Di nuvole e d'acqua salmastra
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Anteprima del libro
Di nuvole e d'acqua salmastra - Federico Maderno
1. Evaristo, ancora.
Rovigo, 16 maggio 2013
Evaristo carissimo,
Quante volte ho preso in mano uno di questi fogli da lettera e ho vergato con la penna qualche parola inadeguata (di sicuro, ricordi che non ho alcuna dimestichezza e simpatia per i moderni mezzi di scrittura)! Se Tu lo sapessi, se Tu avessi contezza di quanti tentativi ho fatto, certo non oseresti accartocciare quest’ultima versione che spero dunque avrai la pazienza e la cortesia di leggere fino in fondo. E se alla fine lo farai, intendo dire se solo dopo ti deciderai a farla in mille pezzi, a ridurla ad una pallina pressata o ad infilarla tra altre cartacce da gettare, mi auguro non ti rimarrà la voglia di rivolgere, a chi ti scrive, un pensiero di rancore istintivo. Non giudicarmi male, Evaristo. Può sembrare che io venga a disturbarti non richiesto e dunque inopportuno. E puoi avere il dubbio che facendo leva sui sentimenti io cerchi di toglierti la voglia di sbattermi la porta in faccia.
Non è così, ti assicuro.
Non ci vediamo, forse, da venti anni e francamente non sentivo più tue notizie da una decina.
Ma qualche giorno fa, qualcosa è cambiato, e i vecchi ricordi, insieme al nostro affetto reciproco, sono tornati inaspettatamente a trovarmi. Malinconici e al tempo stesso graditi.
In maniera bizzarra, quasi rocambolesca.
Ti ricordi di Piras? Piras... Mi accorgo adesso che nemmeno so dire quale sia il suo nome. Mi verrà in mente, ma ora ha poca importanza. Parlo del tipo filiforme che frequentava la palestra di Via Adua e non potendo ambire, a causa del suo fisico gracile, ad un qualche successo nella boxe, aveva finito per rimanere nel giro in veste di commentatore sportivo. Io immagino, ed anzi sono certo, che Tu non lo abbia scordato. Girava sempre, anche in piena estate, con un impermeabile caffellatte (da reporter
diceva lui; da squattrinato
, malignavamo noi), e piazzandosi sulle tribunette della palestra, un po' defilato, si dava arie da intenditore o da scopritore di talenti; ostentava, sopra un orecchio, un moncone di matita e tra le mani rigirava un taccuino sul quale non credo abbia mai scritto una sola riga. In quegli anni, firmava pochi articoli per un paio di giornali locali e dopo qualche tempo, più o meno intorno all'82, ne ho perso le tracce.
Ebbene, forse era destino, l'ho incontrato recentissimamente, saranno tre settimane. Non ci crederai: il buon Piras ha fatto una più che discreta carriera. Lavora per una rivista specializzata e ha collaborazioni un po' in tutto il mondo, soprattutto in quei paesi d'oltre Oceano nei quali la boxe ha sempre goduto di maggior credito che qui da noi. Lo riconosceresti subito anche Tu, non dubitare. Verrebbe da dire, segni del tempo permettendo, che è rimasto lo stesso di quegli anni. Esibisce ancora il suo bel naso arcuato che lo fa assomigliare ad un avvoltoio e ha sempre i capelli dritti come setole di cinghiale, solo un po' più radi. Se è possibile, mi è sembrato persino più magro. Ma ha dismesso il suo impermeabile sdrucito e sfoggia abiti di marca, belli, addirittura appariscenti, che meglio si accompagnano all'auto sportiva con la quale l'ho visto arrivare, inaspettatamente, nel parcheggio della Fiera di Verona.
Ebbene, Tu mi dirai: cosa c'entra adesso il Piras?
.
Ti conosco bene, io credo. So, Evaristo, che sei una persona pratica, che i giri di parole ti stancano, quando addirittura non ti molestano. Dunque, anche io non la prendo alla larga.
Piras, come ti ho detto, lavora ancora nel mondo della carta stampata, anzi è assai bene inserito. Tu sai come sono quegli ambienti, immagino.
Sono una specie di stagno melmoso dove tutti conoscono tutto di tutti, o sanno almeno dove andare a cercare chi possa dar loro informazioni. Frequento un paio di giornalisti, qui dove abito. Simpatici trafficoni, passami il termine; gente con poca morale ed ancor meno scrupoli; terribilmente cinici, ma non si può negare che sappiano il fatto loro.
Alzano il telefono e dopo un'ora, non chiedermi come, hanno notizie che a noi nessuno darebbe, nemmeno sotto tortura. Ecco che mi sto nuovamente dilungando, come non volevo…
Piras, e ti prego solo di non avertene a male e non giudicarlo per uno che s’intriga dei fatti altrui, è venuto a conoscenza della tua storia. Di quella recente, intendo. Credo che ne abbia parlato casualmente, questo è almeno quello che ho capito, con un suo collega di cronaca giudiziaria. Il tuo cognome, che non è così diffuso, soprattutto se unito al nome, deve avergli fatto tornare alla mente i bei tempi della palestra di Via Adua.
Te la faccio breve: ha saputo della vicenda della bambina che hai salvato. Non chiedermi come. Te l'ho detto, sono ambienti che hanno mille occhi e mille orecchie. Probabilmente, è venuto fuori qualcosa dalle stanze della Questura, o da quelle del Tribunale, che è lo stesso. Così, ha appreso e mi ha raccontato di come Tu sia riuscito a togliere la piccolina dalle mani di un vero mostro e di come il tuo nome, evidentemente per tua stessa volontà, sia rimasto miracolosamente fuori dalla cronaca giornalistica di quei giorni recenti. Un patto non scritto tra te e gli inquirenti, mi sembra di aver capito.
Ma il buon Piras ha saputo anche altro, come puoi immaginare. E me l'ha detto.
Vorrei trovare le parole giuste, Evaristo.
Vorrei evitare tutte quelle sciocchezze che mi hanno fatto stracciare le pagine dei precedenti tentativi. E dunque ti dico senza mezzi termini che Piras ha saputo, inevitabilmente, dei tuoi problemi di salute. E del tuo stato, consentimi di esprimermi così, di volontaria solitudine.
Avrebbe dovuto non dirmelo? O avrei dovuto io fare finta di niente e nemmeno concepire l'idea di contattarti?
Non lo abbiamo fatto. Né lui, e lo ringrazio per questo, né io, e Dio solo sa quante ore di titubanze e ripensamenti mi è costato arrivare a questa risoluzione.
Ecco, adesso che almeno l'ho scritto mi sento meno disperato, perché mi sembra che quelle nostre belle ore attorno al ring di Via Adua non siano passate invano.
Ora, se come spero non ti sei ancora deciso a ridurre in pezzi la mia lettera, ti chiedo di concedermi ancora un minuto, e con un minimo di serenità, considerare questo mio appello, ossia il vero motivo di questo contattarti che potrebbe apparire, altrimenti, senza senso pratico, senza costrutto.
Come credo saprai, da dieci anni sono vedovo, e da otto, mi sono trasferito in Veneto. Un po' per cambiare aria, come si suole dire, un po' perché iniziavo a sentire troppo penoso il distacco dalla mia unica figlia che lì si è sposata e ha famiglia.
Si vive bene, da queste parti. Il clima, forse, non è tra i più gradevoli, ma la gente è schietta, volonterosa e piena di energie. Ti piacerebbe.
Vedi, sto ancora tergiversando…
Dunque, qui vicino a Rovigo, mio genero lavora in una clinica privata, dove mi si dice l'oncologia è ai massimi livelli. Anzi, egli stesso opera in quel reparto con un'ottima posizione professionale.
Ecco, ho detto anche questa. Non conosco ovviamente quale sia lo stato delle cose e quali i passi da Te già intrapresi. Né quale sia la complessità della situazione, per la quale non ho personalmente la minima competenza.
Non ti dico di chiamarmi subito. Sperare in questo, sarebbe da parte mia una sciocca ingenuità. Ti chiedo solo di pensarci con un minimo di obiettività, vincendo i pur comprensibili preconcetti. Piras mi ha raccontato di un tuo isolamento quasi monacale. Non so, come ti ho detto, da chi l'abbia saputo, ma conoscendo anche il tuo carattere non mi stupirei che Tu avessi davvero reagito in tal modo. Comprendo benissimo, ma non potevo esimermi dal tentare, e credo davvero che la mia non sia un’idea fuori luogo.
Organizzo tutto io. Ti trovo la sistemazione che più ti aggrada. Qui, in quella bella struttura di cura e presso di noi, non troveresti solo ottimi medici, ma ancora di più la comprensione discreta di un'amicizia sincera.
Non mi aspetto niente. Posso mettere in conto tutto e tutto accettare, compresa l'idea dolorosa che Tu nemmeno stia leggendo queste ultime righe e non ti faccia mai sentire.
Mi auguro, solamente, che prevalga un'intuizione buona, magari un poco folle, ma genuina. Sarà dura, per me, saperti lì isolato, a combattere non solo contro un male reale, ma anche contro le ingiurie dei pensieri cattivi.
Allego, qui sotto, ogni riferimento utile a rintracciarmi.
E come contropartita alla mia offerta, unicamente mi riservo la speranza.
Il tuo sincero amico Luciano Sinopoli
2. La partenza.
La lettera è rimasta sul mobile, vicino alla piccola sveglia. Sopra la busta, i tre fogli che la compongono, tanto sovrapposti da sembrare un'unica pagina, hanno ancora le due pieghe che li tenevano chiusi. Dunque, due alette di uguale lunghezza si levano in alto, anzi s'avvicinano nuovamente, quasi a voler richiudersi, e la scrittura dell'amico s'intravede appena, come intrappolata in un fragile scrigno.
Quando Delai le passa vicino, affibbiandole uno sguardo sbieco, un refolo d'aria fa muovere le alette leggere e i fogli vibrano, come materia viva.
C'è un'opzione, sopra quella carta. O un'alternativa. Una soluzione che Delai non aveva messo in conto: affidarsi all'imprevisto che arriva dal passato, ormai quasi da un altro mondo.
Non è, anche quello, un modo per sparigliare?
Quante volte ha pensato a quello che lo aspetta ed è imminente? Infinite.
Eppure, si rende conto che mai ha veramente provato a immaginare gli ultimissimi giorni.
Perché la fantasia, che tende a conservare la dignità, vorrebbe che tu li passassi rannicchiato sulla poltroncina sdrucita, come un animale nel bosco; ma la logica, se ancora ce n'è una, dice che la Vita non te lo lascerà fare. Dice che saranno giorni d'ospedale, comunque, e ore non più tue. Speriamo che i gatti, almeno loro, vadano a morire lontano, in un pietoso cespuglio che li ripari da sguardi indiscreti, e non sia una leggenda.
Ha perfino pensato, ridendo amaramente nell'intimo del suo dolore, che fuggire potrebbe essere l'ultima beffa alla Morte.
Un giorno, mentre passava dalla veglia al solito appisolarsi leggero, la scena gli si è perfino proposta in una visione suadente. Non era un vero sogno, lui non era abbastanza addormentato, e allora riusciva a condurre il gioco, a fare il regista della fantasia. E dunque era arrivata la Morte, al suo uscio; s'era annunciata con un bussare perentorio, ergendosi altera davanti alla porta (aveva perfino il classico mantello nero e la faccia da teschio; mentre la falce, può essere che l'avesse dimenticata nell'Ade).
I colpi, sull'anta di legno, erano risuonati vividi una volta, due, tre... Alla decima di quelle esibizioni da grancassa, dal piano di sotto si era affacciata al ballatoio la Signora Camerana. Aveva lo sguardo stralunato (probabilmente era a dormire) e gli occhi, per quel guardare in alto, con il collo tutto storto, sembravano affetti da strabismo:
– Chi cerca, scusi...? (perché la Signora Camerana aveva improvvisamente un accento veneto?)
La Morte s'era affacciata anche lei al ballatoio, e aveva guardato in basso, più stupita della stessa Signora Camerana. E infatti, la voce le era uscita meno autorevole e stentorea di come ci si attenderebbe dalla trista mietitrice:
– Eh... Ehm... Cerco... Il Signor Evaristo Delai non è in casa?
– Delai? Ma Delai è andato a Rovigo! Non gliel'ha detto? Se n'è andato alla chetichella, il signorino. Comunque, mi lasci dire, è questo il modo di disturbare la gente onesta che riposa?
La morte si era scusata, aveva bofonchiato qualcosa, ma Evaristo non era riuscito a sentirla, perché si era ridestato e s'era accorto che quasi stava ridendo, con un’ilarità ebete disegnata sul volto.
Però, prevale ancora quel senso di vuoto, la voglia che tutto finisca senza sussulti; e il timore di giocare al rilancio, di far rinascere l'assurda speranza, lo lascia sbigottito e irritato.
Così, quella lettera rimane lì, sul mobile basso, a fremere un poco tutte le volte che lui, passandole accanto, le manda contro un refolo d'aria.
Ogni tanto, fa una visita a Valentina. O è lei che gli telefona. Non passa quasi giorno, in un modo o nell'altro, che non si sentano.
Evaristo va a trovarla soltanto quando Elisabetta è a scuola.
S'è affezionato alla giovane divorziata del terzo piano
, dice qualche inquilino della scala 7, ammiccando e dandosi le arie di saperla lunga, sulla relazione. E allora, è meglio che la ragazzina non ci sia, così sono più comodi
.
Perché di imbecilli c'è sempre grande scialo, e anche se della situazione sono tutti perfettamente informati, dopo quanto è successo nel quartiere, val sempre la pena