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Una moglie francese
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E-book623 pagine8 ore

Una moglie francese

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Info su questo ebook

Il passato non si può cancellare

Una storia di passione e perdono nella Parigi della seconda guerra mondiale

Cos’è successo tanti anni fa a Parigi? Cos’ha sconvolto la vita della giovane Kat? È passato tanto tempo da allora, ma Kat non ha mai smesso di cercare una risposta… Nella casa di riposo in cui vive, in Louisiana, Amélie O’Connor ha l’abitudine di lasciare la porta della propria stanza aperta, in attesa di amici. Ma la visita che un giorno riceve è assolutamente inaspettata: la donna che si presenta è infatti Kat Thompson, l’ex fidanzata del suo defunto marito, Jack. Kat e Jack progettavano di sposarsi dopo il ritorno di lui dalla Francia, alla fine della seconda guerra mondiale. Ma i loro piani furono stravolti a causa di una giovane donna francese che, a detta di Kat, “strappò” al bell’ufficiale americano un sì proprio a Parigi. Quella donna era Amélie... Sarà un ritorno al passato, quello che le due donne dovranno affrontare, un ritorno alla giovinezza, ai rispettivi amori, ma anche ai giorni bui dell’occupazione nazista. Un dolore cui Amélie non può sottrarsi, perché Kat non è disposta ad andarsene senza conoscere la storia che ha cambiato per sempre la sua vita.

Un confronto doloroso tra due donne passionali
Un passato impossibile da dimenticare
Una storia potente che parla di ricordi e di perdono

«Emozionante, con personaggi memorabili e una storia commovente. Unisce un umorismo sottile a una scrittura evocativa.»
Library Journal

«Una trama sapientemente intrecciata che unisce il presente all’occupazione nazista in Francia. Una lettura piacevole che però non ignora gli aspetti più tristi della guerra.»
Historical Novel Society
Robin Wells
Ha lavorato nel settore della comunicazione per anni, ma ha sempre sognato di scrivere romanzi. Adesso lo fa a tempo pieno, raccontando storie ispirate al personaggio di sua nonna e ai suoi genitori, entrambi librai. Ha vinto numerosi premi tra cui l'RWA Golden Heart e due National Readers’ Choice Awards. Una moglie francese è il suo primo libro pubblicato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822716002
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    Anteprima del libro

    Una moglie francese - Robin Wells

    Libro primo

    Capitolo 1

    Amélie

    2016

    «Non ho mai capito cosa trovasse in te».

    Per un attimo, mi chiedo se quella voce di donna non sia un parto della mia immaginazione. Mon Dieu, la frase mi suona familiare – me la sono ripetuta spesso negli ultimi settant’anni. Quando mi volto verso la porta del mio appartamento all’interno della casa di cura – ho l’abitudine di lasciarla aperta, così i miei amici capiscono che non sono indisposta – però, lei è lì, non c’è alcun dubbio: la fidanzata che mio marito ha abbandonato.

    È invecchiata, ovviamente – lo siamo tutti, no? – eppure la riconosco. È alta, per lo meno in confronto a me, anche se con l’età la sua schiena è diventata curva e adesso ha bisogno del bastone per camminare. La pelle è ancora candida, come latte in una brocca di porcellana, sebbene abbia ormai la consistenza rugosa a cui les femmes d’un certain âge non possono sfuggire. Ha ancora gli occhi color fiordaliso, il naso piccolo che, mentre mi guarda, tiene puntato verso l’alto, come se sentisse puzza di marcio.

    Non posso darle torto. Se fossi stata la fidanzatina del liceo di Jack, colei che gli aveva scritto quasi ogni giorno quando lui era lontano, prima alla scuola medica e poi nell’esercito, anch’io per tutta la vita avrei serbato rancore nei confronti della donna per cui mi aveva piantata.

    Soprattutto se quella donna fosse stata una sposa di guerra, mentre io, con l’anello di fidanzamento al dito, attendevo che lui tornasse a casa e mi sposasse, per poi iniziare a praticare come medico insieme a mio padre, così io sarei diventata la moglie del dottore del paese e avrei fatto la vita che aveva fatto mia madre. E soprattutto, soprattutto – si può fare in inglese, con questa parola? Parlo di raddoppiarla, come si fa con molto o davvero? Non l’ho mai capito – se fossi stata una bella ragazza, bionda, alta, con i capelli lisci, che a ogni ballo doveva avere una fila di almeno dieci pretendenti, e la sposa di guerra, al contrario, fosse stata bassa, bruna e francese.

    «Kat», dico, consapevole del mio accento, che ho provato a perdere senza mai riuscirci. «Che sorpresa».

    «Immagino. Sempre meglio di quella che mi hai fatto tu».

    Rido, poi mi rendo conto che non era una battuta. «Hai ragione, ovviamente».

    Lei annuisce, con la bocca tirata e una smorfia di disapprovazione.

    Bene. Non sarà un incontro facile. Stringo i braccioli della poltrona e mi alzo lentamente in piedi. «Vieni, Kat. Entra, siediti».

    Lei avanza piano, guardandosi intorno. Posso immaginare come le sembri il posto. Mi sono trasferita allo Shady Oaks Assisted Living Center con Jack, quando speravamo che potesse riprendersi dal suo infarto. Nel tentativo di dare all’appartamento un’aria di casa, forse l’ho riempito con un po’ troppe cose. E poi, ho un gusto parigino, vecchio stile – pomposo ed elaborato. Mi piace che l’ambiente stimoli tutti i sensi. Osservo Kat mentre passa in rassegna i quadri dalle cornici pesanti, il grande divano morbido, le poltrone rosa scuro, le tendine con le frange. Ninnoli, libri e riviste ricoprono qualsiasi superficie disponibile. È una di quelle stanze in cui si scopre sempre qualcosa di nuovo, piccoli tesori come un fermacarte di cristallo a forma di rosa, una nave intagliata in un angolo, lo schizzo di una donna nuda: quello che lei sta guardando adesso, quella che secondo Jack mi assomigliava. Sembra sconvolta. Mi chiedo se pensi che sia io la modella. Mi fa piacere che lo creda.

    Probabilmente, quello che si sta domandando è: come diavolo faceva Jack a vivere in mezzo a tutte queste cianfrusaglie?

    «Accomodati, mettiti lì». Indico la grossa poltrona bergère imbottita, che ho appena liberato, la più comoda dell’appartamento. «Posso offrirti una tazza di tè? Un caffè?»

    «No». Ignorando la poltrona, si lascia cadere sul divano con un tonfo, il bel divano di velluto dorato che a casa nostra tenevamo nel salotto buono.

    «Cosa ti porta a Wedding Tree?», chiedo, rimettendomi a sedere con la scarsa grazia che le mie anche artritiche mi concedono.

    Lei sfiora il doppio giro di perle che porta al collo. «Mia pronipote si è trasferita qui da poco. Lavora in una nuova azienda di computer che ha sede in quell’edificio mostruoso a nord del centro».

    «Ah sì». Si occupano di software, e il loro palazzo è tutto di vetro, con belle forme curve e aiuole in cui c’è sempre qualche pianta fiorita. Io lo trovo delizioso. «Quindi sei venuta a trovarla?»

    «Come scusa ufficiale. In realtà, sono venuta per parlare con te». Stringe il bastone. «Ho bisogno di sapere cos’è successo».

    «A Jack?». A un tratto, sento un calore, una tensione nel petto. «Ha avuto un infarto due anni fa». La perdita la percepisco ancora, come una presenza fisica – come se mi avessero portato via un braccio, una gamba o una parte dei miei organi vitali.

    «Lo so, lo so. Mi è dispiaciuto molto. Le mie più sentite condoglianze, ovviamente. Ma non mi riferivo a questo». Ha almeno la decenza di mostrarsi a disagio. «Mi riferivo a… prima. A quello che è successo fra te e Jack in Francia. Voglio sapere i dettagli».

    Aggrotto le sopracciglia. «Perdonami, ma dopo tutti questi anni, cosa può importare?».

    Il mento di Kat svetta in alto, imperioso. Per un attimo, sembra un ritratto di Luigi XVI, di quelli in cui il re indossa uno dei suoi colletti di pizzo. «Mi è sempre importato».

    Oh là là! Accavallo le gambe, poi le distendo. «A volte, Kat, è meglio metterci un macigno sopra». Mi rendo conto di aver sbagliato parola. «A volte uno deve…». Come si dice passer l’éponge in inglese? «Perdonare e dimenticare».

    «Oh, io ho perdonato. Ho perdonato Jack, per lo meno».

    Et moi?

    «Ho tentato di perdonare anche te», aggiunge, mentre a me viene il dubbio di aver pronunciato la domanda, invece di pensarla e basta. Con l’avanzare dell’età, ogni tanto mi succede. «Per quanto sia umanamente possibile, avendo così poche informazioni a mia disposizione. Jack l’ho perdonato subito, non volevo vivere nel rancore. E non l’ho fatto». Alza di nuovo il mento, e pare che i suoi occhi mi lancino una sfida. «Ho avuto una vita meravigliosa».

    «Ne sono felice». È la verità. Mi sono sempre sentita oppressa dai sensi di colpa per le conseguenze che le mie azioni avevano avuto su di lei. «Ti sei sposata, mi hanno detto?»

    «Oh, sì. Un uomo ricco e straordinario che mi adorava. Ho quattro figli, nove nipoti, diciotto pronipoti e due pro-pronipoti».

    «Che bellezza».

    «Sì». Spazza via un pelucco invisibile dalla gonna blu. «Quando me ne sono andata da Wedding Tree, a Dallas ho conosciuto mio marito. Sono stata molto fortunata. Ma, in quella che i miei pronipoti chiamano la mia lista dei desideri, rimane un’ultima cosa. Tu e Jack… È l’unico episodio della mia vita che non ho mai capito. E…». Fa una pausa. «Non mi rimane molto tempo».

    Sorrido. «Alla nostra età, non rimane a nessuno».

    «Sì, ma nel mio caso so esattamente quanto mi resta», spiega. «Vedi, qualche anno fa ho avuto il cancro, e… be’, è tornato, e stavolta non si può curare. Mi rimangono al massimo sei mesi. Probabilmente meno».

    Aggrotto la fronte. Resisto all’impulso di farmi il segno della croce. «Mi dispiace tantissimo».

    Lei fa un gesto con la mano, come se non fosse così grave. «Serve a darmi degli obiettivi. Scelgo con cura come investire il mio tempo».

    «E hai scelto di dedicare a me un po’ del tuo tempo?». Temo che dal mio tono trapeli la mia incredulità. Al suo posto, sono sicura che non avrei fatto altrettanto.

    Lei annuisce, un unico cenno, grave. «Non ho ancora capito come abbia fatto a sbagliarmi così tanto su Jack. Ci conoscevamo fin da piccoli e… pensavo che fosse un uomo rispettabile».

    Guardo la fede che porto al dito. Sul lato del palmo è consumata, e ormai è così sottile che sta insieme a malapena. «Lo era».

    «Con me, è venuto meno alla parola data».

    «Non è stata colpa sua».

    «Oh, so benissimo di chi è la colpa». Il suo tono accusatorio mi fa venire la pelle d’oca, mi fa rizzare il pelo come a un lupo. «Eppure… ero così sicura che Jack…».

    Non afferro la fine della frase. Mi sporgo in avanti e mi tocco l’orecchio. «Scusa?».

    Lei chiude gli occhi, ha il volto tirato. Quando riprende a parlare, la sua voce si spezza in modo commovente. «Pensavo che mi amasse».

    «Oh, infatti era così!», mi affretto a confermare.

    «A quanto pare non abbastanza, altrimenti non avrebbe ceduto al tuo… fascino».

    Quell’attimo di esitazione sarebbe risultato divertente se non mi avesse colpito nel vivo. Ho sempre saputo che Kat era bellissima, mentre io… be’, nessuno mi avrebbe definito così. «Non gli ho lasciato scelta», dico.

    «A meno che tu non l’abbia drogato e legato al letto, un tentativo di seduzione non giustifica l’infedeltà».

    Sono sorpresa e divertita. Mi sforzo di dissimulare. «No?»

    «No. Si tratta di un tentativo, appunto, di una tentazione. Il vero amore resiste».

    Il suo concetto di amore vero – così ingenuo, così americano nella sua ridicolaggine! – mi fa sorridere.

    «Non ci trovo niente di divertente». La sua voce è come un ago, appuntita e tagliente.

    «No, no, certo che no. È solo che, Kat… eravamo in tempo di guerra, e non era tutto bianco o nero».

    Lei taglia corto con un gesto secco della mano. «Non ci sono scuse».

    Con la sua mentalità, dubito che potrò mai convincerla. «E allora, perché sei qui?»

    «Per sapere la verità. Il counselor del mio hospice… mi è stato di grande aiuto. È ebreo, tra l’altro». Si sporge leggermente in avanti. «Sai, Amélie, alla tua età, forse farebbe bene anche a te parlare con qualcuno».

    Credo che questa si possa definire – come si dice? – una frecciatina, ma non ne sono sicura. «Non credo di potermi rivolgere a un hospice, se sto bene», rispondo, piano, e mi domando se Kat soffra di demenza senile. È comune, ormai.

    Lei scrolla le spalle. «Malate, vecchie – non cambia niente. Comunque, Jacob mi ha consigliato di fare tutto il possibile per rappacificarmi con il passato. Allora, ho capito che dovevo venire da te e chiederti di raccontarmi la verità».

    La verità. Mon Dieu, che concetto disgustoso! Il mio cuore rimbalza contro le costole, con la violenza di un pugno. «Che ti ha detto Jack?», domando, cercando di prendere tempo.

    «Pochissimo. Che l’avevi ingannato, o qualcosa del genere, ma ovviamente non gli ho creduto».

    «Avresti dovuto, invece», rispondo.

    Per la prima volta da quando è arrivata, mi guarda dritta negli occhi. «In che senso l’hai ingannato? Ho bisogno di sapere cos’è successo. Per favore. Voglio sapere com’è andata, dall’inizio alla fine, così potrò morire in pace».

    «Cosa ti fa pensare che ti darà pace? Secondo me ti farà arrabbiare».

    «Dimmelo e basta. Ti prego. Per la salvezza della mia anima».

    Oddio, come si fa a dire di no davanti a una richiesta del genere? Mi manca il respiro.

    «Ho bisogno di sapere cosa hai fatto di preciso, così potrò perdonarti sul serio», spiega Kat. «Non lo faccio per te – a dire la verità, non me ne potrebbe fregare di meno –, lo faccio per il mio bene. Sono giunta alla conclusione che Dio ci perdona solo se noi perdoniamo gli altri». Rimane in silenzio, per un momento. «Devo sapere cosa hai fatto».

    Ormai, ero convinta che mi sarei portata il segreto che avvolgeva i primi tempi della mia storia con Jack nella tomba. Al pensiero di riportarlo alla luce, di riesumare gli episodi che con tanto sforzo avevo seppellito, il mio cuore inizia a battere all’impazzata, e poi si ferma, per quanto sappia che non è umanamente possibile. «Non vorrei essere scortese, ma si tratta di questioni private. Quello che c’è stato fra me e Jack non ti riguarda».

    «Non mi riguarda? Non mi riguarda?». A un tratto, Kat diventa una leonessa: aggrotta la fronte, spalanca la bocca e alza la voce, ruggisce così forte che potrebbe richiamare un infermiere da un momento all’altro. A ogni parola, per sottolinearla, sbatte il bastone sul pavimento. «Mi hai portato via la mia vita!».

    Il mio labbro superiore inizia a sudare, e mi sembra di avere la bocca piena di cotone. «Hai detto che hai avuto una vita meravigliosa, che hai sposato un uomo straordinario».

    «È vero. Era ricco, bello, di successo, e mi adorava. Ma…».

    La pausa dura un secondo, e ho già capito cosa sta per dire. Le parole escono in un sussurro; la leonessa, adesso, è una pecorella smarrita. «…non era Jack».

    No, certo che no. Nessuno poteva essere Jack. «Io…». Vorrei dirle che mi dispiace, ma cosa cambierebbe? Le mie scuse non avrebbero nessuna importanza, non le darebbero niente. E poi lo direi senza crederci; non mi sarei mai arresa con quell’uomo magnifico, per niente al mondo.

    «Per favore», mi implora.

    La osservo e cerco di vederla in maniera oggettiva. Era quello che Jack faceva con i pazienti; si liberava dei giudizi e dei preconcetti, cercava di guardarli lucidamente. È una donna anziana, che vuole conoscere la verità sulla sua vita. Oh, merde.

    «La verità non ti darà la pace che cerchi», la avverto, per la seconda volta.

    Anzi, l’ultima cosa che le darà è la pace, probabilmente. Come farà a perdonarmi, quando saprà di cosa sono stata capace?

    E come potrò, io, perdonare me stessa? Avevo sperato di morire senza essere costretta a scavare nel cimitero del mio passato, a riportare in superficie quegli scheletri fatti di vergogna e di dolore – il dolore e la vergogna che mi avevano tormentato, e che, ancora peggio, senza volere avevo inflitto ad altri.

    Tuttavia, quale giustificazione ho per negarle ciò che vuole, oltre al puro egoismo? Elise non c’è più, e non devo più preoccuparmi di proteggerla. Ho dovuto affrontare la tragedia più grande della vecchiaia, quella di sopravvivere a un figlio.

    «Non so neppure dove vi siete conosciuti, tu e Jack», dice Kat.

    Almeno questo posso concederglielo. «In chiesa». Era l’Église Saint-Médard, su rue Mouffetard, nel V arrondissement. La vedo con una tale chiarezza, come se ci fossi stata ieri. Be’, direi che più che conosciuti, io e Jack lì ci siamo incrociati.

    «Ero inginocchiata a un lato dell’altare, seduta sui talloni, con la testa appoggiata sopra la balaustra, e Jack è entrato nel confessionale. Non mi ha notato, e io non ho alzato lo sguardo».

    «Aspetta un attimo!». Kat alza il braccio, come se fosse un vigile urbano. «Jack è entrato in un confessionale? Ma era battista!».

    Annuisco. «Si trovava lì per conto di un’altra persona».

    Kat rimane in silenzio per un momento, metabolizzando l’informazione. «E tu? Ti trovavi lì perché sei religiosa?»

    «No. Mi trovavo lì perché ero disperata». Disperata senza rimedio, non sapevo dove sbattere la testa.

    Mentre rifletto, i ricordi vengono a me come sbuffi di nebbia, fondendosi l’uno con l’altro. «Ero… come si dice? Allo stremo delle forze. Avevo il cuore infranto ed ero a pezzi… in generale. Avevo bisogno di un miracolo».

    «Perché? Cos’era successo?»

    «Erano successe tante cose. Tante, tante cose». La nebbia si stava addensando, si stava compattando per diventare una presenza con una forma e un peso.

    «A Jack, intendo. Hai detto che è entrato nel confessionale».

    Non voleva informazioni su di me ma solo su Jack. Ovvio. «Sì. È entrato e ho sentito la sua conversazione con il parroco. Il suo francese era buono, sai? E considerata la natura dell’argomento… be’, non ho potuto fare a meno di ascoltare».

    «Cosa diceva?»

    «Spiegava che aveva lavorato in un ospedale da campo in Normandia, al seguito dell’esercito americano nella sua marcia attraverso la Francia».

    «Sì, sì, me lo scrisse».

    «Raccontava che lui e un giovane medico stavano aiutando un soldato di fanteria ferito a uscire da una jeep, quando un tedesco disperso, confuso, disorientato, probabilmente ferito a sua volta, era entrato nell’area dell’ospedale militare. Aveva in mano una mitragliatrice, e gliel’aveva puntata addosso. Il medico aveva un fucile; sapeva che Jack non era armato. Aveva spinto via Jack e aveva sparato al tedesco».

    Ricordo ancora come tremava la voce di Jack mentre raccontava la scena al prete. Ancora oggi, a ripensarci sento un nodo alla gola.

    «Il medico salvò la vita a Jack, però la mitragliatrice lo colpì al petto. Stava morendo, e chiese a Jack di chiamare un prete; voleva confessarsi. Non c’era tempo. Jack gli disse che avrebbe ascoltato quanto aveva da dire e l’avrebbe riferito al parroco. Ecco perché Jack, quel giorno, si trovava in chiesa; così il medico si sarebbe potuto confessare per procura».

    «I cattolici possono farlo?», chiede Kat.

    Questa donna si fissa su dei dettagli davvero ridicoli! Però, non poteva saperlo; lei, come Jack, aveva ricevuto un’educazione battista. «No, infatti è quello che gli ha detto il prete. Ma Jack ha esclamato: Ormai ho dato la mia parola, e lo racconterò comunque».

    «E l’ha fatto?»

    «Sì. Jack ha raccontato che il medico si era separato dalla sua unità poco dopo lo sbarco degli americani, il famoso D-day. Una giovane donna francese l’aveva tenuto nascosto dai tedeschi per qualche settimana e l’aveva aiutato a mettersi in contatto con il corpo sanitario dell’esercito americano. Aveva paura di averla messa incinta. La amava, voleva tornare da lei e sposarla.

    Il prete ha risposto che avrebbe pregato per l’anima del giovane medico, e ha chiesto come si chiamasse.

    Doug Claiborne di Whitefish, Montana, ha risposto Jack.

    Il parroco allora ha chiesto a Jack se conosceva il nome della ragazza, o il suo indirizzo.

    No, ha detto lui. Il medico me l’ha raccontato con l’ultimo fiato che aveva in corpo. Ha detto che nella tasca del cappotto conservava un biglietto con l’indirizzo della ragazza, quando ho guardato, però, al posto della tasca ho visto un buco.

    Allora non c’è niente che tu possa fare, ha detto il prete"».

    Chiudo gli occhi, e nella mia mente rivedo la chiesa fiocamente illuminata. Mi sembra quasi di sentire il profumo del legno lucidato della balaustra, rivedo vivida la luce tremolante delle candele votive.

    «Mentre Jack e il prete discutevano, le loro voci si sono fatte più flebili e, anche se era sbagliato, sono sgattaiolata più vicino per origliare. Quando sono arrivata davanti al confessionale, fuori dalla tendina ho visto una borsa, che sembrava quella di un dottore. Sopra, c’era un’etichetta di metallo. L’ho girata e ho letto il suo nome: dott. Jack O’Connor.

    E tu, figlio mio?, ha chiesto il prete. Hai qualcosa da confessare?.

    Solo che non merito di vivere, ha risposto Jack. Un uomo è morto al posto mio.

    A quanto pare, Dio la pensa diversamente. Tornerai presto a casa?

    Non ancora. Sono di stanza nella 365a stazione ospedaliera dell’esercito, qui a Parigi, quello che un tempo era l’ospedale americano. Rimarrò qui almeno per un paio di mesi, forse più.

    Ah, ha esclamato il parroco. Be’, pregherò per te».

    Quando apro gli occhi, mi accorgo che Kat sembra alquanto perplessa. Fino a quel momento, non mi ero accorta di averli chiusi. «In quel preciso istante, ho formulato un piano».

    Kat inarca le sopracciglia. «Un piano?»

    «Sì. Per capire, insomma, devi sapere che vita facevo durante la guerra».

    Kat agita di nuovo la mano, come per tagliare corto. «Non mi interessano i tuoi patimenti. Dei miei ti sei preoccupata, in tutti questi anni?»

    «Non come avrei dovuto». Mi rendo conto che, in realtà, lei non vuole perdonarmi. Com’è il detto? Non vuole seppellire l’accetta? Cerco di contenere l’irritazione, e mi sforzo di guardarla di nuovo, come avrebbe fatto Jack: in modo oggettivo, senza preconcetti né emozioni.

    Sacré cœur. È vecchia, e sta morendo. Devo esaudire il suo desiderio. Prima, però, voglio stabilire delle regole.

    «Ci sono azioni che acquistano un senso solo se ne conosci le motivazioni. Se devo raccontarti questa storia – tutta la cruda verità – voglio raccontarla a modo mio, al mio ritmo. Non voglio interruzioni, né domande, altrimenti non ti dirò più niente».

    Lei annuisce, con le labbra strette e tirate.

    «Potrebbe volerci un po’ di tempo».

    Di nuovo, Kat dà una scrollatina di spalle, rigida. «Non ho niente da fare, a parte ascoltarti e morire».

    E io non posso fare altro che raccontare. Sbuffo, inspiro a fondo e inizio.

    Capitolo 2

    Amélie

    1 settembre 1939

    Per me, la guerra iniziò con la battaglia della cerniera.

    Quel giorno, un venerdì pomeriggio, ero dalla sarta con mia madre a scegliere stoffe e passamaneria per i nuovi abiti invernali. Il negozio di Madame Depard profumava sempre di lavanda e di cipria, mescolate al sentore pungente delle tinte per i tessuti. Quell’odore, ogni volta, mi riempiva di un senso di speranza. La sarta avrebbe confezionato l’abito perfetto, quello che mi avrebbe trasformato da ragazzina allampanata in una bella donna, sicura di sé e prosperosa. Quel profumo conteneva una promessa capace di inebriarmi.

    A quell’odore, però, ero allergica, mi faceva lacrimare gli occhi.

    Venivo dalla scuola – era autunno, era iniziata quella settimana – e indossavo la mia uniforme: una camicia bianca inamidata con il colletto rotondo, un grembiule blu sformato e scarpe con i lacci. Avevo sedici anni e, ovviamente, ero eccitata all’idea di un completo nuovo. La stoffa che io e la mamma avevamo scelto era di lana verde, e avevo appena convinto mia madre a concedermi di stringere l’abito sulla vita e inserire una cintura – un taglio da donna. Solo da poco mi permetteva di mettere i tacchi e i collant, nelle occasioni speciali.

    La mamma voleva scegliere i bottoni da mettere sulla schiena, io invece volevo a tutti i costi una cerniera. Tutte le ragazze chic che andavano all’università nel Quartiere latino avevano la cerniera, e io, che ero ancora al liceo, le guardavo con invidia. Secondo mia madre, la lampo dava l’impressione di essere troppo a buon mercato – e lo era, tra l’altro. Erano più economiche, per questo si trovavano soprattutto nei vestiti prodotti in serie.

    Papà era un professore, e per mia madre, gli abiti confezionati non si addicevano al nostro rango. Non potevamo permetterci abiti firmati, ma secondo Maman, rinunciare ai vestiti di sartoria sarebbe stato un insulto alla posizione di papà.

    «Le cerniere le mettono solo le persone che non possono comprare di meglio», disse lei.

    «Le star del cinema possono sicuramente comprare di meglio!», ribattei. Io e la mia migliore amica, Yvette, adoravamo i film, soprattutto quelli americani. Mio padre sosteneva che i francesi fossero migliori – più artistici, più densi di contenuto. Affermava che le cinéma fosse nato in Francia, e che il nostro Paese sarebbe ancora stato la capitale della cinematografia, se la Grande Guerra non avesse tagliato le gambe al settore, come aveva tagliato le gambe al resto del Paese.

    Mio padre – a dire il vero come qualsiasi altro adulto di mia conoscenza – non faceva altro che parlare di come era stata la Francia prima. Io non ne sapevo niente, di questo prima, visto che ero nata dopo. Da quando ero nata, però, i discorsi sulla guerra avevano accompagnato ogni mia giornata. Come il pane, venivano serviti a ogni pasto, a ogni adunata. Se non discutevano del conflitto imminente, gli adulti rimembravano gli avvenimenti della Grande Guerra.

    Persino i film, in Francia, parlavano della guerra. Il governo era inflessibile; al cinema, ogni sette film americani, dovevano dare una pellicola francese, nel tentativo di rimettere in piedi l’industria cinematografica nazionale. Io e Yvette preferivamo di gran lunga i film spensierati di Hollywood alle tristi, cupe storie di guerra di casa nostra. I cinegiornali che mostravano le immagini dei soldati tedeschi che avanzavano a passo di marcia bastavano e avanzavano, per i nostri gusti.

    «Katharine Hepburn porta le cerniere», dissi a mia madre.

    «Se Katharine Hepburn si mettesse una latrina per cappello, lo faresti anche tu?», chiese mia madre.

    Stavamo discutendo proprio di questo, in un angolo del negozio, quando Madame Avant entrò di corsa, con l’ombrello gocciolante e le guance accese. Il suo petto, sporgente e rotondo come quello di un piccione, si gonfiava e si abbassava. Tutte si voltarono verso di lei.

    «I tedeschi stanno attaccando la Polonia!», annunciò.

    Fu come se tutte le donne presenti si fossero tramutate in pietra. Mia madre sbiancò. «Oh, no», mormorò, portandosi una mano al petto. Si appoggiò a peso morto alla vetrina. «I miei ragazzi».

    I miei fratelli maggiori avevano diciassette e diciotto anni, e da quando erano nati non vedevano l’ora di potersi unire all’esercito francese. Maman aveva insistito affinché aspettassero per arruolarsi; Pierre, il più grande, aveva risposto che i volontari ricevevano gli incarichi migliori. Papà aveva detto che era inevitabile, prima o poi sarebbero partiti, ma fino a quel momento la mamma l’aveva avuta vinta.

    Di solito, quando si parlava di politica o di guerra, spegnevo il cervello, ma con le ultime notizie non c’ero riuscita. Solo la settimana prima, la Germania aveva stretto un patto di non aggressione con la Russia, mentre Francia e Gran Bretagna, in risposta, avevano firmato un trattato in difesa della Polonia.

    Quella mattina stessa, a scuola, la mia amica Lisette aveva detto che il padre, impiegato al Louvre, le aveva rivelato che al museo stavano imballando i quadri e le sculture per spedirli in campagna, al sicuro. Suo papà aveva aiutato personalmente gli addetti a mettere la Venere di Milo in una cassa.

    L’aria era pesante, si aveva la sensazione che stesse per succedere qualcosa, come se sulle nostre teste gravasse una nube pronta a scatenare una bufera di neve.

    «Significa che siamo in guerra?», domandai.

    «Se non lo siamo ancora, lo saremo fra poco», rispose Madame Avant.

    «Dobbiamo andare a casa». Mia madre si rimise in piedi e prese la borsetta. «Vieni».

    «E i nostri vestiti?», chiesi.

    «Ci penseremo più tardi». Si rivolse alla commessa, che reggeva il rotolo di stoffa per mostrarcelo accanto alla passamaneria e ai bottoni. «Capirà, spero».

    «Bien sûr», mormorò lei, a testa bassa. «Le metto la stoffa da parte».

    La mamma borbottò un ringraziamento, e per tutto il tragitto, fino a casa, mi tenne per il gomito. Vivevamo in un palazzo stretto, a tre piani, una rarità nel Quartiere latino, dove tutti abitavano negli appartamenti. Apparteneva alla famiglia di mio padre da generazioni, e, l’anno prima, papà aveva investito una bella fetta dei suoi risparmi per rafforzare le fondamenta e ammodernare il bagno e la cucina.

    Sicuramente, Yvette aveva aspettato il mio ritorno alla finestra di casa sua, dall’altra parte della strada, perché venne a bussare un secondo dopo che eravamo entrate. «Hai sentito?», bisbigliò.

    «Sì», risposi.

    Eravamo eccitate. Sapevamo che era una notizia terribile, ma per tanti versi eravamo ancora delle bambine, e avevamo l’impressione che stesse per iniziare una grande avventura. Malgrado ciò che dicevano tutti, la guerra ci appariva affascinante ed elettrizzante da morire. Tutti quei giovani con le belle uniformi, coraggiosi, audaci, pronti all’amore!

    * * *

    La mamma accese la radio. Quella sera, non diffusero musica, solo giornalisti che parlavano, parlavano, parlavano senza sosta.

    «Dobbiamo trovare un’acconciatura che ci faccia sembrare più grandi», mi disse Yvette.

    Sgattaiolammo in camera mia e ci mettemmo davanti allo specchio del comò a provare pettinature e bigodini. Io e Yvette eravamo come sorelle; i nostri genitori erano molto amici e ci conoscevamo da quando eravamo nate. Nonostante l’affetto che ci legava, non avremmo potuto essere più diverse. Yvette aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Aveva sempre le gote e le labbra accese, come se fosse stata al freddo. Anche la sua personalità era vivace e solare.

    Io, invece, ero bassa e magra, con i capelli castano scuro e gli occhi marroni.

    La gente ripeteva: «Ah, quella Yvette, diventerà una rubacuori!». Di me, invece, non dicevano mai niente. Mi confondevo con la tappezzeria, e per me andava più che bene. Preferivo essere la spalla di Yvette, e seguire i suoi piani piuttosto che formularne di miei.

    Ero un’introversa; amavo i libri e la calligrafia. Fosse stato per me, avrei passato tutta la vita in un angolino con una pila di romanzi, oppure con carta e penna, a copiare le scritte delle riviste e delle locandine dei film, mentre Yvette era sempre alla ricerca dell’avventura.

    Quel giorno, la mia amica se ne andò quando la mamma mi chiamò per aiutarla con la cena – pollo arrosto con carote e patate novelle. Papà rientrò all’ora consueta, con la faccia scura. Era da solo. Di solito, i miei fratelli lo accompagnavano a casa dall’università.

    «Dove sono Pierre e Thomas?», domandò la mamma.

    Mio padre appese il cappello all’attaccapanni senza dire una parola.

    «Non», sussurrò la mamma, come se stesse pregando. Corse da mio padre e lo prese per il bavero del cappotto. «Devi fermarli!».

    «Sono adulti, Marie».

    «Non Thomas», insisté la mamma. «È ancora un ragazzo».

    «Diciassette anni è l’età per arruolarsi. E comunque, fra due mesi ne compirà diciotto. Se non va volontario con Pierre, lo chiameranno».

    Mia madre abbassò le mani. «Potrebbe guadagnare un po’ di tempo».

    Papà allentò il nodo della cravatta e sospirò. «Marie, è importante che sia una sua scelta».

    «È troppo giovane per prendere una decisione del genere!».

    «È probabile che sia l’ultima scelta che gli sarà concessa per tanti anni a venire». Papà si sfilò il cappotto. «Il loro è un gesto nobile. E, con un po’ di fortuna, potranno stare insieme, tenersi d’occhio a vicenda. Non devi opporti».

    Mia madre gli voltò le spalle, rifiutandosi di continuare la discussione. Iniziò a sbattere i coperchi e le padelle sulla stufa, muovendosi a scatti, nervosa.

    Quella sera, i miei fratelli non arrivarono in tempo per la cena. Io e mio padre mangiammo senza di loro. Mia madre non mangiò affatto. Sedette con noi al tavolo, ma si limitò a spostare il cibo da una parte all’altra del piatto.

    Mentre stavamo sparecchiando, Pierre e Thomas tornarono.

    «Be’?», chiese mio padre.

    Pierre era impettito. Teneva il mento alzato, con aria di sfida, come se fosse pronto allo scontro. Al suo fianco, anche Thomas stava dritto, come se fosse già un soldato in attesa di ordini. Si scambiarono un’occhiata e poi, all’unisono, come avevano deciso, esclamarono: «Ci siamo arruolati».

    Mia madre scoppiò a piangere. Anche mio padre, credo, ma si alzò subito e abbracciò Pierre, poi Thomas, così velocemente che non ne sarei sicura.

    Sedettero al tavolo, e papà versò loro due bicchieri colmi di vino.

    «Vi danno l’uniforme?», chiesi.

    «Sì», rispose Thomas.

    «E i fucili?».

    Mia madre si portò la mano alla bocca e singhiozzò.

    «Amélie!», mi rimproverò mio padre.

    «Che c’è? Volevo solo sapere se saranno equipaggiati per difendersi».

    «Sì, piccoli». Thomas mi arruffò i capelli. Di solito odiavo quando lo faceva, ma quella sera non mi diede fastidio. Forse era per via di quella postura dritta, ma sembrava più alto del solito. «Saremo ben attrezzati per difendere la Francia».

    Pierre alzò il bicchiere. «Vive la France!».

    Anch’io, papà e Thomas ci unimmo al brindisi. «Vive la France!», esclamammo.

    Con un cenno, papà esortò la mamma a partecipare. «Dài, Marie, devi brindare con noi». Mio padre le versò un altro goccio di vino. Quando alzò il bicchiere, la mano di mia madre tremava.

    «Vive la France!», ripetemmo per l’ultima volta, tutti insieme.

    Tutti eccetto la mamma. Parlò sottovoce, ma riuscii a distinguere chiaramente le sue parole: «Vive mes fils!». Lunga vita ai miei figli.

    Capitolo 3

    Amélie

    3 settembre - 29 ottobre 1939

    Due giorni dopo, divenne ufficiale: la Francia, insieme al suo alleato, la Gran Bretagna, dichiarò guerra alla Germania.

    Quella stessa settimana, i miei fratelli partirono per l’addestramento. Non furono i soli; all’improvviso, ci sembrò che tutti i maschi parigini sotto i trentacinque anni avessero lasciato la città. Io e Yvette eravamo distrutte; avevamo immaginato le strade di Parigi gremite di soldati francesi che mangiavano nei caffè, bevevano e ballavano nei locali notturni in cui noi intendevamo intrufolarci. Non ci aspettavamo che sarebbero partiti tutti!

    Anche la maggior parte dei cittadini inglesi e americani lasciò la città. In quei primi giorni, le strade erano deserte. Poi, gli stranieri iniziarono ad arrivare a frotte – dalla Russia, dall’Ucraina, dal Belgio, e chissà da quali altri luoghi. Non erano certo ben vestiti, e davano l’impressione di non avere un posto in cui dormire. La polizia francese iniziò a fermare le persone per strada e a chiedere i documenti – con quale scopo, non l’ho mai capito.

    Non ricordo se la scuola fosse chiusa, o se fossero le nostre mamme a non lasciarci andare. Su insistenza di mio padre, io e Yvette continuammo a fare le nostre lezioni di inglese e tedesco con lui, come facevamo da anni, mentre il papà di Yvette, professore di ingegneria, stava lavorando a un progetto segreto del governo, quindi fummo dispensate dalle lezioni di matematica avanzata che ci dava.

    Ne fui sollevata. Odiavo la geometria, l’algebra e i calcoli. Papà ripeteva sempre che la conoscenza era come oro, solo che nessuno poteva rubartelo, che dovevo imparare il più possibile, e che non si poteva mai sapere, magari un giorno ne avrei avuto bisogno. Io e Yvette, scherzando, dicevamo che ci saremmo tagliate le vene se ci fosse capitata una vita tanto noiosa da aver bisogno della matematica.

    La città era tesa, sembrava in bilico su una corda. La gente era affamata di informazioni. Non appena li consegnavano ai chioschi, i giornali andavano a ruba. In quei primi giorni, ascoltavamo la radio dalla mattina alla sera. Davano poca musica; mandavano più che altro cupe notizie sull’avanzamento dei tedeschi in Polonia.

    I numeri di cui parlavano era talmente grandi da perdere quasi di significato. Come si faceva a immaginare un milione e mezzo di soldati tedeschi? Chi le aveva mai viste, centinaia di carri armati che macinavano chilometri in mezzo alle fattorie e ai villaggi, travolgendo tutto quello che incontravano sul loro cammino? Cosa pensare delle dieci, venti, cinquanta, cento migliaia di cittadini polacchi uccisi? I numeri oscillavano in modo folle, ma rimanevano astronomici, e le stime salivano a vista d’occhio.

    Le storie sulla Luftwaffe tedesca erano le più terrificanti. Secondo i radiogiornali, succedeva che a un tratto, senza preavviso, sciami di aerei oscuravano il cielo, bombardando i civili, oltre che gli obiettivi militari. Ferrovie, ponti, acquedotti, persino le scuole erano nel mirino dei crudeli bombardieri. Strade gremite da famiglie in fuga erano spazzate via dalla faccia della terra. La flotta aerea tedesca, all’improvviso, scendeva in picchiata sotto le nuvole per colpire i cittadini con le mitragliatrici, nel cosiddetto terrorismo aereo.

    Per quanto ci riguardava, era tutto terrorismo aereo. Quanto terrore potevano sopportare le nostre orecchie prima di diventare insensibili? Io e Yvette ci stancammo di sentirne parlare. Di tanto in tanto, sgattaiolavamo fuori casa – ognuna diceva che sarebbe andata a trovare l’altra – e vagavamo per il Quartiere latino. Quando ci sentivamo particolarmente coraggiose, e i nostri genitori avevano da fare, uscivamo dopo cena. Una sera, finimmo in un circolo – un ritrovo di studenti universitari, minuscolo, spoglio, senza elettricità, solo candele infilate nelle bottiglie di vino. Ci dividemmo un bicchiere di vino e ascoltammo un baritono di mezza età che cantava Begin the Beguine, accompagnandosi con un piano stridulo.

    La musica mi fece struggere. «Come fa una donna ad avere questo effetto su un uomo?», chiesi.

    «Gli fa vedere il petto», rispose Yvette. Ridemmo come due scolarette, che tra l’altro eravamo. Nonostante l’ilarità, la sua risposta mi intristì, perché temevo che contenesse un briciolo di verità. Yvette aveva un seno prosperoso, mentre il mio era piccolo, come il resto di me.

    «E se una non è ben fornita?», domandai.

    «Be’, allora deve fare un po’ la civetta, con gli occhi, i gesti, il corpo. E, soprattutto, deve essere intrigante».

    «Come?».

    La mia amica bevve un sorso di vino, riflettendo. «Forse devi metterlo un po’ a disagio. Se lo spiazzi, può diventare una preda facile».

    Dal bancone, un uomo di una certa età con una giacca sdrucita stava guardando Yvette in modo inquietante. Quando la maggior parte degli studenti se ne andava, la clientela dei baretti del Quartiere era costituita per lo più da rifugiati.

    «Credo che tu abbia fatto una conquista», le dissi, dandole una gomitata.

    Lei si voltò, e l’uomo sorrise, scoprendo la bocca da cui mancavano diversi denti.

    «Merde», bisbigliò lei. «Andiamo».

    Ritornammo a casa mia, perché la mamma aveva i nervi a pezzi e mi voleva vicina. Non dormiva più, e riempiva le lunghe ore di veglia con attività febbrili. Fece scorta di cibi secchi e di verdure in scatola che comprava al mercato (prima di allora, le uniche conserve di verdura che mangiavamo erano fatte con gli ortaggi che crescevano d’estate nell’orticello dietro casa), e mise delle orribili tende oscuranti a tutte le finestre. Papà la accusava di sperperare i loro soldi come un marinaio ubriaco in licenza; e la mamma rispondeva che, se il cibo avesse iniziato a scarseggiare, non ci saremmo potuti nutrire di banconote.

    Mio padre continuava ad andare ogni giorno all’università, ma in aula era rimasto un ottavo degli studenti che si erano iscritti inizialmente. Gli stranieri erano tornati in patria, le studentesse non uscivano più di casa e i giovani francesi avevano abbandonato gli studi per arruolarsi. Dagli scambi di battute bisbigliati che si scambiavano i miei, ansiosi, avevo capito che lo stipendio di mio padre aveva subìto un taglio, in conseguenza della diminuzione del numero degli studenti.

    Le notizie dal fronte si fecero sempre più sinistre e complicate. Su esortazione di Hitler, a quanto pareva, la Russia invase la Polonia il 17 settembre. Aspettavamo di sentire la notizia che anche gli inglesi o i francesi erano intervenuti, invece non successe niente. Sembrava che tutto il Paese stesse con il fiato sospeso.

    E poi… poi finì, o almeno così ci parve. Il primo ottobre, a un mese dall’inizio dell’invasione, la Polonia si arrese alla Germania. I tedeschi non tentarono di conquistare la Francia. Tecnicamente, eravamo ancora in guerra, ma la vita, a Parigi, riprese a scorrere indisturbata.

    Io e Yvette rientrammo a scuola. Con la mamma, tornai dalla sarta, ma lei, da quando se n’erano andati i miei fratelli, era sempre nervosa e non ebbi il coraggio di mettermi a discutere sulla cerniera. Finsi che mi piacessero i bottoni rivestiti che aveva scelto.

    A metà ottobre, la Germania fece un’offerta di pace. L’Inghilterra, prima, e la Francia, poi, la rifiutarono. Questo, come accadeva ormai con tutto, scatenò un dibattito infuocato. Alcuni pensavano che il governo fosse stato stolto a non accettare il trattato di pace; altri sostenevano che fosse solo una trappola dei tedeschi.

    La maggior parte dei francesi, tuttavia, fu sollevata nel sapere dell’offerta di pace. Parlava, nuovamente speranzosa, e diceva che era la prova che i tedeschi non ci avrebbero invaso. Le fortificazioni della linea Maginot, lungo il confine orientale, li scoraggiavano, affermavano in tanti; i tedeschi dovevano mettersi in testa che la Francia era impenetrabile. In molti speravano che la Francia e la Gran Bretagna scegliessero di ottenere la pace per vie diplomatiche, e che lo stato di guerra fosse presto revocato.

    Intanto, i giorni passavano. La vita tornò alla normalità – per quanto fosse possibile, a casa nostra, con Pierre e Thomas lontani. Senza di loro, la casa sembrava grande e vuota. Ricevevamo loro notizie regolarmente; erano di stanza insieme in una località non meglio specificata sulle Alpi, in una stazione della linea Maginot. Io e la mamma lavoravamo a maglia, facendo calzettoni e guanti.

    Io e Yvette eravamo inquiete. Un giorno, una delle ragazze più sveglie della scuola ci propose di andare in un locale jazz a Montmartre, e noi accettammo, entusiaste. Avremmo dovuto svignarcela di nascosto dai nostri genitori – avevano idee antiquate sulle uscite notturne delle giovani non accompagnate, e Montmartre era una zona malfamata –, quindi raccontammo loro che saremmo andate a casa di Lisette ad ascoltare i dischi.

    Ai genitori di Lisette non bastarono le spiegazioni, quindi scrissi una lettera, fingendomi mia madre, in cui invitavo la mia amica a casa nostra per la serata. (I genitori di Lisette erano puntigliosi sulla procedura da seguire per gli inviti, e io avevo un talento naturale per falsificare la calligrafia altrui).

    Fu così facile che mi sentii in colpa. Yvette si presentò alla mia porta alle sette, e corremmo fino alla stazione della metropolitana come una coppia di ladre, con i pochi soldi risparmiati dai regali di compleanno e il denaro racimolato badando di tanto in tanto al figlio di una conoscente infilati nella borsetta. Lì, incontrammo Lisette e la nostra amica Madeline e, dopo venti minuti di treno, finalmente arrivammo a La Grosse Pomme – La grande mela. Il locale era stato fondato dalla bellissima cantante jazz di colore Adelaide Hall, ma Adelaide, come tanti americani nei mesi precedenti, era fuggita dalla Francia.

    Mentre ci avvicinavamo, ci giunse il lamento ipnotico di un sassofono, che oltrepassò la porta chiusa. Quando l’addetto, in guanti bianchi, venne ad aprirci, la musica ci investì, ci avvolse e ci trascinò all’interno. Varcammo la soglia del locale affollato ridacchiando.

    Fu come entrare in un altro mondo. Gli arredi erano lussuosi: carta da parati rossa, damascata, lampadari di cristallo e candelabri, tovaglie di lino bianco. L’aria era satura di fumo. I toni suadenti del jazz manouche – un violino che fondeva le sue note dolci con il trillo blues del sassofono, ammorbiditi da un clarinetto melodioso e dalla batteria suonata con le spazzole – ci ipnotizzarono. Esitammo, prima di consegnare i cappotti – avremmo

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