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Stilleven
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E-book646 pagine8 ore

Stilleven

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Info su questo ebook

Serge Emerald si trova sulla Luna. L’anno è il 2026, e insieme a lui c’è un’impalpabile creatura fatta di oscurità e chiamata Spettro. Insieme innescano quello che è l’atto finale di una storia iniziata anni prima, quando ancora erano sulla Terra e nella cittadina di Stilleven due uomini sperimentavano con le dimensioni. Ed è proprio a Stilleven che uno squarcio si apre nel cielo e da lì arrivano altre creature simili a Spettro: i Netere, nati nel Nulla e che lentamente proprio il Nulla porteranno sul pianeta. Quattro ragazzi – il solitario Neet, il timido Ciocci, il razionale Prank e la fantasiosa Nihil – cercheranno di arrestare quella che sembra una vera e propria fine del mondo, accompagnati da Naurava, un Netere sarcastico ma molto tenero. Un viaggio che parte sulla Terra e si snoda fin nei mondi paralleli che la circondano.
Nel suo romanzo d’esordio, Antonino Fiore racconta una storia di amicizia e di famiglie che si ricongiungono nei territori ai confini tra realtà e sogno.

 
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2024
ISBN9791281703032
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    Anteprima del libro

    Stilleven - Antonino Fiore

    StillevenLa fine del mondo #3

    © Antonino Fiore

    Collana e editing del volume a cura di Diletta Crudeli.

    Illustrazioni di copertina e interni realizzate da Gaia Carlesso.

    Progetto grafico di copertina a cura di Denis Pitter.

    Loghi della collana La fine del mondo realizzati

    da Cecilia Petrucci (Lonnie).

    Logo Moscabianca Edizioni realizzato da Veronica Carratello.

    Prima edizione marzo 2024.

    © 2022 Moscabianca Edizioni

    isbn 9791281703032

    www.moscabiancaedizioni.it

    info@moscabiancaedizioni.it

    Stilleven

    Sommario

    Ogni giorno è carnevale

    Prologo

    L’uomo che fulminò le stelle

    Il più tortuoso dei giochi

    Coloro che ereditarono la Terra

    Nuvole in cellophane. Atto I

    Il ragazzo dissociato. Cosmea sulfurea color d’arancia

    Il ragazzo ingombrante. Signor Armadillo! Grido il tuo nome

    La ragazza anonima. Contro la Terra

    Il ragazzo disilluso. Girandola della steppa

    Chi di noi sarà il folle? Atto II. Parte I

    Venerdì. Siamo - Cantiamo

    Sabato. Mai da soli

    Lunedì. Una volta avevo nove anni

    Mercoledì. Disperazione psichica di massa

    Giovedì. Innumerabili Saez

    Lunedì. La terra conosce

    Mercoledì. Un yoctosecondo accanto a te

    Giovedì. Boléro n. 7

    Venerdì. L’amore è una bomba al plutonio

    Biglie. Atto II. Intermezzo

    Biglia spezzata. La scelta dei nomi

    Biglia ricomposta. Dalla Terra

    Limonata spaziale. Atto II. Parte II

    Allegro (ma non troppo). Michael Collins

    Largo. Rondò blues

    Presto. Orologio anti-biologico

    Minuetto (vivace). Principio di non esplosione

    Nevralgia. Interludio

    I. Varco al principio dell’irrealtà

    II. Note sulla struttura del Tetra-bulk. Di Serge Emerald

    III. La stazione ai confini dell’Universo

    Camminiamo. Atto III

    Il ragazzo amichevole e il ragazzo giusto. Ventimila leghe in prospettiva

    L’Araldo Bianco. Risacca

    Il ragazzo della speranza. Potere

    L’Araldo Bianco. Marea

    La Guardiana. :)

    Insieme corriamo. Atto IV

    Eidosfera. Eone

    Materia. Case gialle

    Vi odio. Atto V

    Erebo. Fuori dal tempo

    Ultimo Labirinto. Storia di una battaglia

    Araldo e Cavaliere. Ultima difesa

    Fuori dal Labirinto. Il ragazzo che riportò le stelle

    Naurava. Epilogo

    Principio. Risata infinita

    Ringraziamenti

    Prontuario per la fine del mondo

    Il salmone keta ha abitudini pelagiche.

    Va sempre verso il mare.

    Credo sia una cosa molto importante.

    OGNI GIORNO È CARNEVALE

    PROLOGO

    L’uomo che fulminò le stelle

    Anno 2026

    Luna

    Serge Emerald fissava con gli occhi lucidi l’immensità delle stelle. Dall’alto della torre, seduto sul davanzale e poggiato alla colonna di una finestra bifora, contemplava il rosso Marte, il cosmo silenzioso, le costellazioni. Oltre la cupola protettiva c’era tutto il luccichio dello spazio profondo.

    Il suo cuore vagava, fantasticava. La mente assorta nella scienza.

    Carezzava la colonna, ogni movimento impresso di fatalità. Gli occhi perduti tra luci e comete. Era padrone di crateri immensi, della desolazione lunare, del niente. Ma non era solo.

    Accanto, impassibile, sedeva una creatura di un nero opaco. Un omuncolo sottile, affilato, con due corna della stessa sostanza della melassa: una densa oscurità simile all’olio. Poteva benissimo essere scambiato per un demone, un Imp di qualche racconto germanico, una silhouette. Gli arti erano simili a zampe di ragno, ma scorrevano lisci e luminosi, senza imperfezioni o peluria. A sua volta non mancava d’una certa dignità eroica, ma più rassegnata e disorientata. I suoi occhi erano persi nel vuoto, perché erano vuoto.

    Si chiamava Spettro.

    Ruppe il silenzio con voce intermittente, un rantolo: «Prima di andare devo chiederti qual è la cosa che più ti manca del tuo vecchio mondo. Che più ti manca in assoluto, intendo. Conosci le regole: sai che se menti sarò io a tornare a casa».

    Serge sospirò. Era a un passo soltanto dallo svelare l’ennesimo mistero della natura. Ma non poteva farlo senza prima rispondere a quella strana domanda. Con la sua voce pacata e le parole ben scandite accennò debolmente, evasivo: «Spettro, lo sai…»

    «No», lo interruppe. «Non credo di saperlo».

    I patti erano chiari.

    Doveva rispondere, ma come essere il più sincero possibile?

    Se c’era una cosa, che fosse una soltanto, di cui Serge sentiva davvero la mancanza, questa era la specialità culinaria di Stilleven.

    Considerando che cambiava di anno in anno e veniva decisa da una competizione pubblica, Serge aveva a sua disposizione una discreta varietà di pietanze differenti tra le quali poter scegliere: dalle ciambelle del signor Donato ai pasticcini alla ricotta di Anita. C’era persino il contributo di Nikolai, che non potendo pescare per via degli invalicabili limiti geografici della città presentava puntualmente una scatoletta di tonno. In quel modo aveva vinto la Ventitreesima Edizione, passata alla storia come una vera e propria baracconata. I giudici non avevano compreso la portata della sua protesta: avevano scambiato per ironia la serietà di un uomo ostinato e testardo, amante della pesca in una vallata con qualche rigagnolo e senza un fiume degno di tale nome.

    Portare il mare a Stilleven, che idea…

    Stilleven era una cittadina nel cuore d’Europa, in una vallata verde dimenticata tra le Alpi. Era un manipolo di edifici gestiti da scienziati, isolatisi in nome del progresso in una conca di dolci prati circondati da aspre rupi, conifere e picchi bruni. Il mare, lì, era semplicemente un’assurdità.

    Ma a pensarci bene, da quando era sulla Luna gli mancava proprio la vista del mare. Un mare vero, non come quella distesa di basalto e regolite, finto argento che alle volte prendeva la lucentezza nera dell’ossidiana. Aveva avuto il capriccio di isolarsi con Spettro nel Mare Ingenii, un’estesa pianura argillosa, in un impeto di megalomania. Ma quella terra inesplorata non era mica come se l’era figurata, brillante e mistica. Era una pietra. Una schifosissima, monotona roccia, con l’unico pregio di essere un punto ideale per le sue ricerche. Da lì – il lato oscuro – era impossibile scorgere il suo pianeta.

    Non poteva tornare a casa. Non più. Consolava il suo esilio con la certezza di possedere la chiave del cambiamento. Un cambiamento. Due cambiamenti. Secondo un detto, un cambiamento tira l’altro. La sua ricerca tra le stelle, dopotutto, sfidava l’idea stessa di materia, avrebbe cambiato la forma mentis del mondo intero.

    Aveva scoperto cosa c’era dietro l’universo, la filigrana su cui era stata pennellata la natura.

    Certo, Serge si riteneva ancora una persona umile. Non erano i complimenti, la stima, l’onore e la gloria ciò di cui sentiva la mancanza assoluta; forse gli mancava più in generale proprio l’ambiente comunitario di Stilleven: aperto di mentalità, amico, progressista. Era quella la risposta adatta, in fondo. La risposta adatta a tutto: alla domanda di Spettro (cosa gli mancava davvero?) e ai bisogni della Terra. Forse, gira e rigira, sgarbugliato il nodo, gli mancava quella cittadina ventosa, solare e allegra. Stilleven, la città degli scienziati, l’utopia della costante ricerca. E quelle montagne, quei papaveri che si estendevano infinitamente, lo stupido museo in cui portava suo figlio…

    E pensare che da lei aveva preso solo la scaltrezza, la vitalità.

    (Oh, Anita e i suoi pasticcini alla ricotta dolce…)

    Ma le lentiggini, le lentiggini! Quelle erano merito suo. E i capelli rossi, il pallidume, la mancanza totale – si fa per dire – di diottrie, l’atteggiamento da asociale dannato e piagnucoloso. Anche quelli, merito e colpa sua. Più ci pensava, più ricordava.

    «In assoluto, mio caro Spettro, mi manca mio figlio».

    Spettro ascoltò senza alcun accenno di movimento il fiume di parole che seguì.

    «Credo che gli piacerebbe stare quassù con noi, sai? Avrei tanto voluto portarlo a vedere i cervi giapponesi, o anche solo l’Orto Botanico di Parigi. Si era fissato con l’Alaska e il Canada, con Oslo, con altri posti freddi e orribili. Passava giornate intere a scarabocchiarmi gli atlanti, disegnava mammut su ogni foto di tundra. Credo che crescerà noioso, ma non si annoierà mai. E credo anche…» La voce scemò col perdersi dei ricordi.

    Pensare l’aveva allontanato da tutti, ma era l’unica cosa che sapesse fare.

    Spettro rifletté per un momento, poi si alzò e rientrò nella torre con passi dinoccolati. «Ti capisco, Serge. Basta così».

    A Serge bruciavano gli occhi. C’era in lui un dolore sconfinato, un senso di colpa avvolto in un inspiegabile alone beffardo. Con un sorriso amaro sul volto, tornò alla realtà e si diresse a sua volta nella torre. Le impalcature di cartongesso scricchiolarono sotto i suoi piedi. Nel freddo abbraccio di un circolo di mura tenebrose, il solo schermo luccicante di un computer reclamava le sue attenzioni. Serge si sgranchì le spalle e si scrocchiò le dita, pronto a rimettersi al lavoro. Quella torre doveva diventare qualcosa di più, doveva diventare uno strumento per sondare le dimensioni.

    La voce di Spettro lo colse ancora alla sprovvista, gli riecheggiò nella mente, così vicina e così lontana a un tempo. «Come concordato, sarò io il soggetto scatenante. Tu tornerai a casa. Mi spiace solo che ti tocchi fare il giro lungo. Smettila di guardare Marte, più lontano di così non possiamo andare. Da adesso in poi, dobbiamo soltanto scavare».

    Serge deglutì, la gola chiusa in una morsa. Avviò il computer centrale. «Giusto, Marte, un oceano di fesserie per uno come te», disse con fatica. «Al lavoro, allora. Non dimentichiamoci di inviare i dati a quell’altro fissato». Tormentò le maniche del suo abito. «Un’ultima cosa, Spettro. Grazie. Di tutto».

    «Sei un uomo di parola. Riportali a casa».

    Il più tortuoso dei giochi

    Anno 2022

    Stilleven

    «Non solo il più tortuoso, ma è anche il più antico! Non dimenticare».

    Arthur prese la valigia che il custode Jurek gli porgeva già da qualche secondo. Insieme si voltarono per ammirare, un’ultima volta, la grande Biblioteca di Stilleven.

    Un centinaio di metri quadri, tre piani connessi da scale a chiocciola e a pioli, scorrevoli, che si inerpicavano le une sulle altre e conducevano a stanze colme di libri abbandonati. Vere e proprie tane di carta. Ogni piano aveva le sue sezioni dedicate ai circoli culturali, le sue torri di scaffali in legno e tomi che profumavano di vecchio. E ovviamente poster, disegni a cera su cartoncini, volantini del cineforum disseminati lungo le pareti in cedro.

    Quel luogo aveva sopportato per mesi le isterie di Arthur, era stata la sua casa. Lì aveva fondato il Club di Backgammon (l’antico, il tortuoso gioco), lì aveva fatto sfoggio del suo istrionico gusto estetico e s’era rintanato nei giorni in cui la salute lo tormentava. Adesso tutto questo era finito.

    «Prenderai la bici?» chiese con allegro servilismo il buon Jurek, gli occhi lucidi che emanavano bontà e lo studiavano dal basso. In confronto al vecchio, Arthur sapeva di essere un gigante spilungone.

    «Non credo. Farò un po’ come tutti, a piedi. Vieni a trovarmi nella nuova sede, quando vorrai; concluderemo il nostro discorso».

    Jurek fece un cenno d’assenso. «Se capiterà l’occasione, volentieri! Ma vedi, per me potrebbe benissimo finire qui. Il mio cuore è dedito agli scacchi, all’ordine. Non nego che un tempo avrei lasciato volentieri il posto a una seconda passione, qualcosa che includesse il lancio dei dadi e il caso, come il backgammon. Ma adesso, ebbene, la mia seconda passione è la morte». Rise con sforzo fisico e allo stesso tempo con una vegliarda naturalezza e una nuova sfumatura in quello sguardo docile, quasi di scherno.

    Arthur non si sentì a disagio per quell’uscita così mesta, ormai lo conosceva. Sorrise; non un sorriso di cortesia, ma di vivo affetto. «Devo dire che mi mancherai. Salutami tutti».

    Tutta la famiglia di Jurek scorrazzava lì intorno. Aveva incrociato il figlio Nikolai del Circolo di Pesca, ma non aveva visto il nipote.

    «Promesso. Tu invece ricorda che Stilleven non è grande. Capisci ciò che voglio dire, Arthur? Non sei un gioco da tavolo: dovrai pur uscire da quelle mura. Perché non vieni a trovarmi tu, piuttosto, di tanto in tanto? Il Club di Scacchi fa passi da gigante, adesso conta ben cinque iscritti! Potrebbe divertirti! Come vedi, ci servirebbe giusto un giocatore in più». Gli fece un occhiolino, debolmente, restando a bocca aperta nell’attesa di una risposta scherzosa o qualche tipo di confidenza.

    Arthur gli diede una pacca sulla spalla, ripetendo con garbo prima di congedarsi: «Salutami tutti». Stava per andarsene quando tentennò e oscillò sul posto, poi chiese con aria un po’ esitante: «Per curiosità, qual è davvero la tua seconda passione?»

    Jurek rispose senza pensarci: «Melinda!» Il suo viso sembrava quello di un bambino in preda alla sua prima cotta, infantilmente gioioso. «E ti assicuro, mia moglie è più pericolosa della morte stessa!»

    Arthur si sentì un po’ vecchio nell’assecondarlo, ma rise. Salutò con un gesto veloce del capo e si allontanò verso la costruzione che da un anno troneggiava con le sue impalcature sulla cittadina, capace di mimetizzarsi durante la notte con lo sfondo montano.

    Una torre piramidale, nera e rossa. Una costruzione partorita dalla mente di un pazzo escapista, doveva riconoscerlo.

    La sua Torre del Backgammon.

    Quando cominciò a piovigginare, Arthur stava ancora percorrendo le larghe vie alberate che si allontanavano dalla Biblioteca. Raccolse i capelli in un codino e difese la valigia sotto lo spolverino nero. Inspirò profondamente per cogliere l’odore di una primavera alle porte. L’aria pungente ma pulita gli dava energia. Stilleven era al suo meglio: i fiori una distesa senza fine, gli aceri un esercito, gli animali nel pieno della forza. Le vie ospitavano solo raramente il passaggio di bici o vetture di servizio. Oltre la muraglia in legno alta tre metri che confinava le strutture civiche, i mulini e le pale eoliche coesistevano in un’armonia fuori dall’ordinario.

    Situata sul versante nord-occidentale della vallata, Stilleven sembrava un paradiso circondato da catene montuose. Una città nata per accogliere sapienti, eremiti, folli. Una sola via, usata per i rifornimenti, la collegava al resto d’Europa. Quella sola via collegava il mondo alla vera civiltà, a un’utopia scientifica fatta di servizi essenziali, autarchia e una passione smodata per il progresso.

    Arthur aveva scelto di unirsi alle altre duemila anime di Stilleven, ma al contrario di quelle non era un sognatore altrettanto ingenuo. Sapeva che crescere in un paesino del genere poteva ossessionare, che quella pace nutriva la noia. Dopotutto, Stilleven sopravviveva solo sfornando brevetti al servizio di una multinazionale; tutti gli idealismi e le ricerche per l’ambiente e il perfezionamento umano venivano dopo i desideri degli Henker, che con la loro ricchezza facevano il buono e il cattivo tempo, davano scadenze e imponevano condizioni, ammantandosi di una filantropia di facciata.

    In realtà, più che un paradiso, Stilleven era la prigione dei ricercatori disillusi.

    Nessuno se ne rendeva conto in un primo momento, ma le abitazioni erano una persecuzione, tutte simili le une con le altre. Sapevano di omologazione, di inganno. Avevano colori caldi, prevalentemente sul giallo ocra, e in schiera erano un pugno in un occhio.

    Nei suoi piani, oltre alla pace a lungo cercata, qui Arthur avrebbe ottenuto la tranquillità e tutti i mezzi tecnologici necessari ai suoi progetti di ricerca. Trovò invece molto di più: i mezzi per realizzare la sua Torre e porsi al di sopra di tutto.

    L’acqua cadeva leggera sfumando gli oggetti. Le panchine diventavano disegni indefiniti e grigi, prima di delinearsi all’avvicinarsi dello sguardo.

    Arthur non poteva più nulla per salvare i propri abiti (non che se ne preoccupasse particolarmente). Come un giunco sbattuto qua e là percorreva la via in direzione della nuova sede del Club di Backgammon. Al levarsi del vento, gli alberelli indistinti del viale gli ricordarono le danzatrici dei quadri ottocenteschi, coi loro tutù svolazzanti e rigonfi.

    Zuppo, Arthur aumentò il passo. La patina atmosferica accorciava l’orizzonte e lo nascondeva, come se il cielo si fosse incollato sulla Terra

    Al suono di una campanella, piccole figure avvolte in impermeabili colorati si riversarono in corsa sulle strade. Alcune proseguirono nella sua direzione, spintonando o aggirandolo pur di arrivare per prime all’emporio di dolciumi del signor Adlai. Altre presero per il parco con lo scivolo a elefante indiano, verso le abitazioni a schiera.

    Una piccoletta goffa e con occhiali a fondo di bottiglia, separatasi da un gruppo di bambini in giallo, si tolse lo stivaletto destro saltellando su di un unico piede. Roteò su sé stessa per mantenere l’equilibrio e scacciò l’acqua dal calzare, vittoriosa, prima di indossarlo di nuovo. Aveva le guance gonfie di determinazione perché presto avrebbe dovuto lanciarsi a forza contro le pozzanghere.

    Arthur rallentò sovrappensiero, talmente perso nell’allegria generale da non accorgersi dell’uomo alle sue spalle:

    «Da una tana all’altra».

    Trasalì. Ma aveva già la risposta pronta: «Sei la seconda persona che vede nel mio Club qualcosa di tetro».

    «Perché è così. Non c’è altro modo per definire una piramide nel mezzo della città. Senti…» continuò l’altro con un tono tra l’imbarazzato e l’invadente. «Posso venire a trovarti, domani?»

    Arthur, con un cenno d’assenso: «Logico. Perché non più tardi? È già tutto pronto».

    «Non posso». L’uomo diede un buffetto sulla nuca del bambino che gli stava al fianco, coperto da un impermeabile verde acqua. Tornavano da scuola. «Ho promesso a questa peste una bella maratona!»

    Arthur s’avvide solo allora del piccoletto imbronciato al seguito del padre; di circa sette anni, con le braccia conserte per l’impazienza, la lingua di fuori a captare goccioline. Un buffoncello, ma a guardare bene quanto somigliasse al padre, si trattava di due buffoncelli dai capelli rossi.

    «Una maratona? Mica ti sarai dato allo sport?»

    «Una maratona di film!» sbottò il piccoletto, che per la foga della risposta si morse la lingua e strinse le labbra in una smorfia di dolore.

    «Una maratona di film…» ripeté il padre, e sospirò con accondiscendenza, consapevole di aver commesso un gravissimo errore. «Bene, a domani allora. Ci vediamo, Arthur».

    Arthur ricordò i giorni dell’università, il loro primo approccio alla fisica prima che questa perdesse di senso. Si chiese quanti altri errori avrebbero potuto compiere insieme.

    «A domani, Serge. Ti aspetto».

    Coloro che ereditarono la Terra

    Anno 2026, piena estate

    Quattro bambini siedono sulla balconata legnosa di un mulino a vento dimenticato, dietro un parapetto sul punto di crollare. Ignorano le luci del piccolo paesino incatenato tra le montagne, sul lato opposto; le ignorano perché preferiscono invece le lucciole, le lanternine a olio che hanno portato con sé, i limiti della Via Lattea. Siedono e guardano in alto, a loro volta scrutati dalle stelle.

    Di tutti gli eventi curiosi accaduti a Stilleven negli ultimi quattro anni, l’essere trattati da piccoli adulti era il più mortificante. Li faceva sentire liberi, ma ignorati. I loro genitori si fidavano di quella vallata e del loro giudizio tanto da lasciarli scorrazzare liberamente oltre il confine, sicuri di vivere nella regione più idilliaca della Terra.

    Così, a cinque metri e mezzo dall’erba sottile e umida, dopo essersi arrampicati, simili a scimmie, su per delle scalette marcite, avevano scelto il luogo del loro bivacco. Erano lontani dalla furia festosa che si consumava nella cittadina, dove si celebrava il quarto anniversario della nascita di quel Club che tanto aveva trascinato la comunità, mutandola radicalmente. Un cambiamento tira l’altro, si dice.

    Le pale del torrione dall’aspetto olandese, come leggerissime, si agitavano ritmicamente azionando l’inutile meccanismo sottostante. Intanto il Bambino Ingombrante prendeva posizione contro la parete di pietre squadrate, sistemava pacchetti di cibo spazzatura intorno a sé, così che gli altri potessero servirsi con facilità. Stava al centro, gambe incrociate. Alla sua destra il Bambino Dissociato aveva le gambe accavallate e fissava le zanzare che gironzolavano – facendo dei veri e propri raid – intorno alle lucerne, protette da un vetro opaco. Le stava sistemando il Bambino Disilluso, che si aiutava con dei paletti per conficcarle tra le fessure del pianerottolo ad anello che cingeva la struttura. La Bambina Anonima glieli disordinava, per irritare sia Disilluso che Dissociato, e scombinava il moto delle zanzare, che si nascondevano temendo un pericolo.

    Quando Disilluso mostrò finalmente un po’ di stizza, perché aveva voglia di sistemarsi con gli altri per osservare la vallata e di farsi abbracciare dal sacco a pelo per cedere al suo torpore, Anonima rispose con pedanteria, con i piedi che ciondolavano oltre la balconata e il sangue che scorreva pesante: «Lo faccio per le zanzare. Non sapete che una qualsiasi di loro potrebbe essere il vero centro del nostro universo? Se schiacciata, sarebbe come spegnere un interruttore, e la nostra dimensione collasserebbe».

    Disilluso non capiva perché avrebbe dovuto salvare la galassia e tutto il resto. «Ma che dici!»

    Dissociato, sorridendo, aveva già spostato la sua attenzione verso una mantide religiosa, giunta lassù – come loro – per incoscienza.

    Erano bambini intelligenti: dopotutto non poteva essere altrimenti con i genitori che si ritrovavano, nell’ambiente in cui erano cresciuti. Eppure, solo Ingombrante pensò che per nessun motivo avrebbe mai ucciso una zanzara, che pur considerava il predatore naturale dell’essere umano. Malgrado ciò, ironia della sorte, si diede uno schiaffo sulla guanciotta, colto da uno strano prurito.

    Anonima trattenne il fiato e con aria di rimprovero fissò Ingombrante e le sue gote già arrossate; Disilluso – imbacuccato come una mummia dentro il sacco a pelo – rise per la scena, mentre Dissociato, che aveva spostato ancora una volta i suoi occhi, indicò il firmamento notturno, guidando l’attenzione degli altri.

    Le stelle, una dopo l’altra, cominciarono a spegnersi.

    In quel momento erano i bambini più felici del mondo.

    NUVOLE IN CELLOPHANE

    ATTO I

    Prank: (s.) Dall’inglese.

    1. Scherzo, burla, beffa.

    Ciocci: (s.) Nomignolo.

    1. Pacioccone.

    Nihil: (pr. ind.) Dal latino.

    1. Niente, nulla.

    2. Senza valore.

    Neet: (s.) Acronimo inglese.

    1. Neither in Employment or in Education or Training.

    2. Di giovane non impegnato in nessuna attività produttiva.

    Il ragazzo dissociato

    Cosmea sulfurea color d’arancia

    Anno 2028

    18 maggio

    Prank piangeva.

    Le lentiggini inumidite risaltavano alla luce soffusa della lava-lamp sul comodino. Accanto, una piccola abat-jour giallina illuminava i poster sulla parete. I Lego e i dinosauri giocattolo che stentava ad abbandonare erano in ordine su una lucida mensola in legno di noce, insieme ai volumi di fantascienza e alla collezione di Starcraft ii. Molti altri libri, pieni di immagini in alta qualità di geologia e cinematografia, erano sparsi alla rinfusa sul parquet di faggio.

    La gola sussultava trattenendo i singhiozzi.

    Da sei anni la madre gli faceva il solito scherzo: un regalo, posto strategicamente sopra il letto rifatto, dalle lenzuola azzurrine profumate di vaniglia.

    Accanto al fiocco lasciava un biglietto firmato Papà.

    Prank aveva appena compiuto quattordici anni e aveva deciso di chiudere per sempre con quella farsa. Per i primi due anni da quando suo padre era scomparso ci aveva creduto genuinamente, ingannato da una forma di speranza infantile. Adesso, pur riconoscendo i buoni sentimenti che guidavano il gesto della madre, non credeva né rispettoso né necessario reggere il gioco.

    Ciò che lo infastidiva maggiormente era quanto il regalo fosse fatalmente azzeccato. Vedeva il suo tocco nel modo in cui tutto era impacchettato con fretta sgraziata. Tutto gli urlava di credere a quel miracolo: il pensiero costante da parte di un padre finito chissà dove.

    Prank piangeva ancora quando sfilò il fiocco dalla scatola. Si sedette sul bordo del materasso e meditò sul perché di quella videocamera. Sì, se papà fosse stato lì avrebbe scelto proprio quel modello: analogico, voluminoso, a suo modo raffinato.

    Se per una volta sua madre avesse evitato di azzeccare il regalo, avrebbe reso tutto molto più semplice. Prank avrebbe potuto mostrarle l’arma del delitto con la sicurezza di un detective.

    Così, immerso in una calda penombra, fissava il regalo col cuore in tumulto. Si concesse un sospiro e si asciugò le guance con la manica destra.

    Fece un enorme sforzo di volontà per mettersi in piedi; sistemò la propria espressione specchiandosi sul vetro dell’orologio digitale: ore 21:28. Il quadrante rifletteva gli occhi arrossati e le labbra ancora tremanti.

    Fece delle prove parlando tra sé e sé, aprendo e chiudendo nevroticamente il piccolo scompartimento per le videocassette.

    «Mamma, guarda cos’ho trovato». Tentennò. «No, meglio arrabbiato: Non ci posso credere, manca anche questa volta la provenienza». Meditò per un po’ sopra questa possibilità, poi la scartò. «Signora Anita: ancora una volta, un regalo da monsignor papà». Borbottò: «Troppo asciutta». Prank rise al suono stupido della sua voce, e nella solitudine della stanza si asciugò gli occhi con un movimento deciso dell’indice, così da ravvivarsi lo sguardo.

    Si avvicinò alla finestra e guardò il cielo privo di stelle. Non le si vedeva da due anni. C’era giusto un puntino lucente, un satellite artificiale che vagava solitario.

    «Prank evita la vita. Scena Prima, ciak». Alzò il volume della voce: «Mamma, sto uscendo!»

    «Cosa?!» Una risposta dal piano di sotto.

    «… Dalla finestra!» Specificò il ragazzo, poi fece spallucce e uscì con un secco: «Buona la prima».

    Mentre scivolava con l’aiuto del tubo di scolo della grondaia, come nei suoi amati film d’avventura, sentì sua madre salire le scale a rotta di collo. Quando lei aprì la porta della camera con la forza di mille rinoceronti, Prank d’istinto guardò su. Il satellite-stella rientrò allora nel suo campo visivo. Una distrazione fatale: Prank perse la presa, si fece gli ultimi tre metri in volo e piombò sul morbido prato inglese.

    Sette metri più in alto, Anita si affacciò dalla finestra.

    Era appallottolato intorno al suo nuovo regalo, per proteggerlo, con le ginocchia sbucciate e l’aria imbelle.

    Nel tempo che lei sparì per fiondarsi fuori e forse rifilargli una sana ramanzina, cominciò a riprendere il cielo con la videocamera.

    «Ti perdo di vista un secondo e sei già con la testa fra le nuvole». Sua madre non ebbe cuore di sgridarlo. Gli si sedette accanto, controllando tacitamente che stesse bene. «Ora capisco perché ti hanno dato quello strano soprannome. Non farmi più di questi scherzetti».

    Si sistemò gli occhiali con un tocco delle dita – la facevano sembrare giovanissima – tra i capelli corti e ramati. Erano una famiglia di occhialuti, ma a lui e suo padre davano l’aria di persone distratte.

    «Dove volevi andare?» gli chiese.

    «Se mi fossi rotto una gamba adesso starei urlando, vero?»

    «Penso proprio di sì, e io ti avrei rotto l’altra». Lo guardava con l’angolo degli occhi e nascondeva un sorrisino tra le braccia intrecciate intorno alle ginocchia. Portava un prendisole bianco perla che risaltava in quel buio innaturale rinfrancato solo dalla Luna, dal verde del prato e da qualche lampioncino al neon.

    Prank provò a chiudere il discorso. «Allora ho sbattuto la testa e non ricordo, mi spiace».

    Stettero in silenzio per un po’, quand’ecco che lei gli scosse dolcemente le spalle. Si udiva l’annaffiatoio automatico del vicino, un gatto faceva ciondolare la coda dalla staccionata, alcuni lampioni sfarfallavano assaltati dagli insetti.

    «Dove volevi andare?» chiese ancora Anita.

    Prank strinse le labbra in segno di capriccio, poi si ricordò che tra meno di tre ore sarebbe finito il suo primo giorno da quattordicenne. Doveva concluderlo da adulto.

    «In sala giochi».

    Anita, con velocità metodica, spostò alcune sedie dalla sala da pranzo per creare spazio. Ne lasciò giusto una dall’aspetto robusto e artigianale, oltre allo sgabellino ergonomico su cui si accomodò per medicare il figlio. Prank, imbronciato, si era seduto e aveva arrotolato su i pantaloni. Digrignava i denti ogni qual volta il cotone idrofilo bagnato d’acqua ossigenata veniva pressato sulle ginocchia escoriate.

    «Mi spieghi come diavolo hai fatto a sbucciartele se sei caduto di schiena?» gli chiese sua madre.

    «Tubo. Muro. Contatto», rispose lui, sbrigativo. Adocchiava la videocamera, lasciata sul tavolo rotondo, accanto al canestro della frutta.

    Lei seguì il suo sguardo, prese un lungo respiro, poi disse dubbiosa: «Non capisco una cosa…»

    Prank, saccente, assecondò la discussione: «Perché sono uscito dalla finestra e per giunta avvisandoti?»

    Lei rise, una risata delicata dal retrogusto furioso. «Eh no, questa è facile: hai capito troppo tardi che non ti avrei mai dato il permesso, ma ormai mi avevi detto che volevi uscire». Infierì su una ferita in particolare, rimuovendo sadicamente il terriccio con un bastoncino di ovatta. «Più che altro, da dove è uscita quella cinepresa?»

    Prank si sciolse un po’, ma senza sbilanciarsi. «Si chiama videocamera, le cineprese sono quelle con le pellicole».

    Gli occhioni lucidi e grandi di sua madre lo scrutavano con insistenza dal retro delle lenti ovali, in cerca di una risposta. Più che far caso all’apprensione, Prank notava una continua, graduale, crescente pressione sulla ferita, dovuta allo stringersi – eccessivo e volontario – del bendaggio. Era una sfida silente, di resistenza e ostinazione.

    Le gambe gli tremavano per il dolore; le sbucciature non erano gravi ma bruciavano. Dalla madre arrivava un sorriso di sfida. A un osservatore esterno, quella sorta di tortura poteva sembrare un po’ infantile, o cattiva educazione, ma non c’era dubbio che la medicazione fosse perfetta.

    «Non mi hai risposto…» disse Anita con un’occhiata severa.

    Prank cedette. «Che me lo domandi a fare? Non l’hai comprata tu?»

    «Cosa?»

    Si guardarono per qualche secondo, in silenzio.

    Prank lesse oltre quello sguardo di finta sorpresa. «Era nel regalo firmato da papà, quindi tuo». Sua madre non si aspettava che sarebbe stato in grado di rigirarle contro la domanda?

    «Se diceva Papà, allora fino a prova contraria non sono io», ribatté lei con la voce interrotta da una risata, e finalmente allentò la benda.

    Prank fece molleggiare le gambe per ostacolarla.

    «Stai fermo, o faccio un macello e ci rimetti tu!» E intanto con le forbici diede un’ultima sistemata alla fasciatura, dopodiché tirò giù i lembi dei pantaloni sporchi di terriccio. «Sei uno scellerato».

    Prank attese silenzioso qualcosa, qualsiasi cosa, mentre Anita riportava le sedie al loro legittimo posto e dava una parvenza di civiltà alla sala da pranzo.

    Con una calma insostenibile, i secondi passavano, e il ragazzo si sentì preso in giro.

    «Mamma!» esordì categorico, includendo in quella semplice parola domande e certezze. «Rispondimi. Per favore».

    Lei sospirò, incrociò le braccia e si appoggiò al muro vicino al davanzale. Lo sguardo perforava il vetro, si perdeva nel roteare monotono degli innaffiatoi dei vicini. Finalmente, dopo un altro sospiro, accennò una spiegazione: «Gli avevo detto di smettere, quattro anni fa». Accennò un sorriso imbarazzato: «Gli avevo detto che peggiorava tutto, che capivi che qualcosa non andava, che io stessa non ero d’accordo. Ma lui dice che è una promessa, fatta a Serge prima che ci lasciasse».

    Prank odiava quando lo chiamava Serge: un papà lo si chiama papà. Non riuscì più a muoversi, come fosse stato punto da qualche strana scolopendra velenosa. «Una promessa? Di chi parli?»

    «Di Arthur».

    Prank non capiva, balbettò qualcosa di sconnesso; lei si sedette di nuovo sullo sgabello, allegra in apparenza, nel vano tentativo di alleggerire la tensione. «È l’ultima persona che ha visto Serge. Dice che deve spedirteli da parte sua, che gliel’ha promesso…» Sospirò. «È l’uomo che da quando sono scomparse le stelle conosci come Gammon».

    Gammon? Quel matto della torre? «Quindi non…» Prank accatastò a fatica le parole. «Ma sarebbe comunque possibile, insomma, che siano davvero…»

    Sua madre gli bloccò sul nascere i nuovi castelli di fantasie. «No. Sono regali di Arthur. Penso che Serge gli abbia detto qualcosa, prima di andarsene. Qualcosa che tuo padre avrebbe fatto meglio a confidare a me…» Gli arruffò i capelli più di quanto già non fossero. «E se posso perdonarlo io per questo, puoi anche tu. È passato tanto tempo… Al momento la cosa più importante è che tu e i tuoi amici stiate lontani da Torre Backgammon. Non è più tranquillo come una volta, non potete passare la nottata fuori».

    Prank fece un cenno d’assenso e la rincuorò con un sorriso, ma era pieno di dubbi. Dopo la sorpresa iniziale, si sentì stranamente calmo: con il passare del tempo l’abitudine aveva preso il posto dell’angoscia e della mancanza. Ma al contrario di sua madre aveva un mondo di speranze dentro, era certo che avrebbe rivisto suo padre.

    «Goditi il regalo, d’accordo?» si raccomandò lei, poi gli diede un bacio schioccante sulla guancia e lui si strofinò con finto ma vistoso ribrezzo.

    «Posso provare qualche ripresa notturna, finché non ho sonno?»

    «Certo. Sei un ometto adesso. Ma tieni d’occhio l’orologio, dovrai imparare a essere più responsabile. Io a quattordici anni ero già laureata».

    «Bugia! E la sala giochi?»

    «Non ti allargare. Ci vai domani».

    Seguì il satellite con gli occhi persi nel mirino ottico della videocamera, impugnata come un telescopio. Doveva essere particolarmente nervoso, perché persino il cielo gli sembrava strano: era come se dietro il satellite qualcosa pulsasse, qualcosa che si stava svegliando. I pensieri vagarono a tal punto che ben presto si ritrovò a riprendere la torre piramidale, nera e minacciosa. Si ergeva dietro schiere e schiere di case, oltre il parco, a ridosso dei monti. Dominava l’intera cittadina. Era inondata dalle luci dei fari, una cascata di riflessi. Si udivano urla di imbonitori, segno che intorno, nonostante l’orario, i giocatori fossero nel pieno dell’attività. Non si fermavano mai.

    C’erano molti aspetti del racconto della madre che non gli andavano a genio. Perché aveva permesso a quell’uomo, Arthur, del tutto estraneo se non fosse per la storica amicizia col padre, di fargli arrivare così tanti regali? Perché non li aveva buttati, nascosti o presentati per quel che erano? Forse perché erano davvero di suo papà? No, doveva reprimere questi pensieri: quei doni non erano di suo papà. Ma non sapeva cosa pensare: le poche persone con ancora un po’ di senno evitavano Gammon e il suo seguito, il suo tempio e la sua Setta senza pensarci due volte. Figurarsi portarlo in casa.

    Con lo sguardo tornò al cielo, ma c’era qualcosa che proprio non andava. Il satellite era scomparso, in alto pulsava qualcosa di nero. Diede un occhio alla lente della videocamera: non c’era traccia di moscerini spiaccicati o altro. Cosa stava succedendo?

    «Materasso. Sala Arcade. Indiana Jones». Prank era abituato a sintetizzare lunghi pensieri in tre parole chiave; lo aiutavano a passare subito dalle parole ai fatti e, in presenza di altre persone, a evitare chiacchierate estenuanti.

    Dopo aver poggiato sul comodino la videocamera, Prank si sporse dalla finestra e controllò la strada. Rientrò. Tolse le coperte dal letto e le fece cadere sopra una pila di libri di Jules Verne.

    Trascinò il materasso verso la finestra, sudando per via del caldo di maggio. Lo spinse giù.

    Un tonfo sordo riecheggiò nella notte.

    Poi una civetta.

    Poi il silenzio.

    Prank trattenne il respiro mentre le bolle dentro la lava-lamp si susseguivano una dopo l’altra, placide, illuminando la stanza ora d’arancione, ora di blu elettrico, infine di verde acqua. Forse sua madre stava già dormendo, e se fosse uscito dalla porta avrebbe ottenuto lo stesso risultato con minore sforzo.

    Cacciò la videocamera dentro una tracolla verde limone piena di spille, insieme a un lenzuolo che gli sarebbe servito a difendersi dal fresco della notte. Tolse il cuscino dalla fodera e se lo legò al torso con l’aiuto di alcuni pantaloni presi dal cassetto. Si era costruito una specie d’armatura morbida.

    Stava per lanciarsi, ma si ricordò delle leggi della fisica e quindi usò ancora una volta il tubo di scolo per scivolare e ridurre la caduta libera, prima di gettarsi a peso morto contro il materasso di piume d’oca.

    Ma stavolta, per quanto sconsiderato, non stava improvvisando. Non era preso dalla rabbia e dall’accatastarsi di sensazioni spiacevoli che era incapace di gestire. Lo guidava la curiosità. Doveva raggiungere il suo punto d’osservazione preferito, per registrare quei segnali inviati dal cielo. Segnali dallo spazio, in un giorno come quello, non potevano essere un caso.

    Nel cuore della notte scomparve inghiottito dalle case a schiera, con i suoi occhiali a giorno, le lentiggini e la tracolla sottobraccio.

    Shiny shiny little star.

    There’s a prankster in the yard:

    silly glasses for his eyes

    is looking up the starry skies.

    Little little reckless star.

    He would travel around the land,

    making pun and making jokes,

    feeling cold inside his bones.

    Lonely lonely freckled star.

    He seems cheerful, a bit rag,

    but I am sure he’s really sad

    although his smile is tricky glad.1


    1. Piccola stella del mattino, c’è un buffone nel giardino. Con gli occhiali stretti stretti, guarda il cielo sopra i tetti. Piccola stella scavezzacollo: quando gira per il mondo, fa battute e un po’ di scherzi, sente freddo e batte i denti. Stella solitaria, solitaria e lentigginosa. La sua faccia sembra giocosa. Ma io so che è molto triste, e del sorriso ha sol la veste.

    Il ragazzo ingombrante

    Signor Armadillo! Grido il tuo nome

    BEATER: Sviluppati dalla mente visionaria di Paco De Cuchillo, i Beater (o Batidores) permettono di associare alle arti marziali le regole matematiche che veicolano la musica. Questi parastinchi e guanti muniti di sensori e micro-casse producono onde sonore al contatto. Pressione, velocità e precisione del colpo inferto determinano intensità, tempo e limpidezza della nota suonata, che varia inoltre da modello a modello. Accolti con fredda ironia e tanta diffidenza, presto questi strumenti hanno rivelato le proprie vaste potenzialità; da adesso, alla furia elegante ma istintiva del combattimento corrisponde la logica compositiva ed esecutiva di un brano acustico. Alcune arti hanno accolto rapidamente la novità (emblematici gli esempi della Musica-Lucha e della Capoeira), mentre altre cominciano a sviluppare circuiti amatoriali che si aprono a questa nuova frontiera della lotta agonistica e – chissà – della musica.

    — ENCICLOPEDIA UNIVERSALE, STILLEVEN, 2028.

    Le note di un violoncello giungevano dalla biblioteca di famiglia.

    Dal salotto, la caciara di fratelli e cugini, tutti bambini con ugola da mille decibel.

    Ciocci si trovava nel corridoio, imbambolato, indeciso: a quale gruppo unirsi?

    La musica si mescolava al brusio dei lottatori di wrestling in televisione. Non si capiva se a far tremare la casa fossero i bassi vibranti o Marcos che saltellava sulla poltroncina come un forsennato, imitando i combattenti. Quella sintesi di suoni era così ipnotica che poteva benissimo giungere dal cuore della Terra.

    La corda di Do, accarezzata con maestria dall’archetto, si diffondeva nelle stanze come la radiazione cosmica di fondo di quel documentario che aveva visto con Prank e Neet. Fermo immobile, assorbito da quell’andirivieni di stimoli uditivi, Ciocci era una pietra alla quale era stata appena donata la vita.

    Ogni tanto, da una stanza laterale, si aggiungeva al concerto qualcuno che gridava «Dama!»

    Non c’era di che stupirsi: i Saez erano tra le famiglie più numerose di Stilleven. La casa era stata sempre aperta a tutti: amici, scienziati, gente importante e persino i Vagabondi, gli orfani apparsi in città e ospiti ormai da anni del signor Jurek. Tutti, tranne i giocatori di Backgammon, erano i benvenuti.

    Ma anche in quel caso poteva esserci un’eccezione, perché il nonno sperava sempre che mamma tornasse a casa.

    Non c’era giorno che non sembrasse una grande festa: la sera prima alcuni amici del nonno erano venuti a parlare di stelle e non-stelle dal colore strano, argomento per lui bizzarro perché in cielo continuava a non vedere nulla. Ricordava solo due cose delle stelle: la prima è quanto fossero belle, la seconda è che le aveva cancellate uccidendo una zanzara finita sulla sua guancia, quando aveva dieci anni. Adesso ne aveva quasi dodici e ancora si sentiva in colpa.

    Quella mattina, Ciocci optò per il gruppo alla tv e venne accolto dalla danza sfottò di quel monellaccio di Manuel: «Sandìa, Sandìa

    Ovvero, cocomero. Ed effettivamente Ciocci non solo era pacioccone, tondo in volto e robusto, ma secondo sua sorella era dolce più del frutto. I capelli castani, invece, erano come il pennacchio di una cipolla, un ortaggio che gli era molto indifferente, perché lui non piangeva mai – tranne quando piangeva –, e Paula diceva che piangere è da fifoni.

    La sorella diceva pure che, anche se fifone, aveva tre doni. Ecco il primo: dimenticava i torti ricevuti, mai quelli che compiva. Forse aveva ragione: in effetti non è da tutti avere una zanzara sulla coscienza.

    Trattenne Manuel in preda all’euforia bloccandolo per le spalle: «Chi sta vincendo?» chiese con vigore.

    «Il Predone dello Spazio!»

    «No!» Ciocci si agitò: il suo preferito era il Signor Armadillo, che le stava buscando ed era per terra, pancia all’aria, schiacciato dalla massa dell’avversario.

    Allora andò a sedersi in mezzo ai più piccoli, sopra un tappeto dai motivi peruviani che ben si abbinava a tutto quel legno laccato e luminoso che rivestiva pareti e pavimento.

    Pendeva dalle mosse dei luchadores (da un anno utilizzavano i Beater), ma il suono del violoncello gli giungeva all’orecchio come un richiamo distante da parte di un pifferaio ammaliatore. C’era qualcosa che non andava…

    Faceva il tifo per non pensarci, mentre Marcos continuava a saltare da una poltroncina all’altra esibendosi in goffe capriole con un gran fragore di molle.

    La piccola Gloria, vestita di rosa, apparve dalla cucina. Aveva le mani sporche di fragole e portò diverse merendine, mentre l’odore di stufato invadeva il salotto. Tutti la circondarono, tranne Ciocci, che sapeva di non dover esagerare col cibo e non voleva perdersi altri momenti dello scontro in onda. Il suo beniamino perdeva, era un momento critico e non doveva abbandonarlo.

    Tra l’acclamazione del pubblico, il predone si preparava a sconfiggere il Signor Armadillo.

    «Tre! Due!» Mentre l’arbitro contava nel salotto avevano tutti il fiato sospeso come in un quadro di stupore. Poco prima dell’ultimo fatidico secondo, il Signor Armadillo era lì, palesemente sul punto di perdere, ma Ciocci sapeva che stava raccogliendo le forze per ribaltare la situazione.

    «Uuun…»

    Rumore bianco.

    Un’interferenza aveva coperto il più bello. I bambini avevano tutti la bocca aperta. Paula, sua sorella maggiore, cominciò a sghignazzare. Marcos, il Saez più piccolo, lanciò il telecomando contro il televisore, ma per fortuna venne intercettato da Manuel, che lo bloccò saltando alla maniera d’un portiere.

    Ciocci si avvicinò gattoni alla tv. Provò a cambiare canale, ma nessuna emittente dava segni di vita. Si alzò, guardò gli altri e bofonchiò categorico: «Il Signor Armadillo ha vinto».

    Manuel gli fece una pernacchia. Ciocci rispose fingendo di tirargli un cazzotto, poi portò le mani ai fianchi e lo fulminò con lo sguardo.

    Dopo un istante in cui il respiro gli andò furioso alla gola, si allontanò di corsa dalla sala, seguito a ruota da Paula, preoccupata.

    Al violoncello si sommò il coro crudele dei Saez, rimasti davanti alla tv a giocare.

    «Sandìa, Sandìa, Sandìa

    Paula e Ciocci avevano raggiunto la cucina, piena di tovaglie e tende gialle e a quadri. La cucina delle api.

    «Dai, non te la prendere, sono piccoli. Sono sicura che Mister Armadillo ha vinto». Paula gli parlò abbassando il tono, come se una consolazione dovesse avvenire per forza in segreto.

    «Signor», la corresse lui, con gli occhi arrossati rivolti alle calamite del frigo per evitare il contatto visivo. Non poteva piangere, era una legge.

    «Quello che è. Non fare come quei tuoi amici insopportabili che hanno sempre da puntualizzare!»

    Pensò a Prank, che col suo fare da saputello avrebbe corretto qualunque virgola. Ciocci rise di una risata grossa ma a suo modo cristallina. Si era ripreso in un niente, ma il rischio di risentire la rabbia montar su come un vulcano lo tenne concentrato su una calamita a forma di banana.

    Paula aprì il freezer e prese un ghiacciolo all’anice. «Vuoi?» Ciocci scosse la testa. Era completamente tra le nuvole, guardava un punto indefinito del tetto.

    «Andiamo a giocare a dama? La tv non prende ancora», propose la sorella per rianimarlo, ma lui non rispose. «Ciocci? Dai!»

    Ciocci trasalì.

    «No, scusa. Ehm… Vado dal nonno», rispose.

    «A fare che? È concentrato, ti sgriderà!»

    «Cose!»

    Ciocci scattò, impacciato, verso la biblioteca di casa.

    Aprì una porta di legno, intarsiata di ghirigori come quelle delle fiabe. Fu investito dall’odore di pagine ingiallite. Scese cinque scalini, circondato da librerie vetrate piene di tomi di ogni genere, spessore e colore. Al centro della piccola biblioteca domestica nonno Victor suonava con aria ispirata e gli occhi chiusi, senza prestare attenzione al nipote appena entrato. Era un uomo ossuto e atletico, dalle mani ruvide e callose; indossava una canottiera bianca di cotone e dei pantaloni affusolati color paglia, sembrava un giovanotto.

    Quell’anziano burbero e dai capelli brizzolati, con

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