Segreti di famiglia
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Narrativa - racconto lungo (46 pagine) - Una lettera inaspettata, in grado di sconvolgere gli equilibri di una famiglia.
Takeo lavora in una casa editrice. La sua mansione è davvero inusuale: risponde alla corrispondenza destinata agli scrittori famosi. Le lettere sono il suo mondo, almeno finché una non giunge a distruggerlo.
La trova una mattina nella buca delle lettere, firmata da una persona che conosce molto bene e a cui è affezionato da sempre: sua cugina Reiko. Una missiva piacevole, dunque, se non fosse per un unico dettaglio: Reiko è morta.
Per fare luce sul mistero, Takeo dovrà scavare nel torbido e inaspettato passato della sua famiglia, riportando a galla antichi segreti e sforzandosi di accettare scomode verità. Ritornerà nel luogo dove tutto è iniziato: la casa dei nonni sul lago Nojiri, dove si è consumata la sua giovinezza e dove le memorie sopravvivono ancora.
Serena Lavezzi, classe 1986, vive in provincia di Novara. Ha conseguito due lauree in Storia antica. Si dedica alla scrittura ed è grande appassionata e studiosa di letteratura giapponese. Si occupa di divulgazione letteraria sul profilo Instagram @lavezziserena. Ha gestito per anni il blog letterario Penne d’Oriente e ha collaborato con il Museo d’Arte Orientale Chiossone di Genova.
Ha pubblicato romanzi e racconti ambientati in Giappone. Le sue pubblicazioni fiction: Neve su un campo di more (Arpeggio Libero Editore), All’ombra di Jizo (EKT Edikit), Natura viva nei dintorni di Fukushima, L’Azienda e Shi (Delos Digital), La Stazione termale (Milena Edizioni), Residenza Kazoku (Pluriversum Edizioni).
I suoi saggi letterari: Dall’Hokkaidō al Kyūshū – Scrittori giapponesi moderni e contemporanei e Mito, storia, società nella letteratura giapponese (Edizioni Stilnovo).
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Anteprima del libro
Segreti di famiglia - Serena Lavezzi
La lettera
Mi era sempre piaciuto scrivere lettere a mano. Almeno fino all’ottobre del 1997, quando mi arrivò una lettera di mia cugina Reiko. Era il primo del mese, mattina presto. Rientravo dalla mia corsa mattutina nel parco, quando vidi qualcosa spuntare dalla cassetta delle lettere all’ingresso del condominio. Era uno stabile vecchio stile, costruito negli anni Settanta, nel centro di Nagaoka. Ci abitavo io, in un minuscolo appartamento, e altri cinque affittuari, alcuni in coppia e altri soli come me. Avevo lasciato la casa dei miei genitori da cinque anni per trasferirmi lì, me l’aveva permesso il mio nuovo lavoro di scribacchino presso una casa editrice.
Mi era sempre piaciuto scrivere lettere a mano, fin da ragazzino, tanto che ne avevo fatto un lavoro. Il mio compito, infatti, era quello di rispondere a mano alle lettere che gli ammiratori inviavano agli autori. A loro non restava che firmarle, la segretaria si occupava di allegare una fotografia autografata e io mi dedicavo alla parte scritta. Inizialmente, quando avevo cominciato a lavorare lì, dopo l’università, mi ero sorpreso di questo sistema di corrispondenza fasulla. Ero convinto che fossero gli stessi scrittori a rispondere, ma l’editor mi aveva spiegato che erano troppo indaffarati e che giungevano, a volte, decine di lettere al giorno. Avevano bisogno di una persona che se ne occupasse in esclusiva, naturalmente tenendo conto delle peculiarità e caratteristiche di ogni singolo autore di modo che sembrassero scritte proprio da loro. Per questo motivo il mio appartamento strabordava di libri, edizioni rilegate, economiche e deluxe. La casa editrice mi consegnava ogni libro stampato, una copia omaggio perché potessi conoscere a fondo il lavoro degli scrittori e comprendere le citazioni all’interno delle lettere. Non avrei mai pensato di fare un lavoro del genere, quando ancora studiavo, eppure lo trovavo molto appagante. Non sempre avevo bisogno di lavorare in ufficio, potevo anche sbrigare la corrispondenza direttamente a casa mia. Così passavo la maggior parte delle mie giornate nell’appartamento, composto da una grande sala con il cucinino all’occidentale e a cui io avevo aggiunto una zona studio con scrivania e scaffali. Oltre a questi c’erano un divano a due posti, una vecchia televisione e, di fronte, un tavolino basso che usavo per mangiare. Un corridoio minuscolo che neanche avrebbe meritato quell’appellativo dava su due porte scorrevoli. Il bagnetto, anche questo all’occidentale con la doccia e la camera da letto di tre tatami.
La mia routine era pressoché sempre identica. Ogni mattina mi alzavo alle sei e mezza, bevevo un bicchiere di spremuta e andavo a correre. Non distante dal palazzetto c’era un grande parco, a quell’ora semi deserto salvo qualche sportivo e alcuni senzatetto. Tornato dalla corsa facevo la doccia, preparavo un abbondante colazione e prendevo posto alla scrivania. Scrivevo lettere per quattro o cinque ore, mi permettevo una lunga pausa pranzo e spesso schiacciavo un pisolino nel primo pomeriggio. Poi di nuovo riprendevo a lavorare per un’ora circa e soltanto prima di cena uscivo per consegnare le lettere alla casa editrice. Era ubicata al decimo piano di un grattacielo ormai datato, a due fermate di metro da casa. Gli editor e i correttori di bozze lavoravano fino a tardi per cui non avevo timore di non trovarli, consegnavo il mio lavoro e me ne andavo, portando con me le lettere arrivate quel giorno. Poi facevo la spesa tornando a casa, a volte mi fermavo a vedere un film al cinema o perdevo tempo gironzolando per la città. Dopo cena mi addormentavo spesso sul divano davanti alla televisione, per trascinarmi nel futon a notte fonda.
Ogni giorno si ripeteva quasi identico, con qualche piccola variazione insignificante. Fu così fino a quel primo ottobre, quando vidi una busta ad attendermi.
Non ricevevo molta posta, pensai che fosse di mia madre dapprincipio. La presi senza osservarla troppo e salii nell’appartamento. La aprii soltanto mentre ero intento a fare colazione, in televisione c’era il programma di notizie del mattino e fuori dalla finestra il sole saliva sempre più alto nel cielo. Una luce dorata inondava la stanza e la stufetta accesa diffondeva un calore tiepido. Mi sentivo benissimo.
Tirai fuori l’unico foglio dalla busta, era rettangolare e quasi del tutto vuoto, se non per una frase scritta al centro.
Takeo, sono Reiko.
Ti scrivo per dirti che non ho dimenticato la nostra promessa.
Il mio cervello ci mise qualche istante più del dovuto