Il calcio e la triade del ghepardo
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Anteprima del libro
Il calcio e la triade del ghepardo - Giambi Venturati
COSA C’ENTRA IL CALCIO CON LA TRIDE DEL GHEPARDO?
PROLOGO
Nell’antica Grecia, le tragedie erano precedute da un prologo: un monologo, o un dialogo, dove si esponeva l’antefatto e si anticipava il contenuto di ciò che si era in procinto di rappresentare.
Anche noi abbiamo deciso di dare a questo capitolo introduttivo il titolo di prologo, non tanto perché andremo a narrare una tragedia, quanto perché riteniamo utile, se non necessario, riportare alcuni antefatti che ci permetteranno di spiegare perché ci siamo trovati coinvolti nell’avventuroso viaggio della scrittura di questo libro.
Innanzitutto, va detto che i dati dell’Associazione Italiana Editori (AIE) riportano che nel 2022 in Italia erano stati pubblicati ben settantaseimilacinquecentosettantacinque libri, che complessivamente avevano venduto centododici milioni e seicentomila copie. Quindi, ci si potrebbe chiedere se ci fosse proprio bisogno di scrivere e pubblicare un altro libro. La domanda nasce spontanea anche perché il problema non è tanto quello del numero di libri pubblicati, ma piuttosto quello del numero di lettori, come si può dedurre dai dati ISTAT¹ che ci dicono che ad aver letto almeno un libro nel 2021, sia stato solo il 40.8% della popolazione italiana di età uguale o maggiore di 6 anni.
Difficile stabilire quando abbia iniziato a germogliare l’idea di questo libro. Possiamo solo dire che Giambattista (Giambi) Venturati ha ricevuto molte sollecitazioni in questo senso, che sono progressivamente aumentate fin da quando, più di dieci anni fa, aveva iniziato ad intervenire come relatore in vari corsi e serate per addetti ai lavori e non solo. Giambi è sempre stato in contatto con il prof. Roi fin dai tempi della sua frequenza all’ISEF della Lombardia e lo stesso Roi, che ben conosceva le pulsioni grafomani del suo ex allievo, più volte lo aveva sollecitato a sviluppare le sue attitudini di comunicatore in un testo scritto.
Ciò nonostante, Giambi aveva sempre rifiutato a causa del profondo rispetto nutrito verso la Cultura (scritta con la C maiuscola), che gli faceva pensare di non possedere la dignità sufficiente per essere annoverato tra gli autori di un testo autografo. In effetti, Giambi ha sempre orgogliosamente affermato di essere nato e cresciuto nella Pianura Padana, dove l’accezione etimologica della parola lavoro è comunemente associata alla fatica manuale e al sudore della fronte. Per questo motivo, suo padre non accettò mai di buon grado la sua scelta universitaria, anche se Giambi tentò più volte di spiegargli che i suoi strumenti di lavoro erano fischietto e cronometro e che lui, con quegli strumenti, di fatica e sudore ne faceva produrre agli altri!
Fatto sta che, ad un certo punto, fu lo stesso Giambi a trasformarsi da difensore che non ne vuol sapere di far passare l’idea di scrivere un libro, a contrattaccante che cerca un compagno di squadra a cui passare la palla per impostare un’azione sollecitata dall’avversario.
Riassumiamo questa lenta, ma inesorabile, trasformazione nel seguente dialogo tra il Roi e il Venturati:
Giambi, perché non scrivi un libro dove narri la tua esperienza?
Perché non è il mio mestiere, e soprattutto perché non ne sono degno.
Dai, provaci lo stesso. Hai tante cose da dire.
Ma non saprei neppure da dove cominciare.
Te lo dico io: comincia a buttar giù su un foglio bianco i temi di cui parli a lezione, e poi vediamo cosa ne esce.
Sì, potrei farlo, ma allora Lei, prof., mi darebbe una mano?
Se proprio devo. Ma con i miei tempi, perché sto andando in pensione.
Allora provo a scrivere l’indice degli argomenti che potrei, anzi potremmo, trattare.
Va bene, poi faremo dei ritiri come fanno le squadre, dove tenteremo di portare avanti il lavoro.
Questa sintetica chiacchierata si è svolta in vari momenti, in un arco di tempo di almeno un lustro. Comunque, a fine agosto 2022, si arrivò ad organizzare il primo ritiro presso l’hotel Waldsee di Fié allo Sciliar. Un luogo incantevole, gestito sapientemente dalla signora Judith Kritzinger, con la superba collaborazione dei figli e soprattutto del marito Hans Peter in cucina. Lì, grazie all’atmosfera familiare e ai contributi enogastronomici di Hans Peter, l’opera cominciò a prendere forma.
Si decise di iniziare con un po’ di storia degli autori, ed in particolare con l’evoluzione della carriera di Giambi a fare da filo conduttore, perché esclusivamente sviluppatasi nell’ambito del calcio. La sua crescita professionale, infatti, si deve soprattutto a Cesare Prandelli, il mister che gli ha dato autonomia tecnica e stima umana, poi divenuta affettiva. Come già aveva fatto il prof. Roi, Prandelli metteva in pratica la pedagogia basata sulla la maieutica, cioè sul metodo dialogico usato da Socrate, il famoso filosofo dell’antica Grecia. Secondo Platone, Socrate si comportava come una levatrice, che aiuta gli altri a partorire la verità e il metodo socratico consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte che spingevano l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma.
Immagine che contiene erba, persona, calzature, aria aperta Descrizione generata automaticamenteFigura 1. Giambi con Cesare Prandelli a Coverciano nel 2014 (Foto Claudio Villa).
Ovviamente, in questo libro non intendiamo disquisire sul concetto di verità, ambito che appartiene alla filosofia, ma qui desideriamo porre delle domande e proporre delle modalità che possano aiutare a trovare le risposte per interpretare la realtà in cui viviamo e così contribuire alla formazione di quanti amano lo sport ed in particolare alla formazione di persone migliori.
Però, anche qui abbiamo a che fare con la disciplina filosofica che si occupa di ciò che esiste, cioè dell’esistenza (ontologia) e delle sue relazioni con i concetti filosofici di essere e di verità. Il mondo dello sport è un esempio di come questi concetti siano spesso utilizzati a sproposito o senza averne compreso appieno il significato più profondo, per cui, riguardo alla verità, si può addirittura arrivare ad affermare che: "Nel calcio è vero tutto ed il contrario di tutto!".
Una delle modalità a cui faremo più volte riferimento in questo testo riguarda l’applicazione del metodo necessario per avere una conoscenza basata sulle evidenze scientifiche (epistemologia). Conoscenza assai spesso non sufficiente, ma che riteniamo necessaria per chi opera nel mondo dello sport al giorno d’oggi. Per questo, abbiamo voluto inserire numerose citazioni bibliografiche e riferimenti a siti internet a supporto di affermazioni o anche di opinioni personali, in modo che il lettore interessato abbia la possibilità di approfondire i concetti, consultando la fonte originaria dalla quale sono stati estratti o elaborati.
Tanto per cominciare, citiamo un interessante studio pubblicato nel 2018 su una importante rivista scientifica, dal quale risulta che il 42% degli allenatori basa il proprio lavoro su neuro-miti e su altre idee pseudoscientifiche (Bailey e Coll., 2018). Ciò, almeno in parte, sembra dipendere dall’eccessiva pressione dovuta alla necessità di successo immediato, che porta molti allenatori a ricercare ossessivamente nuove idee per migliorare le prestazioni, aumentando così la loro vulnerabilità verso le idee pseudoscientifiche (Collins e Bailey, 2013). In effetti, la disinformazione scientifica va di pari passo con il crescente atteggiamento antiscientifico che caratterizza la nostra società (Fuso, 2009) e non è un caso che il metodo scientifico sia inviso a ciarlatani e speculatori.
Ascoltando attentamente le interviste ai calciatori che i giornalisti amano fare in diretta, in molti casi ci si fa l’idea che l’intervistato non sia poi una persona molto intelligente. Ma è davvero così? Già nel 2006, l’allora medico del Chelsea, il dott. Bryan English² (Figura 2), nell’ambito di uno studio sulle problematiche neurologiche legate ai traumi cranici, aveva sottoposto i giocatori al test del quoziente di intelligenza (QI) e i risultati evidenziavano come alcuni giocatori avessero ottenuto valori ben al di sopra della media della popolazione. In particolare, considerando che il QI della popolazione normale è circa 110, Frank Lampard aveva fatto registrate un QI di 150, assai vicino a quello attribuito ad Albert Einstein (QI=160).
Figura 2. Giulio Sergio Roi, Bryan English e Matthew Buckthorpe al Wembley Stadium nel 2013 durante il Summit della XXII Conferenza su Riabilitazione Sportiva e Traumatologia organizzata dal Centro Studi Isokinetic in collaborazione con la Football Association e con FIFA F-Marc Football for Health (Foto Stefano Martelli).
Tuttavia, il QI non esplora le funzioni esecutive, che hanno notevole importanza in un contesto di gara sportiva qual è quello della partita di calcio, dove i giocatori devono elaborare una grande quantità di informazioni in breve tempo, spesso sotto pressione, ed essere in grado di adattarsi rapidamente alle varie situazioni che si modificano rapidamente. È stato dimostrato che i giocatori di alto livello sono in grado di attuare velocemente un processo decisionale creativo con un elevato grado di accuratezza (Vestberg e Coll., 2012), ed i giocatori professionisti hanno ottime capacità di apprendere il modo di elaborare scene complesse e dinamiche, distinguendosi in questo dagli atleti di livello inferiore (Fauber, 2013). Inoltre, coloro che giocano nelle Rappresentative Nazionali svedesi hanno evidenziato prestazioni significativamente migliori rispetto ai giocatori di livello inferiore in test che analizzano le funzioni esecutive visuo-spaziali complesse comprendenti la misurazione della flessibilità cognitiva e della creatività (Vestberg e Coll., 2020).
Queste caratteristiche possono essere comprese in quella che oggi è definita come intelligenza calcistica, della quale si parla molto sia per lo sviluppo dei settori giovanili, sia per l’analisi delle prestazioni di alto livello, come ha fatto la FIFA durante i mondiali in Qatar. In quell’occasione, venivano presentati ai telespettatori, in tempo reale, i risultati delle analisi condotte dal FIFA Training Center, sotto la guida di Arsène Wenger³. Si tratta di analisi longitudinali volte a fornire una nuova comprensione del gioco attraverso la raccolta di dati sulle prestazioni, esempi video e spiegazioni tecniche, per capire come il gioco si sta evolvendo nel tempo, ma anche per meglio comprendere cosa sarà necessario fare per passare dai livelli giovanili a quelli assoluti, sia nei settori maschili che in quelli femminili. Per questo, il ruolo dell’analista delle gare (match analyst) sta rapidamente evolvendosi dalla semplice raccolta dei dati relativi al carico esterno fatta con i GPS (Global Positioning System), per arrivare ad un’analisi più pertinente, capace di esplorare i contenuti tecnico-tattici del gioco e la loro evoluzione nel tempo, anche con l’aiuto di aziende specializzate nell’analisi dei dati con metodiche derivate dall’Intelligenza Artificiale (García-Aliaga e Coll., 2022).
Nonostante i rapidi progressi nell’analisi della prestazione a livello professionistico, resta ancora molto da fare per una moderna formazione dei giovani, ed in particolare di coloro che manifestano l’attitudine per il calcio. Questi fortunati
sono selezionati più o meno precocemente per entrare nelle accademie delle squadre professionistiche. Essi, con qualche rara eccezione, sono estrapolati dal loro contesto sociale per essere inseriti in comunità sostanzialmente chiuse⁴, focalizzate quasi unicamente verso il futuro impiego nelle squadre di alto livello, con scarsa attenzione all’apprendimento scolastico, alla cultura generale e al ruolo sociale che andranno a ricoprire. In pratica, iniziando ad allenarsi e a giocare molto giovani, non viene lasciato loro del tempo per l’educazione e soprattutto per la formazione come persone, e non solo come giocatori che potrebbero far guadagnare molti soldi a qualcuno. C’è da chiedersi se questo non faccia parte di un disegno concepito per mantenere uno status quo in cui in Europa solo il 13% dei calciatori ha conseguito un diploma di istruzione superiore, rispetto a circa il 53% della popolazione maschile, mentre in Italia il 70%