro il passaggio con cui permise a Bettini di realizzare l’ultima rete. Da pochi passi, con un pallonetto dolce, alzò sopra la testa di un avversario e mise Bettini in posizione di tiro» o contro il Brescia, il 22 maggio 1951: «I soliti colpi geniali, la solita intelligenza di movimenti» anche se qui riaffiora il suo limite: «Spesso lo svedese fu preso in velocità e tagliato fuori dalla sveltezza dei passaggi solleciti degli avversari». Una volta riportata la Roma in A, tornò a giocare in Svezia serbando sempre un grande ricordo dell’Italia.

    ANDRADE DA SILVA JORGE LUÍS. Juiz de Fora (Brasile), 21 aprile 1957. Centrocampista. Una stagione nel Club, dal 1988 al 1989.

    È passato alla fine come un bidone, e un bidone non era. Acquistato per 900 milioni dal Flamengo, Andrade arrivò alla Roma a tempo scaduto, oltre il tramonto di una carriera che era stata fantastica. Nel Flamengo aveva iniziato a diciassette anni, rimanendo un titolare inamovibile per 12 stagioni e collezionando tra campionato, coppe e Nazionale brasiliana 580 gare (20 le presenze nella Seleção) e 30 reti. Soprannominato Lo scaricatore di pianoforti (una sorta di "lavatrice ante litteram), è stato compagno di squadra di campioni stellari, uno su tutti Pluto Aldair che negli esordi italiani trovandosi spesso di fronte a chi gli chiedeva se non temesse a Roma di ripetere l’esperienza di Andrade, un giorno rispose: «Giocava con me al Flamengo e posso assicurare che quando giocava male lui il Flamengo non girava». Sin dalle prime battute della permanenza nella capitale apparve evidente che i suoi ritmi erano incompatibili per il calcio europeo. Si fece valere solo il 9 novembre 1988, in Coppa UEFA, cucendo bene il gioco contro il Partizan di Belgrado. Lo stadio Olimpico quel giorno era un cantiere aperto, con una delle curve, la Sud, abbattuta. Il Maraja, abbozzò un sorriso ma il Völler di quella giornata aveva portato la croce e cantato la messa".

    ANDREOLI SERGIO. Capranica (VT), 3 maggio 1922 – Viterbo 18 maggio 2002. Difensore. Nove stagioni nel Club (comprese le due di guerra), dal 1941 al 1950.

    Vestiva la casacca del Perugia, Sergio Andreoli, quando il 27 agosto 1938 giocò a Testaccio contro la Roma nella prima gara stagionale dei giallorossi. Dire che si mise in luce è a dir poco un azzardo. C’era poco da mettersi in luce in una gara che finì 6-0 e che lo vide destreggiarsi a centrocampo. Un fatto però è certo, che nella Roma giocava ancora Fulvio Bernardini e Andreoli (questo me lo disse personalmente e con grande forza) era convinto che a portarlo alla Roma fosse stato proprio lui. Passarono tre anni e Schaffer cercava giocatori di belle speranze con cui puntellare il reparto difensivo. Bernardini gli suggerì di andare a vedere Andreoli. Sergio approdò alla Roma e fu già una festa (entrò nella vecchia casa di Capranica e davanti alla madre gettò in aria le banconote da mille lire ricevute per premio d’ingaggio: «C’era il camino acceso e mia madre, poverina, si spaventò molto»), ma doveva essere solo il terzo pretendente alla maglia a titolare. L’infortunio di Acerbi e la scelta di Luigi Nobile di dedicarsi completamente alla professione medica gli spalancarono le porte della prima squadra. L’esuberanza, la freschezza fisica e la grinta di Andreoli fecero il resto e furono una delle armi della Roma campione d’Italia 1942.

    Con il tempo il suo bagaglio tecnico si affinò e il peso all’interno della squadra crebbe. Nel giugno 1944, proprio Fulvio Bernardini scriverà sul Corriere dello Sport, facendogli forse l’omaggio più bello: «La differenza tra la Roma e la Lazio si riduce tutta a una questione di vocali: Andreolo e Andreoli». La classe del campione del mondo Andreolo in favore della Lazio e le tante assenze di Andreoli nel campionato di guerra appena concluso dall’altra. In una chiusura del cerchio perfetta, Andreoli lascerà la Roma al termine della stagione 1949/50 dopo essersi pesantemente esposto (assieme a Maestrelli) proprio per difendere il tecnico Bernardini.

    Andreoli è stato il primo capitano a mostrare al braccio la fascia (l’11 settembre 1949 in Roma-Pro Patria 2-0) e ha interpretato quel ruolo con una consapevolezza e un amore che hanno pochi rivali. Nel 1954, per il numero unico La Roma da Testaccio all’Olimpico, gli venne chiesto di scrivere un intervento rievocativo della sua carriera romanista indicando un episodio che gli fosse rimasto impresso. Andreoli scelse di rievocare la sfida esterna con il Modena del 4 novembre 1948. A quattro minuti dal termine i lupi erano in svantaggio per 2-0, quando l’arbitro decretò un calcio di punizione in favore dei giallorossi a una trentina di metri dalla porta: «Nell’effettuare il tiro», scrive Sergio, «misi tutto me stesso e la mia forza, e la palla s’infilò diretta nell’angolo basso della porta avversaria […]. La seconda occasione mi si presentò due minuti dopo sempre sotto forma di un altro calcio di punizione. Anche in quel tiro misi tutto me stesso, ma sfortuna volle che la traversa respingesse il pallone da me calciato con estrema violenza. Sembrava che con quella traversa fossero finite tutte le nostre speranze, invece, quando ormai si giocava il recupero, capitò la terza occasione e questa volta sotto forma di calcio d’angolo. La nostra ala sinistra, Pesaola, fece fare la sua brava traiettoria alla palla e questa fu immediatamente allontanata dai difensori modenesi, ma disgraziatamente per loro, capitò tra i miei piedi e io senza stare a pensarci due volte la colpii al volo scaraventandola nella rete avversaria. Palla al centro e fine della partita. I miei compagni di squadra si precipitarono immediatamente verso di me, e in trionfo mi portarono sino al nostro spogliatoio, dove anche i dirigenti e l’allenatore Brunella, mio compagno di tante battaglie, mi abbracciarono». Il terzino catapulta, rimase sempre tenacemente

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