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Origini: Origini, #1
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E-book509 pagine6 ore

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Info su questo ebook

A 29 anni, Johanne ha una memoria eccezionale e un olfatto molto sensibile. È incinta della sua prima figlia e tutto sarebbe perfetto se Hadrien, il futuro papà, non fosse un giovane uomo troppo immaturo per far fronte alle sue responsabilità. Hadrien se n'è andato.

È allora che entra nella vita di Johanne un misterioso personaggio. Lei vede attraverso i suoi occhi facendola entrare in una nuova realtà. Un viaggio che le permetterà di comprendere i più grandi misteri dell'esistenza e soprattutto, che nulla nella sua vita è frutto del caso. La sua bambina sembra essere diventata l’oggetto di una disputa olimpica.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita1 lug 2022
ISBN9781667414379
Origini: Origini, #1

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    Anteprima del libro

    Origini - Agnès Rabotin

    Origini

    Agnès Rabotin

    ––––––––

    Traduzione di Angela Lucia Turco - Alessandra Paganin 

    Origini

    Autore Agnès Rabotin

    Copyright © 2022 Agnès Rabotin

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Angela Lucia Turco - Alessandra Paganin

    Editor Alessandra Elisa Paganin

    Progetto di copertina © 2022 Lydie Wallon – 2LI

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Agnès Rabotin

    Origini

    Tomo 1:

    L’Ultimo Oracolo

    Della stessa autrice

    Origini, tomo 2: La prima pioggia (2017)

    Origini, tomo 1

    Autore Agnès Rabotin

    Copyright © 2021 Agnès Rabotin

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Angela Lucia Turco - Alessandra Paganin

    Editor Alessandra Elisa Paganin

    Progetto di copertina © 2021 Isabelle Pamart

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Il Codice della proprietà intellettuale vieta copie o riproduzioni per uso collettivo. Qualsiasi rappresentazione o riproduzione integrale o parziale effettuata con qualsiasi procedimento, senza il consenso dell’autore o dei suoi aventi causa, è illecita e costituisce una contraffazione ai sensi degli articoli L. 335-2 e seguenti del Codice della proprietà intellettuale.

    A Dorian

    A Theana

    A Eros

    Chiunque si accinga a eleggere se stesso a giudice del vero e della conoscenza naufraga sotto le risate degli dei poiché non sappiamo come stanno realmente le cose e conosciamo solo la rappresentazione che ne facciamo.

    Albert Einstein

    Prologo

    Non sono molto brava a raccontare storie e confesso di non aver mai fatto uno sforzo in questo senso. Quindi è la mia memoria che mi dirà cosa raccontarvi. Perché ho letto molto. Ah, sì. Leggere è sempre stato uno dei miei passatempi preferiti. Da bambina, dovevo chiudermi in camera mia, o addirittura in bagno per finire un capitolo, un paragrafo, o solo una frase, mentre mamma mi inseguiva per finire di pettinarmi, per mettermi le scarpe, per farmi andare a tavola... E nascondevo l’oggetto del delitto per poi riprenderlo quando ne avrei avuto la possibilità sfuggendo al controllo di mia madre. Ero costretta a fuggire perché non avevo il diritto di esagerare con la lettura. Caramelle, sì, visto che ero piuttosto golosa, a condizione di lavarmi i denti con cura. Ma leggere, no. Singolare, vero?

    Neanch’io sono una brava oratrice. Imparare tutto a memoria, ecco cosa mi riesce bene. Per questo motivo mia madre non mi permetteva più di accedere alla biblioteca del nostro salotto, abbastanza fornita di libri di letteratura di un certo spessore. Solo lei aveva la chiave. Mio padre non era un lettore e il mio fratellino seguiva le sue orme. Lo troverete molto curioso, ma non era per cattiveria che mia madre non mi lasciava placare la mia voglia di leggere. Al contrario. La ragione è molto semplice, e ve la rivelerò prima di iniziare il mio racconto. Ecco. E scusatemi, ma per favore non ridete. Non c’è nulla da ridere in tutto questo.

    Sono nata con un piccolo difetto di fabbricazione. Qualcuno direbbe con qualcosa in più. Alcuni nascono con una malformazione al corpo, altri con una malformazione al cuore. Ero una bambina magra e fragile, ma da allora mi sono ripresa bene, anche se non sono forte, come dice spesso mio padre. I primi problemi a livello celebrale si sono manifestati sin da quando ero piccola.

    Normalmente, il cervello umano può registrare circa un milione di bit, infinitamente più di qualsiasi computer. Ma a differenza di quest’ultimo, la memoria umana è selettiva: conserva solo le informazioni potenzialmente utili. Il mio neurologo, devo confessarvi che sono stata seguita fin dalla mia prima infanzia e capirete perché, molto presto, dice che nel mio caso, l’ippocampo, l’organo del cervello che dovrebbe trasmettere informazioni dalla memoria immediata alla memoria a lungo termine, non svolge la sua funzione di selezione. Invia tutto alla corteccia, che memorizza con zelo senza mettere in ordine queste informazioni.

    Sin da quando sono nata ho una memoria così potente che, anche se volessi, non potrei dimenticare nemmeno la più piccola informazione inviata al mio cervello. Immagini, suoni, odori... ricordo tutto. Ricordo ogni secondo della mia vita, degli ultimi mesi nella pancia di mia madre. Ho ancora il sapore del liquido amniotico in bocca solo evocando questo periodo. Ricordo persino l’ultimo odore che ho sentito quando sono arrivata al mondo. Perdonatemi se la testa mi gira ancora.

    Ma non mi perderò in chiacchiere. Non dimentico la ragione che mi ha portato a voi. Prendetevi del tempo per ascoltare la mia storia e capirete perché e come ho affrontato vari ostacoli per poi finalmente giungere a voi. Allora comprenderete certamente il senso della mia richiesta. Mi dilungherò un po’, scusatemi ma mi riesce difficile mettere ordine alle mie emozioni.

    Libro 1

    Il primo sintomo dell’amore vero

    in un ragazzo, è la timidezza;

    in una ragazza, è l’audacia.

    Victor Hugo

    ––––––––

    Parigi...

    Capitolo 1

    È cominciato tutto un 14 febbraio. Ha sbattuto la porta e mi sono spaventata. È entrato senza far rumore, sventolando un pezzo di carta come un trofeo. Ambiva al ruolo di Ippolito in Fedra per il festival ellenico da tanto tempo! I suoi occhi brillavano di gioia. Il festival avrebbe avuto luogo in tutta la Grecia durante i mesi di giugno e luglio. Naturalmente sapevo di cosa si trattasse. Ma dalla mia bocca semiaperta non è uscita una parola. Ho chiuso gli occhi.

    Ero incinta di quattro mesi, e il mio amore e io eravamo insieme da quattro mesi, ma condividevamo solo convenevoli e lenzuola fredde. Hadrien non accettava questo bambino. Non era pronto per quella vita.

    Il suo viso meravigliato si è spento all’improvviso.

    ― Cosa c’è che non va?

    Non ho risposto nulla; il mio broncio la diceva lunga. Mi guardavo i piedi, finché riuscivo ancora a vederli dietro la mia pancia arrotondata.

    ― Andiamo, so che sei mesi sono tanti. Ne abbiamo già parlato. Questa è la mia grande occasione.

    La fortuna della sua vita. Sì. Ho fatto un mezzo sorriso.

    Ha sospirato rumorosamente. Aveva cambiato umore. Ha gettato la carta sul tavolo prima di uscire dalla stanza borbottando qualcosa tra sé. Mi è sembrato di capire che stesse andando a fare una doccia.

    Ecco a cosa ci eravamo ridotti. Mi sarebbe piaciuto che avesse per nostro figlio la stessa passione che aveva per i suoi casting. Avremmo potuto conciliare tutto se solo fosse stato un po’ più maturo. Anche se, è così che l’ho conosciuto ed è così che l’ho amato per quasi tre anni. Questo bambino che desideravo, ma di cui non voleva sentir parlare per il momento, è stato l’inizio del nostro malinteso e la fine di una intensa relazione.

    La nostra storia era stata esplosiva, proprio come il nostro incontro. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, quel 15 giugno soleggiato, è stato come una rivelazione per lui e per me. Cupido aveva lanciato la sua freccia senza mancare il bersaglio. Appena ho incrociato lo sguardo di Hadrien, sapevo che era l’uomo della mia vita. Il termine usuale per questo tipo di cose non è forse amore a prima vista?

    Ho deciso di andargli incontro. Comunque, ho sempre fatto io il primo passo, un po’ come una madre con suo figlio. La nostra differenza d’età di cinque anni e la sua immaturità avrebbero inciso. Lo sanno tutti, vero? Un ragazzo di 24 anni è ancora un bambino.

    Era in bagno, in piedi davanti al lavandino, già a torso nudo, rigido, appoggiato sui pugni stretti, e si guardava allo specchio. Quando mi ha guardato, taciturno, ho sentito un nodo alla gola. Non era il momento di lasciare che i miei ormoni prendessero il sopravvento. La sua rigidità mi ha fatto rabbrividire.

    A volte gli capitava di avere questo sorprendente modo di stare fermo, come se fosse fatto di marmo, o perso in un altro mondo. Soprattutto quando rifletteva intensamente o era arrabbiato. Incuteva sempre un po’ paura, anche se mi ci ero abituata. In quei momenti, schioccavo le dita e lui tornava in sé. Ma in quella circostanza, non mi sono permessa.

    ― Penso che sia giusto quello che ti sta succedendo, ― ho detto sperando di tirarlo fuori dal suo torpore.

    Sembrava che avesse ricominciato a respirare. Ho notato i movimenti ampi del suo torace. Dopo alcuni secondi, interminabili secondi, si è riaddormentato e ha abbozzato un sorriso, come una statua in movimento. Si è voltato per guardarmi negli occhi.

    ― Ti ricordi, ― ha iniziato...

    Hadrien sapeva meglio di chiunque altro che nessun ricordo poteva sfuggirmi. Eppure, mi sono rilassata davanti al suo cambiamento di tono e soprattutto davanti alla lucina nei suoi occhi.

    ― Sì, certo che ti ricordi di quando ci siamo guardati per la primissima volta, ― ha proseguito.

    Rivedevo esattamente il posto, sentivo gli odori del roseto che ci circondava e l’erba appena tagliata dopo la pioggia. Era seduto su una grande pietra, una delle innumerevoli vestigia del parco Monceau, tutto preso da un foglio di carta e alzava la testa di tanto in tanto, rimanendo concentrato, fingendo di non vedere nulla intorno a lui. Avevo capito subito che stava imparando un testo e che stava faticando molto. Questo mi aveva rimandato indietro con la memoria. Quando andavo a scuola, mi bastava leggere un testo una sola volta e non dimenticavo neanche una virgola. Non avendo mai conosciuto le gioie dell’apprendimento propriamente detto, ammiravo la tenacia di questo ragazzo, il rigore che immobilizzava tutti i muscoli del suo viso. Aveva un cappello nero in testa e mi chiedevo come potessero essere i suoi capelli. Li immaginavo abbastanza lunghi tanto da poterci far scivolare le dita. Ero diventata viola. Mi aveva sorriso di nuovo, un po’ imbarazzato.

    ― Ero giovane. Non ero pronto a mettere su famiglia, o... cose del genere.

    Mi sono tuffata nei suoi occhi chiari. Era ancora così giovane. Ancora così... non pronto. Da dove aveva preso questo blu intenso dei suoi occhi? Questo strano blu oceano? Sua madre, metà della Charente e metà italiana, li aveva molto scuri, se ricordo bene. E non riuscivo a immaginare un greco, suo padre, con gli occhi azzurri.

    ― Me ne vado.

    ― Lo so.

    ― Domani.

    Ho sospirato. Sì, lo sapevo già.

    Improvvisamente, mi girava la testa. Un rumore, come un sussurro, una voce che parlava, mi ha fatto tremare. Non ho avuto il tempo di capire bene quello che avevo appena sentito.

    ― Cosa? ― ho detto, perplessa.

    ― Cosa? ― mi ha risposto aggrottando le sopracciglia.

    I mormorii ripresero. Ho chiuso gli occhi e improvvisamente delle immagini si sono mescolate a voci. Erano lievi, ma non riuscivo più a pensare, e capire dov’ero. Ho iniziato a perdere l’equilibrio e mi sono sentita afferrare dal davanti.

    ― Ehi, come stai? Johanne, come stai? Dai!

    Mi teneva dalla vita per accompagnarmi al divano. Non so in che stato fossi, ma Hadrien sembrava davvero preoccupato. I suoi occhi aspettavano una risposta. Ho ispirato profondamente.

    ― È curioso... è successo un paio di volte. Sento delle cose... Vedo delle immagini... Ma niente mi è familiare. È molto confuso e... per un attimo... non so più dove sono.

    Avevo l’affanno, non riuscivo a riprendere fiato e le parole uscivano ma senza suoni. Era vero. Ho avuto questo tipo di malore ogni giorno per una settimana. Da dove provenivano quelle immagini e quelle voci?

    ― Non me ne hai mai parlato.

    Sembrava quasi un interrogatorio. Non avevamo avuto modo di parlare molto nell’ultimo periodo. Come faceva ad avere già un bicchiere d’acqua in mano? Probabilmente avevo avuto qualche vuoto di memoria.

    ― Che tipo di immagini? ― ha ripreso.

    ― Cosa?

    ― Le immagini che vedi.

    Ho preso il bicchiere e bevuto un sorso d’acqua, il tempo di fare mente locale. Poi ho chiuso gli occhi per rivedere le immagini.

    ― Pietre.

    ― Pietre?

    ― Sì, credo... è molto luminoso, abbagliante... come se ci fosse un sacco di sole e non vedo molto se non... vecchie pietre bianche sparse... come marmo... e statue, anche... e poi donne... sento le loro risate.

    ― Uhm. Dovresti vedere il dottor Loconte, ― ha proposto senza aggiungere altro.

    ― Il mio neurologo? ― ho detto aprendo gli occhi. ― Perché, pensi che...

    ― Sì, forse ha a che fare con la tua memoria.

    Si è seduto sul divano accanto a me, scrollando le spalle.

    ― Non lo so... un troppopieno. Una volta mi hai detto scherzando che prima o poi ti esploderà la testa. Dopo tutto, il cervello non è estendibile all’infinito. Guarda, le tue emicranie, sono sicuramente legate a questo.

    Fissavo il pavimento, non sapendo che pensare. Naturalmente, dentro di me, sapevo che non era così lontano dalla verità. Queste terribili emicranie che mi relegavano nel buio e nel silenzio per ore, le avevo da quando ero bambina. Ci ero così abituata che sentivo anche quando stavano per arrivare. Non ci si può sbagliare: i rumori si amplificano, i contorni degli oggetti diventano sfocati, la visione periferica si restringe e l’aria diventa opprimente. Non riesco a concentrarmi per più di mezzo minuto su niente.

    Un piccolo colpo nella mia pancia mi ha tirato fuori dal mio torpore, ma ho fatto finta di non reagire. Non volevo che Hadrien si allontanasse da me. Avevo troppo bisogno di lui in quel momento.

    ― Senti, riposati, ― ha bisbigliato mentre mi infilava una ciocca di capelli dietro l’orecchio. ― Vado a farmi una doccia e andiamo a fare una passeggiata; non penserai più a niente.

    La sua voce era dolce e rassicurante, come volevo che fosse.

    ― No, resta con me! ― l’ho pregato bisbigliando.

    Mi ha guardata per qualche secondo e ho trovato nel suo sguardo una sensazione di pace che mi rassicurava tanto, il mio Hadrien di una volta. Mi ha aiutata a stendermi, ha preso la giacca per coprirmi e si è disteso accanto a me. Mi fissava, come se volesse mandarmi un messaggio, o forse, come se stesse cercando di decifrare quello che avevo in testa in quel momento. Forse entrambi. Sembrava imbarazzato quando ha cominciato ad accarezzarmi come faceva una volta... Eppure, nel suo sguardo, mi sentivo sempre a casa e potevo addormentarmi in pochi secondi. Sono sprofondata in un sonno profondo.

    Ci ho messo un po’ ad aprire gli occhi, ma non mi sono accorta che non era più vicino a me. Mi sono immobilizzata, smettendo di respirare per ascoltare; non c’era più alcun rumore in bagno. Senza dubbio era uscito a fare una corsa. Mi sono alzata faticosamente. Quando rimanevo sdraiata a lungo, la pancia mi tirava sempre un po’. Poi, ad un tratto, la mia testa ha cominciato a girare e voci e mormorii si sono susseguiti. Erano rumori di bicchieri che si scontravano e di persone che parlavano su un sottofondo musicale. Avrei detto arpa o qualcosa di simile. E sempre quelle risate femminili. Tutto questo mi ronzava nella testa, avevo un dolore lancinante, non sapevo più a cosa stessi pensando, cosa stessi vivendo, dove fossi e, con la testa tra le mani, ho chiuso gli occhi e mi sono rannicchiata, aspettando che la crisi passasse.

    Una piccola increspatura nel mio ventre mi ha ricordato dov’ero. La mia mano si è affrettata a rispondere mentre i miei occhi cercavano di aprirsi. La stanza mi è sembrata particolarmente luminosa. Non so esattamente quanto fosse durata questa crisi, forse qualche secondo o qualche minuto. Qualche ora? Un bel raggio di sole invernale era apparso sul pavimento del soggiorno, segno che era tardo pomeriggio. Ho dato uno sguardo al pendolo. Le 17:00. Ancora nessun segno di Hadrien. Ovviamente si era fatto la doccia, le sue cose erano sul pavimento del bagno e un forte odore di muschio era ancora nell’aria. Ho notato un piccolo pezzo di carta con una penna sul tavolo del soggiorno. Era un messaggio per me.

    Johanne,

    so che ti deluderò, ma non sono pronto. Ci ho provato in tutti i modi, ma non ci riesco. Domani parto per Atene.

    Ti amo.

    Hadrien

    La mano è rimasta lì, su quel foglio. Un immenso brivido mi ha invasa e pietrificata. Sotto choc, gli occhi continuavano a rileggere le linee goffamente scritte anche se ormai ogni sillaba era incisa a fuoco nella mia testa. La pancia ha iniziato a pulsare insieme al cuore, il freddo ha lasciato il posto al caldo, si è diffuso fino alla cima del mio cranio e il mio cervello si è disconnesso dal resto del corpo. Non c’era più niente intorno a me se non quel pezzo di carta scarabocchiato. Solo un grande vuoto.

    Poi le voci, le immagini si sono messe di nuovo a scorrere nella mia testa. Sempre quelle note musicali, le risate, il rumore dei vetri e dei piatti che tintinnano.

    Ho messo le mani sulle orecchie nella speranza che tutto finisse. Il vuoto.

    Poi ho sentito il suono stridulo di una sirena, come il suono della sirena dei pompieri che si avvicina, ma non avevo la forza di muovermi, né di aprire gli occhi.

    Non ci si ricorda di niente, e visto che

    ci si dimentica di tutto, niente è decisamente meglio di tutto

    Serge Gainsbourg,

    Estratto dalla canzone Le piccole cose

    ––––––––

    Parigi...

    Capitolo 2

    Le mie palpebre erano pesanti, ma con qualche battito di ciglia, sono riuscita finalmente ad aprire gli occhi. Non ho riconosciuto subito il posto. Rumori diffusi e regolari mi hanno riportata alla realtà e alla fine ho capito che si trattava di una stanza d’ospedale. Certamente l’ospedale della zona dove lavorava il mio neurologo. Era chiaro, pulito, moderno, con cornici alle pareti e tende alle finestre.

    Mamma era chinata su di me.

    ― Finalmente sei qui. Sei così bianca. Cos’è successo?

    Non ho avuto il tempo di raccogliere le idee per ricordare qualcosa. Ha continuato.

    ― Per fortuna sono passata... ho bussato, ma tu non hai risposto.

    Improvvisamente, mi è venuta in mente un’immagine. La carta scarabocchiata che avevo in mano. Mi sono guardata la mano, per verificare se fosse ancora così rigida. Mia madre, come spesso accadeva, lo aveva immaginato e si era già informata.

    ― Ho letto il messaggio che ti ha lasciato.

    Detto ciò, si è mordicchiata le labbra. I suoi occhi esprimevano un’evidente disapprovazione.

    Ho messo automaticamente la mano sulla pancia.

    ― Il tuo bambino sta bene. Ma dimmi. Non ti ha avvertita di quello che stava per fare? Il suo viso era diventato teso.

    Ho cercato di dissipare questa nebbia nella mia testa. La riflessione era difficile. Mi sentivo vuota, leggera. Più un mormorio, più un’immagine. Una sorta di vuoto che non avevo mai sperimentato. Comunque, non ero sicura di volerne parlare. Mi sono limitata a guardarla.

    Lei era castana e io ero bionda. I suoi occhi erano scuri, i miei erano chiari. Ma avevamo entrambe una faccia infantile, era questo che ci accomunava. Lei era un po’ rotonda e io molto magra, come mio padre. Amavo mio padre, ma non ero mai stata così vicino a lui come lo ero a mia madre. Era meglio ignorare la sua domanda, era più facile così.

    ― Papà...

    ― Ancora a lavoro. Verrà a trovarti nel tardo pomeriggio.

    Qualcuno ha bussato alla porta. È entrato un uomo affascinante, moro, con i capelli scompigliati. Roberto Loconte era il mio neurologo. Un medico italiano vicino ai quarant’anni che aveva per un po’ studiato in Francia. Non sapevo altro sul suo conto. Se non che aveva conservato l’accento e la pelle scura tipica del paese da cui proveniva.

    ― Buongiorno, signorina Johanne, finalmente sveglia! Ci ha fatto preoccupare... Come si sente?

    Ha sempre avuto una voce delicata, usava un tono confidenziale quando parlava.

    ― Uh... Bene. Buongiorno Dottore.

    Ho accompagnato la mia risposta con un movimento di testa per darmi più coraggio, ma non ero sicura di essere stata molto convincente. Ha guardato la mamma sorridendo educatamente. Ha capito immediatamente.

    ― Bene, vi lascio, devo fare delle commissioni. Verrò a trovarti domani, tesoro mio.

    Così, mi ha baciato teneramente, ha dato una stretta di mano al medico con uno sguardo che sembrava essere un accordo implicito tra loro e ha chiuso la porta dietro di sé dopo avermi fatto un ultimo cenno. Credo di poter dire senza esagerare che mamma abbia sempre sperato in segreto che io sposassi il mio medico.

    ― Gli piaci, credo, ― mi ripeteva spesso. Io pensavo che fosse più attratto dai ragazzi fino a quando non mi ha guardato in quel modo così esplicito.

    Il dottore si è girato verso di me, si è seduto sul bordo del letto e mi ha preso la mano. La sua era bollente...

    ― Ricordi cosa è successo? Tua madre ti ha trovata svenuta ieri pomeriggio.

    Ieri... pomeriggio? Ho aperto gli occhi nel panico. Ero rimasta incosciente per diverso tempo. All’improvviso ho pensato ad Hadrien che oggi avrebbe lasciato la Francia. Ho sentito un nodo in gola e avevo la vista annebbiata.

    ― Calmati, va tutto bene. E anche il tuo bambino sta bene.

    Ha stretto la mia mano con le sue dita lunghe e sottili. Avevo difficoltà a raccogliere le idee. Hadrien aveva scritto che partiva il giorno dopo. Ma dove aveva passato la notte?

    ― Johanne, sei svenuta. Tua madre ti ha trovata a casa da sola. Se non fosse venuta a casa tua... Cosa è successo? ― mi ha chiesto facendo una smorfia.

    ― Io...

    Ho alzato le spalle e ho guardato in basso. Non avevo intenzione di dirgli che ero appena stata scaricata dal padre del mio bambino.

    ― Non lo so, ― ho sussurrato.

    Sembrava incredulo, poi con tono un po’ divertito:

    ― Oh, allora sei veramente malata! ― ha detto portando la sua mano libera sulla mia fronte con un sorriso beffardo, rivelando i suoi piccoli denti buffi.

    Il dottor Loconte mi seguiva da cinque anni e mi conosceva bene. Aveva preso il posto del medico che mi aveva preso in carico quando ero piccola e per il quale era arrivato il momento di andare in pensione. I problemi legati alla mia memoria, il fatto che non riuscissi a dimenticare nulla, che il mio cervello non filtrasse alcuna informazione, lo affascinavano e aveva studiato bene l’argomento, perché non aveva mai sentito parlare di qualcuno come me prima. Gli avevo fatto da cavia per molti mesi, durante i quali mi aveva sottoposto a tutti i test possibili e immaginabili, nonostante i resoconti dettagliati lasciati dal suo collega nel mio dossier.

    È tornato serio e ha aggrottato le sopracciglia.

    ― Che giorno è oggi?

    ― Uh... Non so, ― ho detto con voce sorda. ― Hadrien parte sabato. Oggi è sabato, vero?

    Ha risposto solo con un’altra domanda:

    ― Pi greco è uguale a quanto?

    ― Ehm... 3,141 592 653 589...

    ― Ok, va bene, ― mi ha interrotta, mi ha rassicurata. ― Mi reciti qualche verso di Molière.

    ― Quale opera?

    ― Vediamo... La scuola delle mogli?

    ― Bene...

    ― Allora?

    Avevo la testa annebbiata. Non avevo mai provato questa sensazione nella vita. Mi stavo schiarendo la mente così tanto che mi si sono appannati gli occhi. Avevo in mente solo le immagini e i suoni che mi si erano presentati quando non mi sono sentita bene.

    ― Niente! ― ho gridato infastidita. ― Non ricordo più niente! E basta!

    Le lacrime mi bruciavano gli occhi. Che brutta situazione, umiliante.

    ― Non ti allarmare, magari non ti sei ancora ripresa del tutto. Ti lascio riposare e rivedremo tutto insieme un po’ più tardi, ok? Vuoi un farmaco che ti aiuti a dormire?

    ― No! ― ho detto all’improvviso, scioccata come se si trattasse di una proposta indecente.

    Non ha battuto ciglio, perché mi conosceva abbastanza bene da immaginare la risposta. L’ho sentito gemere profondamente mentre rimetterà a posto la mia mano. Poi si è alzato e ha dato un’occhiata veloce ai vari dati delle attrezzature a cui mi avevano collegato prima di uscire, con un sorriso e delle parole dolci che ho fatto finta di non sentire.

    Quando sono rimasta sola, mi sono infilata sotto le lenzuola e ho chiuso gli occhi. Da dove arrivavano tutti i disagi vissuti negli ultimi giorni? La teoria del troppopieno mi sembrava la più probabile, perché non potevo far finta che le mie violente emicranie non esistessero e mi dicevo che non doveva essere umanamente possibile elaborare quotidianamente così tante informazioni inutili nella testa. Avrei dato qualsiasi cosa per avere un cervello come tutti gli altri, anche se comunque, in diverse circostanze, mi era tornato utile. Ho fatto della mia capacità di memorizzare gli odori un mestiere e sono diventata quella che si chiama naso. Mi sono anche prefissa un obiettivo: riuscire a creare un profumo che facesse risaltare l’odore naturale della pelle.

    Eppure, contrariamente alle apparenze, c’erano due aspetti negativi. Il primo, queste emicranie sempre più frequenti. Mi isolavo nell’oscurità non solo per cercare di far passare questi dolori terribili, ma, negli ultimi tempi, anche quando tutto andava bene, per evitare qualsiasi tipo di stimolo in grado di sollecitare i miei sensi costantemente stimolati, per proteggere il mio cervello dalla sua avidità, per prevenire le crisi. So perché mia madre cercava di limitare le mie letture al massimo. Leggere è sempre stato il mio hobby preferito. Il punto è che comincio ad avere una libreria un po’ troppo importante nella mia bibliotesta. Il secondo: la difficoltà. Immaginate una vita in cui dovete limitare al massimo gli stimoli per evitare le emicranie e soprattutto per non imbottire maggiormente il vostro cervello di dati supplementari di cui non potrete più sbarazzarvi. Niente più radio o televisione, meno lettura possibile. A tal punto che quando mi si parla, rispondo sempre con una citazione. È fastidioso per me come per chi mi è accanto. Anche i sogni non scompaiono al mattino e a volte mi perseguitano durante il giorno. Gli incubi mi rendono aggressiva perché non riesco a liberarmene, a dimenticarli. Dimenticare. Che verbo divertente. È per me come una cosa dolce di cui sono l’unica a rimanere senza, un frutto proibito che immagino di fondere sulla lingua.

    Nonostante tutto il tempo trascorso nell’incoscienza più totale, avevo davvero voglia di dormire. Ho avvolto con le mani la pancia per rispondere ai piccoli movimenti che avvertivo. Avevo veramente bisogno di dormire.

    I sogni sono la cosa più dolce

    e forse la più vera nella vita.

    Charles Nodier

    ––––––––

    Parigi...

    Capitolo 3

    Ho sognato tanto. Soprattutto immagini... Stavo passeggiando per le strade di Atene, in un’altra epoca. Le persone intorno a me erano vestite con tuniche bianche e parlavano il greco antico.

    C’era molta gente per strada. Erano le Panatenee annuali. Oh, non le Grandi Panatenee che si svolgevano ogni quattro anni, no, solo i soliti festeggiamenti in onore della dea Atena, protettrice della Città. Nel mio sogno, ero così abituata a queste feste che ne conoscevo a memoria i rituali. La processione era partita della porta del Dipylon, nel quartiere della Ceramica, era passata attraverso l’Agora e, seguendo la via sacra, saliva verso l’Acropoli e qui si sarebbe fermata. Ogni anno si ripeteva lo stesso rituale. La sacerdotessa di Atena era lì che aspettava, è a lei che viene consegnato il peplo, un velo color zafferano ricamato da giovani, le Ergastinai. La statua crisoelefantina di Atena, che troneggia nel tempio dell’Eretteo, viene adornata con il peplo sacro. Si procede poi con due sanguinosi sacrifici sull’altare della dea, il secondo sacrificio, chiamato ecatombe, può arrivare a contare fino a cento buoi. Le carni dei manzi sono poi distribuite al popolo della città secondo regole ben precise di ripartizione. Poi hanno luogo i giochi e concorsi sull’Agora. I vincitori ricevono come premi delle anfore panatenaiche, anfore contenenti olio proveniente dagli olivi sacri di Atena.

    Fuori dalla folla c’era una giovane donna che, seduta su una roccia, si godeva lo spettacolo. La bella Atena, per passare inosservata, aveva deciso di indossare una semplice tunica ateniese piuttosto che gli abiti guerrieri, e per fare in modo che la sua bellezza e la sua grazia non destassero sospetti, aveva messo un velo sul volto. Non si stancava mai delle feste in suo onore da parte della gente della sua amata città e non le avrebbe perse per nulla al mondo. Le viveva profondamente come se la sua vita da dea dipendesse da loro. Anche se eravamo a grande distanza l’una dall’altra e separati da una folla rumorosa, i nostri sguardi si sono incrociati e abbiamo fatto un gesto complice con la mano. Io, queste feste, le trovavo inutili e noiose e mia cugina lo sapeva. (Nel mio sogno era evidente che era mia cugina.) Ho sospirato alzando gli occhi al cielo. Il sole splendeva, niente di anormale in pieno mese di luglio.

    Ho proseguito la mia passeggiata senza seguire la processione. La gente si girava quando passavo. Poi ho dato un’occhiata al mio abbigliamento. Avrò turbato più di una persona mentre camminavo tranquillamente intorno all’Acropoli della città in jeans e sneaker. In quel momento mi sono resa conto dell’assurdità della situazione e mi sono disconnessa da quel sogno.

    È con queste immagini a dir poco strane e insolite che mi sono svegliata. La cosa che più mi ha colpito è stata la precisione degli eventi, di quello che sapevo quando, in realtà, non avevo mai letto nulla sull’argomento. Un viaggio molto lontano in Grecia con i miei genitori aveva lasciato nella mia memoria le immagini precise di un Partenone in rovina con impalcature sparse un po’ dappertutto, dei residui di marmo bianco tra le reti per impedire alla gente di avvicinarsi. Nel mio sogno invece, era un monumento colorato e imponente, ornato con scudi e statue intatte che rappresentano gli dei, era così perfetto! E da dove mi è venuta l’idea della dea-cugina che assiste alle feste?

    Poco a poco consapevole della realtà che mi circondava, ho messo le mani sulle pancia, l’ho accarezzata, e la pancia si è mossa. Ho sorriso, ma era soprattutto un sorriso interiore, perché le mie labbra avevano a malapena la forza di muoversi. Le immagini del mio sogno erano ancora vive dietro le mie palpebre chiuse e sapevo che il modo migliore per tornare di nuovo alla realtà era aprirle. Ho fatto una leggera pressione sugli occhi per aiutarli a staccarsi.

    Mi sono messa seduta all’istante, mi sono spaventata. Quello che i miei occhi vedevano, non lo riconoscevano. Il mio sguardo è andato da sinistra a destra, lentamente, incredulo, come se stessi visitando un luogo per la prima volta. Ero in una grande stanza scarsamente illuminata da una piccola lampada. Ho sbattuto gli occhi, li ho sfregati ripetutamente, spalancati e poi strizzati. Era ancora un sogno? Forse non ero ancora sveglia. Ho appeso le mani alle lenzuola del letto d’ospedale, ma non vedevo quelle stesse lenzuola, lo stesso letto. Davanti a me, due mani, con i palmi ben aperti. Ma non erano le mie mani, perché le mie erano appese alle lenzuola come un salvagente. Erano grandi mani con dita sottili, avrei detto mani d’uomo, l’anulare sinistro con un anello dorato, e il destro con un anello che sfoggia una rosa che intreccia una E. La stanza ha cominciato a girare da sinistra a destra come se il mio sguardo la percorresse tutta, quando in realtà io non muovevo la testa, non riuscivo a controllare nulla. E quando i miei occhi si muovevano, potevo scorgere solo un piccolo angolo della stanza.

    Il posto era affascinante. Era come un grande salone aperto su altri saloni, come un lungo corridoio, chiaro, sobrio, tappezzato di libri. Un’immensa biblioteca con poltrone bianche e tavoli in vetro. Il soffitto era una volta i cui dipinti raffiguravano un cielo ed esseri simili ad angeli. O a dei. Non mi muovevo dal letto; la mia testa rimaneva immobile. Eppure, i miei occhi vedevano la stanza cambiare angolazione come se mi alzassi, e a un certo punto potevo vedere all’improvviso a 180 gradi, come se mi fossi girata bruscamente, poi le mie palpebre sbattevano senza che le chiudessi; delle mani, che non potevano essere mie, si portavano su degli occhi che non chiudevo, come se li strofinassi. Avrei voluto alzarmi, ma non riuscivo a muovermi, avevo paura di non sapere come fare, perché niente rispondeva ai miei occhi. Ero come cieca al mio mondo, ma aperta a un altro mondo.

    Ho visto la silhouette di una giovane donna. Leggeva mentre camminava, con molta grazia, eleganza e determinazione, senza fare alcun rumore. Era molto strano, come se il suono fosse stato tagliato e l’immagine rallentata. Era vestita con un abito bianco e morbido abbastanza corto e i suoi capelli castani erano un po’ raccolti, lasciando cadere lunghe ciocche ricce.

    ― Missy?

    Non ero stata io a parlare. Mi sono concentrata strizzando gli occhi e arricciando il naso.

    ― Missy, sei tu? ― aveva ripreso la voce.

    Era una voce maschile che risuonava nella mia testa. La voce non era molto grave, probabilmente quella di una persona giovane, e non era italiano; da quanto ho capito era greco. La giovane donna che mi era di fronte si fermò e si voltò verso di me con molta grazia.

    ― Oh, Eros! Credevo dormissi, mi dispiace se ti ho svegliato.

    La giovane donna parlava un greco demotico con un accento più antico. La sua voce era molto melodiosa.

    ― Missy,

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