Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Terzo teatro: Un grido di battaglia
Terzo teatro: Un grido di battaglia
Terzo teatro: Un grido di battaglia
E-book248 pagine3 ore

Terzo teatro: Un grido di battaglia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

I testi raccolti nel libro analizzano strategie, metodi e risorse di un’arte povera che cerca costantemente spazi di autonomia e di sopravvivenza. Eugenio Barba, Franco Ruffini, Nicola Savarese e Julia Varley svelano l’identità del Terzo Teatro attraverso la storia di gruppi, individui e territori di un arcipelago teatrale ancora molto esteso e lontano dal mercato dello spettacolo. In questo misterioso ecosistema culturale risuona un comune grido di battaglia a sostegno della libertà, della uguaglianza e della partecipazione collettiva.
LinguaItaliano
Editorela Bussola
Data di uscita18 lug 2022
ISBN9791254741313
Terzo teatro: Un grido di battaglia

Correlato a Terzo teatro

Ebook correlati

Arte per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Terzo teatro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Terzo teatro - Claudio La Camera

    SPOSARE UNA MASCHERA. CAMBIO E CONTINUITÀ IN UN GRUPPO DI TEATRO

    Eugenio Barba

    Pensavo ultimamente a una frase che viene utilizzata nel teatro balinese topeng, dove l’artista danza con una maschera. Quando il giovane comincia il suo apprendistato si dice che si sposa con una maschera: kawin dengan topeng.

    La maschera è un oggetto inanimato, eppure eccola acquistare un valore di partner vivente. Il matrimonio è una relazione personale, costante, intima, in cui sentimenti e corporalità si alternano con separazione e unione. L’attore del topeng parla di questa esperienza — l’unità con la maschera — che lui/lei riesce a vivere quando supera la danza — una serie di movimenti, di posture e di ritmi appresi — e fa vivere la maschera.

    Chiunque può apprendere a danzare. Chiunque può conoscere e ripetere i movimenti. Però il vero matrimonio avviene quando, come attore, padroneggi l’arte di far palpitare, fremere e rendere viva la maschera. Questo è quello che dicono i maestri.

    L’immagine del matrimonio è una metafora suggestiva e concreta che riguarda il rapporto con il proprio mestiere. Posso allora domandarmi: qual è la relazione concreta tra me e il mio mestiere?

    Cos’è che incarna materialmente, emotivamente, sensorialmente il mio mestiere?

    Ho riflettuto su ciò che era per me l’equivalente della maschera per l’attore di topeng. Ho concluso che per me l’ambiente di lavoro rappresenta il partner con il quale sono sposato: le singole persone che condividono la continuità del mio lavoro teatrale.

    Un matrimonio comporta una durata costituita da molte variazioni: momenti di avvicinamento, momenti di distanza, momenti dove non ci si parla, momenti dove ci si racconta tutto, momenti di armonia condivisa, momenti di contrasto.

    Come influisce questa dinamica sul nostro lavoro?

    Come ci permette di mantenere viva la relazione con il nostro mestiere, cioè dar vita alla nostra maschera, al nostro ambiente di lavoro?

    Debbo qui fare immediatamente una distinzione, perché esistono due ambienti di lavoro totalmente differenti per chiunque fa teatro.

    Esiste un ambiente di lavoro aggregato meccanicamente, il più diffuso in tutti i tempi e tutte le culture. È il teatro professionale di ogni genere, estetica e tendenza, sperimentale, tradizionale o commerciale. Si scritturano gli attori per spettacolo obbedendo alle regole del cast. Se è un’entità permanente, i componenti — attori, tecnici, registi, drammaturghi — sono organizzati sulla base di una precisa divisione del lavoro che mira a un risultato di un buon livello standard. Aggregazione meccanica non è una definizione negativa. Vuol dire che l’esperienza professionale dei componenti di questo ambiente di lavoro è il presupposto per un determinato risultato che si ipotizza. Il loro sviluppo come esseri umani o cittadini può essere una conseguenza, ma non è il fine.

    Esiste un altro ambiente di lavoro, quello del teatro di gruppo. È un tipo di aggregazione organica che si è sviluppata negli anni ’70, con una caratteristica fondamentale che lo distingue dall’ambiente di lavoro aggregato meccanicamente. L’apprendistato avviene all’interno del gruppo. Il matrimonio — la relazione con un numero limitato di persone — non si sviluppa secondo il programma di una scuola teatrale suddiviso in diverse discipline e materie (voce, dizione, storia del teatro, semiotica, storia della scenografia, improvvisazione, ecc.) in attesa di essere poi scritturati da qualche teatro.

    L’esperienza fondatrice di tutti i gruppi di teatro che conosco è costituita da esercizi fisici e vocali, il training. La caratteristica del training è obbligare il giovane a impegnare l’intero corpo a resistere nonostante la stanchezza, ad apprendere a pensare con tutto se stesso, a superare ostacoli e inibizioni, acquisire una disponibilità fisica e mentale, liberarsi dai condizionamenti privati. È una pratica rara nella nostra società dove la competenza concettuale, il rapporto causa/effetto e risultato/utilità sono fattori fondamentali in qualsiasi apprendistato. Ora, il training, questo lavoro su stessi — come direbbe Stanislavskij — è quello che caratterizza e determina il modo di pensare e agire degli attori dei gruppi di teatro che conosco.

    Quello che mi importa sottolineare è come questa differenza di apprendistato si manifesta nel tempo.

    Ogni durata è una continuità radicata nella ripetizione. La ripetizione rischia di diventare entropia se non subentrano mutamenti, ostacoli, interruzioni che provocano cambiamenti di energia e diversificano le motivazioni e le iniziative personali che alimentano la dinamica del gruppo. I cambiamenti sono spesso dovuti a conflitti interni, a fughe improvvise di uno o più componenti, a rapporti di coppia che si incrinano. L’ambiente di lavoro può continuare con una forza d’inerzia o auto-compiacimento che alla fine lo soffoca o lo sfascia. È un fatto che noi tutti conosciamo: i gruppi di teatro hanno vita breve. Dopo alcuni anni, le persone vanno via. Il loro teatro non è un edificio, un’istituzione: il teatro sono loro, le loro individualità, le relazioni e decisioni che sono in grado di realizzare. In un ambiente di lavoro aggregato meccanicamente per creare uno spettacolo di un certo livello standard, le persone possono lasciare alla fine del contratto, però l’istituzione continua. Per un gruppo di teatro, questo non avviene.

    Si può parlare di ambienti di lavoro che usano gli attori in un’organizzazione di tipo aziendale, e di ambienti di lavoro creati attraverso un’affiliazione degli attori: i gruppi di teatro.

    Mi hanno domandato spesso quali siano i fattori che hanno deciso della lunga durata dell’Odin Teatret con lo stesso nucleo di attori.

    La longevità dell’Odin Teatret non è un’eccezione.

    La storia degli ultimi settanta anni mostra molti gruppi che hanno resistito con un nucleo di attori sin dall’inizio. Pensate al Teatro Galpón in Uruguay, fondato nel 1950. La carismatica personalità di Atahualpa del Cioppo guida il suo gruppo anche durante l’esilio in Messico al tempo della dittatura nel suo paese, e stimola una generazione dopo l’altra con un ambiente di lavoro che li rende indipendenti. Fanno un altro mestiere durante la giornata per guadagnarsi il pane, e si riuniscono la sera per provare e fare spettacoli. Il loro esempio è la prova innegabile che è possibile.

    Conosco molti altri teatri la cui vitalità è presente da trenta, quaranta e cinquant’anni: La Candelaria in Colombia, Yuyachkani in Perú, Tribo de Atuadores Ói Nóis Aqui Traveiz e LUME in Brasile, Teatro Buendía a Cuba, Teatro Atalaya e Teatro del Norte in Spagna, Grenland Friteater in Norvegia, Teatro delle Radici in Svizzera, Antagon Theater Akt-ion in Germania, Dah Teatar in Serbia e molti in Italia: Teatro tascabile di Bergamo, Teatro Potlach, Teatro Nucleo, Teatro Due Mondi, Teatro Ridotto, Teatro Proskenion.

    Nomino questi gruppi perché sono la prova che questo vulnerabile ambiente di lavoro può durare. Dipende dalle persone che lo compongono, dalla loro auto-disciplina, la loro energia, i loro valori. Sarebbe interessante chiedere a ognuno di loro: come avete fatto a proteggere la continuità, e nello stesso tempo a superare le trasformazioni che hanno rivitalizzato la vostra esperienza, i vostri rapporti, la fiducia e la speranza nel vostro lavoro?

    Vi sono dei fattori ben precisi che hanno contribuito a mantenere vitale l’Odin Teatret sin dal 1964. Qui racconterò uno di questi fattori di cui parlo raramente. Li chiamo terremoti. Sono degli sconvolgimenti radicali che hanno sconquassato il nostro gruppo, catapultandolo in una situazione inaspettata. Per sopravvivere, siamo allora costretti ad affrontarla e trovare una via d’uscita sfruttando l’esperienza passata che, però, non può essere ripetuta meccanicamente.

    L’Odin Teatret fu fondato nel 1964 a Oslo, quando riunii quattro giovani rifiutati dalla scuola teatrale. Creammo un piccolo gruppo di teatro amatoriale. Pagavamo di tasca nostra e quindi potevamo prenderci il lusso di usare tutto il tempo che volevamo. Fummo dei pionieri nella pratica del training: esercizi fisici e vocali, pantomima, balletto, procedimenti autodidatti di pratiche ispirate dai libri. Iniziammo subito a provare un testo di Jens Bjørneboe. Lo terminammo dopo otto mesi e cominciammo a rappresentarlo.

    A quel tempo esisteva un unico modello di teatro: un edificio in cui attori professionisti, dopo aver terminato una scuola, interpretavano dei testi. Noi non avevamo un edificio teatrale, per cui mostravamo il nostro spettacolo nelle palestre, nelle scuole, nelle sale dei musei, a volte in una chiesa o in un hangar di una fabbrica. Era qualcosa di totalmente nuovo nel 1964-65. La mancanza di scenografia ci permise di girare in tutta la Scandinavia grazie ai contatti che avevo con alcuni amici.

    Nel 1966 fummo inviatati a stabilirci in Danimarca, a Holstebro, una cittadina di 16.000 abitanti che, non avendo un edificio teatrale, mise a disposizione una fattoria in disuso fuori dalla città. Trasformai la stalla delle mucche in una sala dipinta di nero dove attori e spettatori avevano difficolta a orientarsi.

    Il primo terremoto che colpì l’Odin Teatret fu questa migrazione. Io e i quattro attori lasciammo la capitale della Norvegia per trasferirci in una cittadina danese di provincia. Ci staccammo da famiglie e amici, dalla lingua che parlavamo, dall’ambiente culturale che conoscevamo, e dovemmo districarci in un paese sconosciuto, la cui lingua era differente, senza possibilità di farci capire dagli spettatori. Era una situazione di impossibilità creativa.

    Immaginai di trasformare l’Odin Teatret in un teatro con attori da tutta la Scandinavia. Cercai così di giustificare come un’idea originale la situazione di handicap in cui mi trovavo. La conseguenza fu che i giovani che volevano essere attori all’Odin arrivarono dalla Finlandia, dalla Norvegia, dalla Svezia e dalla Danimarca. Non avevano una lingua in comune né la possibilità di farsi capire dagli spettatori. Per sopravvivere fummo costretti a creare spettacoli sfruttando altri mezzi di comunicazione che non fossero le parole comprensibili di un testo.

    Da questa situazione di terremoto, di amputazione della lingua e quindi della comprensione di quello che racconta lo spettacolo, nasce l’identità professionale dell’Odin. I suoi attori hanno imparato a distillare e intensificare nel loro training e nelle prove gli altri linguaggi della comunicazione: la sonorità della voce, la melodia, la prosodia, le cadenze del parlare, quasi un’incantazione di magia; dall’altro lato, le tensioni delle posture fisiche, i dinamismi, una consapevole composizione drammaturgica. È una continua ricerca per individuare quali segni fisici e sonori possono evocare associazioni, idee e sensazioni nello spettatore. Non potevamo interpretare un testo raccontandolo in maniera chiara. Diventarono importanti la suggestività e la musicalità dei gesti, i silenzi, i ritmi e le tensioni degli attori. Dovevano destare una risonanza nel mondo interiore dello spettatore, nella sua memoria sensoriale e biografica.

    Il primo terremoto dell’emigrazione dell’Odin Teatret dalla Norvegia alla Danimarca ebbe conseguenze professionali e tecniche durature per noi.

    Il secondo terremoto avvenne quattro anni più tardi, nel 1970. Questa volta fui io a metterlo in moto.

    Avevamo preparato due altri spettacoli mostrandoli in Danimarca e negli altri paesi scandinavi. Il terzo spettacolo, Ferai, fu invitato al Théâtre des Nations a Parigi e ottenne un successo che ci sorprese. Tutti gli altri Festival europei ci invitarono e per un anno e mezzo girammo per l’Europa.

    Invece di rallegrarmi, ero angustiato. I miei attori erano giovanissimi, avevano appena pochi anni di esperienza, erano all’inizio.

    Avevo come ideale l’attore tradizionale asiatico che s’impegna tutta una vita per arrivare all’essenza, alla quasi immobilità che è implosione vulcanica di energia. Come avrebbero reagito i miei attori a questo successo? Si sarebbero montati la testa? Perché il successo cambia le persone. Avevo un esempio schiacciante davanti a me. Era quello che mi aveva guidato a trovare la mia strada teatrale. Parlo di Jerzy Grotowski.

    Quando Grotowski arrivò al successo, il suo teatro, che era diventato un punto di riferimento mondiale, si sfasciò e lui nel 1970 decise di non fare più spettacoli con i suoi attori. Riunì dei giovani e iniziò un cammino che lo allontanò sempre più dal teatro e dallo spettacolo.

    Avevo vissuto da vicino l’esperienza di Grotowski. Ero disperato all’idea che anche i miei attori si lasciassero influenzare dal successo e perdessero quell’atteggiamento che me li faceva apprezzare e anche amare: spirito di sacrificio, umiltà, forza d’animo per accettare una disciplina che portava a un’autonomia creativa, a una libertà interiore di ognuno di noi e dell’intero gruppo.

    Decisi, così, di sciogliere l’Odin Teatret. Mandai via gli attori, ma dissi loro: Penso di continuare, ma con tutt’altre condizioni di lavoro. Erano più rigorose, più esigenti, più intransigenti. Solamente tre attori accettarono. Cinque lasciarono.

    Ripresi a reclutare nuovi attori e questa nuova nascita aiutò l’Odin, perché sia i veterani che i nuovi arrivati diventarono tutti principianti. Anch’io mi ero degradato e mi ritrovavo a un livello di ignoranza, cercando di reinventare un altro modo di preparare gli attori, scoprire altre possibilità nel training e nella composizione di uno spettacolo.

    Il terzo terremoto lo provocai nel 1974. Ancora una volta, l’Odin aveva avuto successo con La casa del padre, che in diciotto mesi fu rappresentato 322 volte in Europa. Ero consapevole della necessità, dopo tre-quattro anni, di dare una scossa a noi tutti del gruppo e demolire relazioni, abitudini, pratiche e certezze. E ricreare dalle macerie un nuovo mosaico, animato da un flusso di relazioni e scoperte inaspettate. Era un modo per rivitalizzare il matrimonio con la maschera, non solo per ognuno di noi, ma tra noi e il nostro ambiente di lavoro. Un modo di riflettere concretamente e individualmente su come intendere e realizzare quotidianamente la continuità e la ripetizione che apre la porta all’imprevedibile.

    Sentivo che se non davo una scossa, l’Odin rischiava l’entropia, il soffocamento, l’assuefazione auto-compiaciuta. Tutti gli esseri umani hanno questa tendenza. Appartiene alla loro natura, al loro sistema nervoso, al loro organismo, al loro cervello.

    Quindi lasciai la sala nera del nostro teatro a Holstebro, e scelsi di preparare il nuovo spettacolo in un villaggio dell’Italia del Sud, non lontano dal posto dove ho trascorso la mia infanzia e adolescenza. Immaginavo che le condizioni differenti di vita, i colori, il cibo e soprattutto il fatto che non potevamo più sentirci protetti dalla sala di lavoro che era la nostra fortezza, avrebbe provocato dei cambiamenti.

    Nel 1974 l’intero Odin Teatret si spostò da Holstebro a Carpignano, un villaggio nel Sud Italia, in Puglia. Era mia intenzione rimanere cinque mesi e terminare uno spettacolo sulla ricerca dell’Eldorado da parte dei Conquistadores. Era difficile abitare in un palazzo affittato in mezzo al paese. Il nostro training si svolgeva nel cortile, le prove in uno stanzone la cui acustica era impossibile. Gli abitanti del villaggio venivano con una sedia e a volte rimanevano ore intere lì seduti a guardarci. La mattina all’alba andavamo nei campi per il training vocale. I contadini che andavano a lavorare ci domandavano: ma voi chi siete, che fate? Ah siete attori… allora date uno spettacolo. Ma noi non avevamo uno spettacolo. La realtà mi obbligava a riflettere: che cos’è un attore senza spettacolo? Ha un’identità? Ha una consistenza? Può dire sono un attore e dimostrarlo? In che modo?

    Decisi di interrompere le prove e tentare di dare una risposta a questa domanda: l’attore ha un’identità professionale anche senza spettacolo? Decisi di usare quello che consideravo la cultura di un gruppo di teatro: il nostro training. Presi gli esercizi, li montai in una successione di scene che intitolai Il libro delle danze, usando le voci e i canti del training. Divenne il nostro biglietto da visita, la prova che anche noi, come gruppo di teatro, avevamo un’identità, una cultura. Era incorporata e sapevamo strutturarla, darle un’espressione teatrale e sedurre gli spettatori.

    A Carpignano, in questo villaggio di 2000 abitanti, la gente era povera. A quel tempo la metà degli uomini erano emigrati. Io non volevo del denaro dai miei spettatori, ma non volevo neanche lavorare gratis. Così nacque l’idea del baratto, di uno scambio equo: possiamo scambiare cultura. Noi dell’Odin ci presentammo attraverso la nostra cultura di gruppo teatrale, gli abitanti di Carpignano rispondevano con canti, danze, storie della loro storia.

    Il terremoto che all’inizio consisteva nel trasferire il gruppo in un altro contesto, esponendolo a condizioni che potevano stimolarne il training e le prove, acquistò un’altra dimensione. Costrinse me e i miei attori a ripensare chi eravamo, qual era il nostro rapporto con la maschera, con il nostro mestiere e ambiente di lavoro, e con le persone che si interessavano a noi — gli spettatori. Lì, nel 1974, l’Odin Teatret iniziò qualcosa di inimmaginabile per noi, che mai avrei pensato: teatro di strada, parate, spettacoli di clown.

    È stato uno dei momenti più rivoluzionari del nostro gruppo, nel senso di distruzione e rifondazione. I miei attori erano tecnicamente preparati a rappresentare uno spettacolo provato per mesi e destinato a un numero limitato di spettatori in uno spazio chiuso. Ora erano anche capaci di improvvisare nelle piazze, nelle strade, negli spazi pubblici di un villaggio, o in una città dove le

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1