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Nucleo centrale
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E-book237 pagine2 ore

Nucleo centrale

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Info su questo ebook

Un delitto eccellente scuote il cuore antico di Napoli. Salvatore Imperio, capo clan feroce e determinato, è stato assassinato con i sei colpi di una trentotto special. Titolare delle indagini il commissario Lombino. Arcangelo. Il delitto è chiaro nell'origine e nelle conseguenze. È certezza. Di molti. Solo che tra Feynman, genio della fisica, e Carmelina, tata, o presunta tale, affidabile e mariola, i molti caffè e le poche verità, un vice, ambizioso e insicuro, e un informatore infido e autorevole, un Negroni e la pallanuoto, il commissario Lombino di dubbi ne ha fin troppi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 dic 2018
ISBN9788827863398
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    Anteprima del libro

    Nucleo centrale - Vito Ferrone

    scontato.

    Capitolo uno

    Perché il nucleo non esplode? Posto al centro di un atomo il nucleo è sede di cariche positive, i protoni. Si sa che le cariche di uguale segno si respingono. Più le avvicini, più la loro repulsione diventa violenta. Per distanze piccole, esplosiva. Sono le cariche di segno opposto che volentieri stanno insieme. Vicine tra loro.

    È talmente noto questo comportamento delle cariche elettriche che spesso lo si sente applicare, con convinzione e certezza a me sconosciute, anche agli esseri umani. Per quanto mi riguarda, temo, convinto, che per gli esseri umani sia tutto più complicato. Resta, comunque, il fatto, incontestabile, che i protoni sono cariche elettriche. Di eguale segno. Eppure il nucleo, imperterrito, resiste integro al centro dell’atomo. Perché?

    Il commissariato, il mio, conficcato nel cuore antico di Napoli è stranamente quieto. Silenzioso. Dopo l’attività frenetica e il trambusto degli ultimi giorni, è come se stesse prendendosi una pausa. Sono stati giorni duri in effetti. Per tutti.

    Si è trattato, nemmeno a dirlo, di un ennesimo omicidio di questa faida continua che avvelena città e provincia. Un omicidio eccellente, però. Parola del signor questore.

    Salvatore Imperio, detto Scarface, per la sua smisurata ammirazione per Al Pacino. Meglio, per uno dei personaggi più noti ed incisivi di quelli interpretati dal grande attore americano. Tore Scarface, capo clan feroce e determinato, freddato con sei colpi di calibro trentotto sulle scale di una delle tante chiese di questa città. Santa Maria ad Agnone.

    Hanno ammazzato Tore nella sua zona. Dove dettava legge su tutto e su tutti.

    E questo, cosa significa?

    Che all’interno del suo clan c’è un gruppo emergente che l’ha tradito ed è talmente forte che l’ha eliminato. O, semplicemente, che uno dei suoi tanti nemici è riuscito a sorprenderlo.

    Come ha fatto il killer ad essere al posto giusto al momento giusto? Una talpa. Non ci sono santi. Vicina, molto vicina.

    Uno del suo clan ha dato l’imbeccata giusta. Per vendetta. Per soldi. Per prendere il suo posto. O per tutto questo. Messo assieme.

    Chissà cosa deciderà il prefetto per i funerali. Immagino in forma strettamente privata. Eppure secondo me sarebbe un’occasione, certo non decisiva ma importante, per osservare quanta più gente possibile. Considerare con attenzione i loro atteggiamenti, i loro comportamenti. Per capire. O tentare ancora una volta di capire chi abbiamo di fronte. Per continuare a combattere. Magari con una possibilità in più di vincere. Già ma l’ordine pubblico?

    Funerali strettamente privati, allora. E così sia.

    L’agente Giulio Giuliani è ufficialmente il responsabile del caffè. Lo chiamo. Più forte. La seconda volta. Un’eco di voci. Finalmente una risposta.

    Giulio Giuliani arriva defilato e, con fare prudente, mi comunica che non c’è acqua. Senz’acqua niente caffè, ovvio.

    Perché non c’è acqua?

    Perché la chiave d’arresto si rifiuta di aprirsi.

    Si rifiuta? Vuoi vedere che abbiamo una chiave d’arresto in agitazione sindacale?

    Stiamo provvedendo.

    Oppure una chiave d’arresto decisionista?

    Stiamo?

    Stiamo.

    Ecco dov’erano finiti. Al capezzale di una chiave di arresto che rifiuta di aprirsi.

    Chi l’ha chiusa?

    C’era un problema con lo scarico.

    L’hai stretta bella forte.

    Non sono stato io.

    Si è rotta la filettatura?

    Un poco già era ossidata.

    Quanto ci vorrà?

    Non saprei dirvelo, sempre che non dobbiamo chiamare un idraulico.

    Ho capito. Bisogna prendere il coraggio a due mani. Uscire dal commissariato e affrontare il diluvio.

    Il bar è piccolo, il caffè di qualità e Ciro, il proprietario, un amico. Mi accoglie come sempre con un sorriso aperto e gli occhi, ancora una volta, esprimono un’affezione sincera. Di solito alla cassa c’è la moglie, la signora Annamaria, che, così, oltre a controllare conti e incassi, a volere dare retta alle voci più pettegole e tendenziose, può anche tenere sotto controllo il marito, il quale, sempre a detta di quelle voci pettegole e tendenziose, pare abbia un buon successo con il gentil sesso.

    Oggi pomeriggio la signora Annamaria non c’è, e mi dispiace. La sua esuberanza e la sua simpatia tipicamente napoletana avrebbero certamente dato brio e vitalità ad una giornata quequera e ravvivato l’umore di noi tutti. Quando glielo dico, Ciro allarga le braccia, come a dire: Stamm’ sott’ ‘o cielo.

    Gli occhi furbi sembrano suggerire decisamente una conferma, però. L’assenza della moglie gli dà, effettivamente, la possibilità di organizzare trame intriganti e congressi carnali soddisfacenti. Lascio perdere. Non sono fatti miei. Anche se il copione consolidato prevedrebbe domande agognate, confidenze compiaciute, partecipazione, empatia, condivisione, solidarietà e, naturalmente, il tacere più assoluto.

    Sasà è il mio barista di riferimento. Anche Francesco, l’altro barista, è bravo ma Sasà oramai mi ha adottato. Sasà è dei Quartieri, come Francesco. È fidanzato, Sasà, da sempre, con Concettina, che nelle ore più disparate e, spesso, nei momenti meno opportuni, quando c’è gente ed è veramente tanta e bisogna fare svelti e bene, passa a salutare a Sasà, l’amore suo. Sasà non gradisce molto tutte queste attenzioni. Non perché non vuole bene a Concettina, ma, a parte che il più delle volte tiene veramente da fare, perché si sente in imbarazzo. E, anche perché, sia i suoi compagni di lavoro, e amici, sia gli avventori abituali che lo conoscono e gli sono affezionati e, quindi, se lo possono permettere, non resistono alla tentazione di prenderlo in giro, seppure bonariamente. Per Sasà è un vero e proprio tormento. A Concettina tutto questo non interessa. Lei vuole vedere a Sasà, l’amore suo. Quindi passa a salutare. E, a volte, sono storie.

    I gesti del mio barista di riferimento sono rapidi e sicuri e, attento come sempre, mi libera dalla fastidiosa incombenza della bustina di zucchero da aprire per versare, lo zucchero, oltre che nella tazzina, spesso e volentieri sul bancone, sul piattino o su entrambi, per finalmente lasciarne una parte, nella bustina aperta. Parte che ancora non ho capito che fine fa o dovrebbe fare.

    Lo zucchero per forza dalla bustina è un’altra insopportabile cazzata. Europea. Da buon napoletano Sasà è corso, e prontamente, ai ripari. Almeno con me.

    Continua a piovere che il padre eterno si è scordato dell’acqua. Mi bagnerò ancora, ma devo ritornare al commissariato.

    Ti avevo detto macchiato.

    Veramente avete detto schiumato.

    Macchiato.

    Vi dico che non è così.

    Come sarebbe a dire che non è così.

    Va bene, non fa niente.

    Mi stai arrunzann’?

    Questo è un altro manicomio napoletano. Siccome tenevamo pochi problemi, un altro poco di stress ci voleva. Caffè. Caffè macchiato. A latte caldo. A latte freddo. In vetro. In tazza fredda. Brasiliano. Schiumato. Con poco cacao. Con molto cacao. Alla nocciola. Del nonno. Shakerato. Shakerato alla nocciola. Fondente nero. E non finisce qui. L’ho detto, un manicomio. Ci sono delle volte nelle quali i ragazzi dietro al bancone hanno tutta la mia solidarietà. Questa è una di quelle. Guardo Sasà e gli faccio cenno di lasciar perdere. Il giovane, trent’anni al massimo, continua a urlare. Lui è un cliente e merita rispetto e, chiaramente riferito a me, gli altri si devono fare i cazzi loro. Ciro si alza da dietro alla cassa e con le buone maniere invita il cliente che merita rispetto ad essere più rispettoso ed educato e, gentilmente, ad abbassare la voce. Se il barista, aggiunge, ha sbagliato non c’è problema, provvederà, e lui, il cliente da rispettare, avrà il suo caffè macchiato, proprio com’era nei suoi desideri.

    Come spesso succede, quello, il cliente che merita rispetto, invece di calmarsi e di bersi in santa pace il caffè macchiato, s’inalbera ancora di più. Appartiene evidentemente a quel genere di persone, ve ne sono purtroppo tante in questa città, e non solo, che sentendosi dare ragione, molte volte più per quieto vivere che per la realtà delle cose, diventano più aggressivi. Con la conseguenza che Sasà si sta innervosendo di brutto e Ciro non mi sembra particolarmente tranquillo. È il proprietario di un locale pubblico, è vero, e deve abbozzare per forza, però… Francesco fa finta di niente, ma non mi fiderei molto. Lui e Sasà sono amici.

    Il cliente che merita rispetto è sempre più su di giri, perché oramai pretende scuse formali da Sasà e già che c’è anche da Ciro, in quanto proprietario e, in ultima analisi, responsabile del comportamento e dell’errore del suo barista. Scuse che chiaramente fanno fatica ad arrivare. Un conto è dire finiamola qui, altro, tutt’altro, è chiedere scusa ammettendo, pertanto, un errore che a giudizio di Sasà e, mi pare di capire, anche di Ciro, non c’è stato.

    Il cliente che merita rispetto, sempre più smanioso di prendersela con il mondo intero, bell’e buono, fa la grande pensata di rivolgersi a me con un: … e tu stronzo che cazzo guardi?

    Sono sicuro di non avergli rotto il setto nasale. Se uno inciampa, diciamo, questo rischio può esserci, ma sono sicuro che il cliente che merita rispetto ha il setto nasale integro, seppure notevolmente ammaccato.

    Francesco con particolare soddisfazione è pronto con un bicchiere di acqua, rimedio partenopeo universale, o quasi. Sasà e gli altri clienti stentano a nascondere felicità e giubilo. Ciro, reprimendo con difficoltà evidente, un sorriso compiaciuto che, prepotente, non vuole lasciare il suo viso, con scarso entusiasmo e impegno limitato e senza nessun affanno, presta soccorso al cliente che merita rispetto. Finalmente silenzioso.

    Dico a Ciro di chiamare il 118 o, se vuole, di accompagnarlo ai Pellegrini che tanto lontano non è. Al cliente che merita rispetto, più muto di un frate trappista in silenzio stampa, lascio il mio biglietto da visita, raccomandandogli di passare in commissariato, appena rimessosi. Lo sguardo che mi rivolge è di quelli che non lasciano dubbi. Non verrà.

    I Decumani sono un luogo magico. Che la pioggia rende più affascinante e intrigante. È il luogo dove tutto si sublima e si dipana. È il luogo della Napoli greca e di quella romana. Delle chiese imponenti e di quelle povere e maestose. Dei bassi e dei palazzi signorili. Con i loro portoni smisurati. Di piazze luminose e di vicoli stretti e bui. Del mistero e della ragione. Sono il luogo dove un popolo, quello napoletano - che per gli ipercritici e i delusi, con qualche o senza nessuna ragione, invece, è solo un insieme di sudditi, tant’è, dicono, che a Napoli di rivoluzioni popolari nemmeno a parlarne, al più qualche rivolta - ritrova se stesso. E si manifesta. Nella molteplicità poliedrica di cromosomi instabili e affascinanti e decisi e certi. Sono il mio non luogo. Perché una storia che appare come sospesa, continuamente si rinnova. E ti rigenera.

    Giulio Giuliani è al suo posto. Stanco e nervoso. Come sempre. Ha moglie, due figlie femmine e suocera a carico. La di lui madre, la signora Carmela Scognamiglio in Giuliani, oltretutto, non ha mai visto di buon occhio quel matrimonio. Secondo l’immutabile convincimento della signora Carmela, non era per lui. L’agente Giulio Giuliani, pertanto, è ufficialmente, da anni, conteso da due donne, la moglie e la madre. Senza esclusione di colpi entrambe cercano di farlo definitivamente proprio. Lui resiste. D’altronde non ha scelta. Oggettivamente, non può scegliere.

    Dottò, la chiave d’arresto si è sbloccata.

    Si è sbloccata? Chiave d’arresto decisionista, è sicuro.

    Da sola?

    Lo sguardo è perplesso.

    Veramente no.

    Peccato! L’idea di una chiave d’arresto decisionista m’intrigava.

    È arrivato il referto dell’autopsia di Salvatore Imperio.

    Acqua corrente e referto. Ed io che non mi sono fidato. Avrei avuto il caffè senza bagnarmi, volendo dimenticare il cliente che merita rispetto, e nel frattempo avrei letto il referto.

    Va bene. Grazie.

    Dovere.

    Il referto afferma con sicurezza che il morto è stato ammazzato. Sei colpi di calibro trentotto special a distanza ravvicinata.

    Nessuno alla testa.

    Erano talmente sicuri di aver fatto un buon lavoro che non c’è stato il canonico colpo alla testa. Erano? Beh, era. Quello che ha sparato.

    Ora del decesso: le dieci del mattino. Minuto più minuto meno. In pieno giorno, in un quartiere popolare, nel periodo precedente il Natale. Testimoni nessuno. Una telefonata anonima ha chiamato alle 10.22. Via di corsa tutti quelli disponibili, la volante più vicina prima degli altri. In forze, perché non c’è scena del crimine che tenga. I parenti, gli amici, i conoscenti arrivano velocemente e in tanti. E sono cazzi. Amari. Rabbia e dolore. Silenzi e grida disperate. Il desiderio di vendetta che si fa presenza implacabile.

    Capitolo due

    Permesso?

    Giuliani, entra pure.

    Signor commissario, posso?

    Cosa altro è successo?

    C’è una signora.

    Chi è?

    La madre.

    Chi?

    La madre della vittima. Di Scarface.

    Non è possibile!

    La madre di Salvatore Imperio?

    Sì.

    La signora Assunta Imperio?

    Sì.

    Tu ne sei proprio sicuro?

    Sì commissario, è lei.

    È qui?

    Sì.

    È sola?

    Sì.

    Che cosa vuole, te l’ha detto?

    Parlare con voi.

    Con me?

    Ha chiesto espressamente di voi. Le ho detto che eravate occupato. Mi ha risposto che non importava, può aspettare.

    La madre di Salvatore Imperio, detto Tore Scarface, morto ammazzato, vuole parlare con me. Assunta Imperio, donna di camorra, viene spontaneamente da sola in commissariato e vuole parlare. Con me. Espressamente.

    Assunta Imperio. Donna di camorra.

    Eppure doveva andare diversamente.

    Secondo il padre.

    Il padre di Assunta, Ferdinando Imperio, era un bravo artigiano, un falegname di valore. Pregiudicato. Era stato dentro per un furto in una casa alla riviera di Chiaja dove stava lavorando. Fu ritenuto, in nome del chi te sape t’arape, il basista e mandato sotto processo.

    E condannato.

    C’è da dire che Ferdinando con ostinazione, da subito, per l’intera durata del processo, e anche dopo, durante la detenzione a Poggioreale, si proclamerà sempre e comunque innocente. E, anche, che - a voler essere del tutto onesti - l’avvocato che gli avevano consigliato non si dannò l’anima per difenderlo.

    La corte ritenne che gli indizi di colpevolezza - uno dei ladri o, più probabilmente, il ricettatore, arrestato perché trovato in possesso dell’intera refurtiva, era il compariello di cresima di Ferdinando e, particolare ritenuto decisivo, la porta dell’abitazione non presentava nessuna effrazione - più che sufficienti, e condannò il padre di Assunta a tre anni di carcere. Non vi fu appello. La procura era soddisfatta e il condannato non aveva né voglia di spendere altri soldi né, probabilmente, fiducia nella giustizia. I tre anni furono ridotti a due anni e sei mesi per la buona condotta del detenuto.

    All’uscita dal carcere di Poggioreale, Ferdinando Imperio si ritrova senza lavoro né moglie. I cosiddetti salotti buoni che per anni avevano apprezzato la sua abilità di artigiano, gli avevano chiuso definitivamente la porta in faccia. Se uno sbaglia una volta, ammesso e non concesso, perché sempre d’indizi stiamo parlando, sbaglierà di sicuro anche la seconda. Se si è tanto fessi da dargliela, una seconda possibilità. Per la verità,

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