Le parole dei giovani Sisifo
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Dare un senso alla fatica. È possibile? È ancora possibile dopo gli anni laceranti della pandemia, mentre imperversano conflitti e calamità naturali che sembrano scandire questo tempo senza sosta? Che lettura ne possono fare i giovani, soprattutto studiosi, che si occupano di ricerca e spesso sono in ricerca? Sisifo come metafora della fatica, di ogni tempo, che affligge giovani e non. Una sofferenza non occasionale, ma quotidiana, senza fine addirittura per lui, condannato per l’eternità a spingere un masso sulla cima di un monte e ad assistere poi impotente al suo precipitare a valle. Il tormento di Sisifo è apparentemente assurdo e inutile: occorre ricominciare a spingere daccapo, sempre. Muove da provocazioni simili questo saggio, in ascolto di alcuni “giovani Sisifo”, di ieri e di oggi. Talvolta anche giovanissimi, talentuosi e acerbi, vissuti durante il secondo conflitto mondiale, insieme a loro coetanei contemporanei, gravati da fardelli con nomi, volti, scenari differenti. Eppure, macigni spesso simili, che parlano la stessa lingua, pur essendo di Paesi ed epoche diverse. Un intreccio di volti, di incontri e di parole: le loro. Racconti appresi, ascoltati, condivisi. Storie di ieri e di oggi; forse, chissà, utili anche per domani. L’insieme delle storie, il tentativo di dare voce ai protagonisti e di immaginarli in dialogo, provando a offrire anche a chi legge uno spazio di relazione con le parole e, se possibile, al di là di esse.
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Anteprima del libro
Le parole dei giovani Sisifo - Maria Flora Mangano
Maria Flora Mangano
Le parole dei giovani Sisifo
Copyright© 2023 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via dei Casai, 6 – 38123 Trento
www.edizionidelfaro.it
info@edizionidelfaro.it
Prima edizione digitale: dicembre 2023
Progetto grafico di copertina
autore: Alessio-b; opere in esclusiva: cdstudiodarte.it
courtesy: CD Studio d’Arte Padova; direttore artistico: Carlo Silvestrin
ISBN 978-88-5512-395-2 (Print)
ISBN 978-88-5512-783-7 (e-book)
http://www.edizionidelfaro.it/
https://www.facebook.com/edizionidelfaro
https://twitter.com/EdizionidelFaro
http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro
Il libro
Dare un senso alla fatica. È possibile? È ancora possibile dopo gli anni laceranti della pandemia, mentre imperversano conflitti e calamità naturali che sembrano scandire questo tempo senza sosta? Che lettura ne possono fare i giovani, soprattutto studiosi, che si occupano di ricerca e spesso sono in ricerca? Sisifo come metafora della fatica, di ogni tempo, che affligge giovani e non. Una sofferenza non occasionale, ma quotidiana, senza fine addirittura per lui, condannato per l’eternità a spingere un masso sulla cima di un monte e ad assistere poi impotente al suo precipitare a valle. Il tormento di Sisifo è apparentemente assurdo e inutile: occorre ricominciare a spingere daccapo, sempre. Muove da provocazioni simili questo saggio, in ascolto di alcuni giovani Sisifo
, di ieri e di oggi. Talvolta anche giovanissimi, talentuosi e acerbi, vissuti durante il secondo conflitto mondiale, insieme a loro coetanei contemporanei, gravati da fardelli con nomi, volti, scenari differenti. Eppure, macigni spesso simili, che parlano la stessa lingua, pur essendo di Paesi ed epoche diverse. Un intreccio di volti, di incontri e di parole: le loro. Racconti appresi, ascoltati, condivisi. Storie di ieri e di oggi; forse, chissà, utili anche per domani. L’insieme delle storie, il tentativo di dare voce ai protagonisti e di immaginarli in dialogo, provando a offrire anche a chi legge uno spazio di relazione con le parole e, se possibile, al di là di esse.
L’autrice
Maria Flora Mangano (Viterbo, 1972), biologa, PhD in biochimica, si occupa di comunicazione scientifica dal 2000. Ha maturato esperienza nella comunicazione negli ambiti pubblico, privato e non-profit, lavorando a Milano e Roma, nei contesti nazionale e internazionale. Dal 2003 tiene corsi, scuole intensive e seminari CRS
a giovani ricercatori di varie facoltà scientifiche italiane. Dal 2008 è docente di dialogo tra le culture all’Istituto Filosofico-Teologico S. Pietro
(Viterbo).
Ai giovani Sisifo che hanno perso la vita
mentre studiavano, svolgevano ricerca,
portavano avanti progetti, sogni e desideri di bene.
Che queste pagine possano contribuire
a prendere in mano il loro testimone,
per continuare a camminare,
a piantare semi e a vedere germogliare le loro pianticelle.
Le parole dei giovani Sisifo
Avvertenze
Etimologia e definizione dei termini
L’etimologia dei vocaboli presentati in questo saggio fa riferimento al Dizionario etimologico online (www.etimo.it) e le definizioni sono tratte dal Vocabolario dell’Enciclopedia Treccani online (www.treccani.it/vocabolario).
Link
I link sono aggiornati al 30 novembre 2023. L’autrice e l’editore si scusano per gli eventuali disagi dovuti alle modifiche degli indirizzi dei link successive a questa data.
Norme bibliografiche e stile
Le citazioni bibliografiche riportate nel saggio seguono le norme curate dall’American Psychological Association (APA), che ha ideato un formato per la pubblicazione dei testi conosciuto come APA style® (apastyle.apa.org). È, al momento, lo stile maggiormente utilizzato all’interno della comunità accademica internazionale.
In particolare, nelle citazioni si utilizzano le virgolette alte () tipiche della grammatica inglese, piuttosto che le basse («»); le note sono di solito assenti; sono quindi molto ridotte in questo saggio.
Lo stile APA, infine, non utilizza abbreviazioni in latino nelle note; non sono quindi presenti nelle pagine seguenti.
Prologo
Provare a riparare le ferite
Il termine giapponese kintsugi significa letteralmente riparare con l’oro
. Rimanda a una tradizione antica, utilizzata a partire dal XV secolo dai maestri ceramisti nipponici¹.
Tecnica e arte: un lungo processo di lavorazione permette di riparare porcellane e ceramiche, fissando le parti danneggiate con una particolare lacca, che le salda e assicura alla polvere d’oro di ancorarsi. La crepa viene ricomposta, impreziosita, valorizzata: ciò che era frantumato, ormai inutilizzabile e destinato a essere gettato via, diventa un’opera d’arte. Le linee di rottura vengono esaltate nella loro nuova vita, che conferisce all’oggetto una bellezza irripetibile. Ogni pezzo, infatti, si rompe in modo diverso, ciascuna ferita è quindi unica.
L’arte e la tecnica del kintsugi, attraverso i secoli, perfezionano l’idea di recuperare la fragilità, le spaccature, di oggetti che sembrano inservibili. Mostrano che le situazioni spezzate che spesso frammentano la quotidianità non sono da nascondere, né da buttare. L’esatto contrario: custodire quanto è danneggiato, ripararlo con materiali preziosi, che richiedono tempo, passaggi lenti, perizia e studio. La lacca fissa, aderisce alle ferite, aiuta la loro cicatrizzazione, per permettere all’oro, polvere di valore inestimabile, di posarsi e di brillare. L’essiccazione completa l’opera, nei giorni, in condizioni di temperatura e umidità adatte: nasce un capolavoro, impensabile prima della rottura, ineguagliabile al termine del processo.
Il talento raffinato dei ceramisti giapponesi può diventare metafora di resilienza per ogni epoca, cultura, fase della vita.
Si ripara per valorizzare, senza nascondere, sminuire, disprezzare.
Si ripara ciò che sembra perduto, ormai ridotto in frantumi, solo da scartare.
Si ripara per restituire significato all’imperfezione al punto da esaltarla, trasformandola in un pezzo di raro pregio.
Ma occorre essere disposti a rischiare, lasciando che il tempo e l’abilità dell’artista lavorino.
Il kintsugi richiede competenza, pazienza, materiali, dedizione. L’oggetto ricomposto è molto più che il prodotto di una tecnica, è un messaggio da condividere, perché altri possano apprezzarlo, scoprirne la bellezza e il valore.
La riparazione diviene, allora, qualcosa di più grande, non solo legata agli oggetti, al servizio di porcellana o alle ceramiche di casa. La prospettiva si amplia, nel tempo e nello spazio, diventando, se possibile, visione della realtà, pratica quotidiana.
Si può riparare il mondo
a partire da un singolo oggetto, secondo l’espressione ebraica tiqqun olam.
È un principio di vita, un’ottica alla quale guardare l’esistenza (Gambino, 2019): riparare (tiqqun) nel senso originario di equilibrare, armonizzare di nuovo
, quindi, rimettere a posto. Da questa accezione deriva il significato attuale di perfezionare
, rendere migliore
, cioè più giusto per l’altro
.
In questa prospettiva non si rincorre un equilibrio generico o un’idea di armonia astratta, né la perfezione fine a sé stessa perché centrata su di sé.
Un atto, unico o individuale, può diventare collettivo, universale, e raggiungere l’umanità, il mondo intero, per sempre: olam significa sia mondo
, sia di tutti i tempi
.
Nell’ebraismo la convinzione è che si possa contribuire concretamente, nella quotidianità, a riparare il mondo
, ciascuno a suo modo. Non conta molto quando o quanto, né dove e come: una scoperta, un’invenzione, in ogni ambito del sapere, ma anche un testo, un brano musicale, un’opera d’arte, uno strumento tecnologico, possono diventare opportunità per migliorare l’umanità.
Ogni individuo può collaborare a questo atto di riparazione, secondo le proprie capacità e possibilità; anche partendo dalle macerie, nonostante le ferite e le fragilità. Anzi, prendendo in prestito l’arte dei maestri ceramisti, proprio grazie a queste crepe.
Riparare le fratture del mondo con l’oro, sembrano suggerire questi due termini, andando oltre il loro significato letterale: kintsugi e tiqqun olam, insieme. Lavorare, con cura e materiali pregiati, a qualcosa di grande, anche se all’apparenza rotto e inutile, per renderlo migliore: più giusto per chi ne potrà godere e più bello per chi riuscirà ad apprezzarlo.
Anche la scrittura può diventare un atto di riparazione: scrivere per saldare le crepe, per cicatrizzare le ferite, magari alcune, anche soltanto una.
Questo saggio nasce da un intento simile. La tematica, la struttura, i testi che raccoglie e sui quali si interroga sono un tentativo, individuale e collettivo insieme, di riparare le spaccature. Con la parola.
Le parole possono ricomporre le linee di rottura dell’esistenza, anche se spezzata e all’apparenza immutabile. Parole come lacca, che cementa le storie, le valorizza, ne esalta la bellezza, nonostante le imperfezioni. Anzi: grazie a queste.
La fatica quotidiana che le parole descrivono, è, se possibile, la polvere d’oro, depositata con cura, tempo, sofferenza, su ciascuna storia.
I protagonisti sono gli artigiani della parola. Giovani, alcuni anche giovanissimi, talentuosi e acerbi, vissuti nel secolo scorso, insieme a loro coetanei contemporanei, gravati da pesi con nomi, volti, scenari differenti. Eppure, fardelli simili, talvolta così vicini da usare quasi le stesse parole. Le loro. Racconti appresi, ascoltati, condivisi. Storie di ieri e di oggi; forse, chissà, utili anche per domani.
L’insieme delle storie, l’intreccio delle parole, il tentativo di mettersi in ascolto dei protagonisti e di immaginarli in dialogo come possibile gesto, segno, messaggio di riparazione, per chi legge e per chi scrive.
Il mito di Sisifo
Sisifo è un mortale secondo la mitologia greca. Omero lo descrive come il più saggio e prudente tra gli esseri umani; da altri autori, invece, è presentato come il più scaltro e disonesto, che ha il coraggio di sfidare gli dei.
La sua astuzia lo salva in varie occasioni, ma la vendetta di Zeus è spietata: Sisifo è costretto a spingere un masso sulla cima di un monte per l’eternità.
Appena arrivato sulla vetta, assiste impotente al precipitare della pietra al punto di partenza. Deve ricominciare a spostare il macigno daccapo.
Nella tradizione filosofica di origine greca, Sisifo diventa l’emblema della fatica, inutile e infinita. Uno strazio incomprensibile, quindi, letteralmente, che non si può prendere con sé
, e, in questo caso, anche su di sé. Una pena impossibile da capire e da portare, da sopportare.
Un tormento simile non sembra avere senso, appare illogico, assurdo.
Nell’accezione corrente il termine assurdo
è sinonimo di insensato
, cioè contrario alla ragione, all’evidenza
, e di incredibile
, qualcosa che è eccezionalmente strana, per questo al di fuori di quanto possiamo credere.
Il significato attuale richiama quello etimologico, che deriva dal latino absurdus: dissonante, stonato, che suona male
, letteralmente, lontano (ab, da
) dal parlar saviamente
; sardare è il verbo originario, da cui surdus o sardus. La radice del verbo sardare è suar che vuol dire suonare
.
È assurdo qualcosa, qualcuno, che offende il senso comune e ripugna nei termini
, per questo motivo non si comprende, non si ritiene ragionevole.
Come la fatica di Sisifo.
È sull’assurdità dell’esistenza che si incentra la riflessione di Albert Camus, filosofo e scrittore francese di origine algerina, vissuto tra i due conflitti mondiali. Nato in Algeria nel 1913, in una famiglia di condizioni modeste, si ammala da adolescente di tubercolosi.
La guerra, la malattia, l’assenza di giustizia sociale, in particolare la miseria di chi non ha voce, angustiano Camus. Egli esprime questo tormento nella scrittura e nell’impegno sociale, come giornalista e attivista politico, prima in Algeria e poi in Francia, dove si trasferisce nel 1940 per potersi curare.
Ha all’incirca 27 anni quando lavora a Il mito di Sisifo, pubblicato nel 1942, a pochi mesi dal suo romanzo d’esordio, Lo straniero. Continua a dedicare parole e attenzione soprattutto agli esclusi fino alla morte, avvenuta prematuramente nel 1960 per incidente stradale.
Pensiero e impegno civile sono inseparabili per Camus: scrittura e attività politica pongono al centro il dramma dell’essere umano, ciò che vede, sente e quanto attraversa la sua quotidianità. Un presente senza avvenire, per il quale non c’è posto per la speranza, né per la fede. Camus non esclude l’esistenza di Dio, ma non lo cerca, né a un senso religioso si affida.
Come Sisifo è un uomo in rivolta, come intitola un suo saggio del ’51, che lotta senza tregua, oppresso da un’esistenza assurda, alla quale, però, non può, e non intende, sottrarsi.
Secondo Camus, Sisifo è l’eroe assurdo
(Camus, 1964, p. 160), consapevole del proprio stato e capace di fronteggiarlo. È gravato dal peso del macigno, ma non ne è sopraffatto.
Presenta Sisifo a conclusione del suo saggio, quasi a invitare il lettore, quindi anche noi, a intraprendere un percorso per poterlo scoprire.
Verso la cima ammantata di notte
La riflessione di Camus si snoda attorno a un ragionamento assurdo
(Camus, 1964, p. 26), che pone quello che considera il quesito fondamentale della filosofia
(Camus, 1964, p. 27) già nelle prime righe: giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta
(Camus, 1964, p. 27).
Quando l’essere umano prende coscienza della mancanza di senso dell’esistenza, crolla il castello di carte che si è costruito e perdono significato i programmi e le priorità che hanno scandito la sua quotidianità.
Lo smarrimento è lacerante: l’individuo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta e della speranza di una terra promessa
(Camus, 1964, p. 30). Un’esistenza senza passato e futuro, quindi senza memoria né scopo, per questo senza attesa, desideri, speranza.
Camus definisce l’assurdo come il divorzio tra l’uomo e la sua vita, tra l’attore e la scena
(Camus, 1964, p. 30); una consapevolezza tragica, che rivela all’essere umano la sua condizione: abitare un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci
(Camus, 1964, p. 30).
Prigioniero di quanto ha compreso, l’essere umano lotta alla ricerca di una via d’uscita. L’unica che appare possibile, però, è anche la più drastica: porre fine all’esistenza come rimedio estremo alla sua mancanza di senso.
Darsi la morte eliminerebbe in modo definitivo il supplizio, ma non liberebbe l’essere umano dall’assurdità