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Eros e Tano
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E-book87 pagine1 ora

Eros e Tano

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Info su questo ebook

ITA:
Morire d'amore.
Quanti poemi, quante romantiche fantasie queste semplici parole sono state capaci di suscitare.
Ma quando un destino beffardo fa sì che esse divengano concrete, allora i languidi struggimenti mutano in una realtà grottesca, delirante.
Al protagonista l'arduo compito di trovare un senso a quanto gli ha riservato la sorte. Di uscirne vincitore, ritto sulle proprie gambe, oppure con le gambe davanti.

ENG:
To die of love.
How much poems, how many romantic imaginations these simple words have been able to arouse.
But when a mocking destiny does that they becomes concrete, then the languid thawings change in a grotesque reality, delirious.
To the protagonist the arduous assignment to find a sense to how much the fate has reserved him. To go out winning of it, upright on his/her own legs, or with the legs before.

LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2012
ISBN9788865781753
Eros e Tano
Autore

Quelli di ZEd

Quelli di ZEd è il Gruppo composto dallo Staff, dagli Autori, dai Collaboratori e dai Lettori delle edizioni Zerounoundici. Quelli di ZEd comprende numerose iniziative, fra le quali: ZEd Lab: un laboratorio creativo mondiale per la collaborazione a progetti comuni di scrittori, traduttori e fumettisti di tutto il mondo. ZEd Mundi: un particolare Gioco di Ruolo basato sulla scrittura e sui fumetti, con interazione collettiva in qualunque lingua.

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    Anteprima del libro

    Eros e Tano - Quelli di ZEd

    Mario Magro

    Eros e Tano

    www.quellidized.it

    Eros e Tano

    Copyright © 2012

    Zerounoundici Edizioni

    ISBN: 978-88-6578-175-3

    In copertina: Immagine Shutterstock.com

    Eventuali analogie a luoghi, eventi o persone reali sarebbero a dir poco imbarazzanti!

    Al bar.

    «…come vorrei morire? Ciulando, no? È la morte più bella che ci sia…»

    Penso che prima o poi sia capitato a quasi tutti, entrando in un bar, di carpire involontariamente una simile dichiarazione dalla voce dell’avvinazzato di turno, esattamente come accadde a me in quel pomeriggio afoso, opprimente.

    Eppure a parlarne sono sempre individui inequivocabilmente vivi. Un po’ alticci, magari, ma vivi. E, soprattutto, fermamente convinti di quanto vanno dicendo, anche se viene spontaneo domandarsi se ne abbiano mai provato l’esperienza.

    A me è successo almeno una ventina di volte…

    La bicicletta.

    Tutto ebbe inizio molto tempo fa.

    Ero un ragazzino, stordito come ogni altro a quell’età. Tornavo a casa in bicicletta da chissà dove, non ricordo più. Dovendo svoltare a destra in fondo a Via Vai, decisi di affrontare la curva piegando all’interno come un vero motociclista di quelli che si vedono nei Gran Premi. Gomme lisce, un po’ di ghiaia sull’asfalto, patapum.

    Buio.

    Quando riaprii gli occhi, mi parve che il mondo si fosse improvvisamente ristretto, al punto che riuscivo a vederne solo uno spicchio sopra di me.Unosfondo indistinto, forse un soffitto, assai più alto del normale.

    Il lettino in cui ero stato adagiato era scomodo. Duro e stretto. Stretto, soprattutto, con quelle odiose spalliere laterali che si usano negli ospedali per impedire ai pazienti di cadere, e il fatto che le avessero foderate di velluto bianco non le rendeva meno opprimenti.

    Il brusio che udivo, una volta ripresomi dall’iniziale confusione, si rivelò essere un coro di voci lamentose e singhiozzi soffocati. Mi misi seduto per riuscire a vedere aldilà di quei fastidiosi bordi, e capire in che razza di ospedale mi avessero portato dopo che ero caduto dalla bici. Voglio dire, vabbè che si tratta di luoghi in cui la gente va quando sta male, ma lagnarsi in quel modo non aiuta mica a guarire…

    «Aaah!»

    «Oh mio Dio!»

    «Aaah!»

    «Santo cielo, è vivo!»

    «Aaah!»

    «Un miracolo! Un Miracolo!»

    «Aaah!»

    «Tano! Tanuccio mio bello, già ti piangevo morto!»

    Quest’ultima era mia madre, che strillava con voce a tal punto penetrante da sovrastare il pandemonio che si era scatenato nel momento in cui mi ero sporto fuori dalla bara, nel bel mezzo della cerimonia funebre.

    Ah già, dimenticavo.Iomi chiamo Gaetano.

    Tano per gli amici.

    Il luminare.

    «Ecco» declamò il dotto dottore, imponente nel suo impeccabile camice bianco.

    «A seguito del trauma scrofondanialecon firopondatonesiritornicadica» aggiunse «ilpristillorescostroncoidale ha fatto sì che la gulendronicacipilloriale si inserisse in un dropponielloveruntico…»

    Mentre parlava infilava, con un gesti da vero esperto, una serie di radiografie in quella specie di incastro posto lungo il bordo superiore di quei fantastici ripiani retroilluminati che costituiscono un elemento immancabile in ogni ambulatorio ortopedico. Ho sempre sognato di averne uno anch’io, anche se poi non saprei esattamente cosa farmene.

    I miei genitori lo fissavano con occhi sgranati, ricordandosi di tento in tanto di sbattere le palpebre. Quando lui casualmente annuiva con la testa, loro sorridevano; se invece produceva un qualunque cenno di diniego, entrambi si rattristavano visibilmente e alla mamma talvolta sfuggivano un paio di lacrimucce.

    Ma io non mi lasciai ingannare. Ero già abbastanza grandicello e smaliziato da conoscere un po’ di vita. Dall’inizio di quell’anno scolastico avevamo cominciato, i miei amichetti e io, a giocare alla Supercazzola. Quella che uno arriva lì mentre sei distratto e ti spara a bruciapelo:

    "Esperosperastasera?"

    Eh?

    Prrrrrr.

    Consapevole del gioco al quale stava giocando il vecchio marpione, resistetti eroicamente alla tentazione di arrendermi, di lasciarmi abbindolare da un trucchetto così banale, che acquisiva una sua suggestione solo perché mi veniva propinato da quella cariatide, dalle apparenze financo più autorevoli di quelle degli stessi insegnanti di scuola i quali, a dire il vero, granché autorevoli non mi erano mai sembrati.

    Fu mio papà a crollare.

    «Eh?» fece.

    «Prrrrrr!» lo punii prontamente.

    Lo scappellotto che mi arrivò fra capo e collo per poco non mi rispedì direttamente in rianimazione, al punto che l’illustre primario si sentì in dovere di far presente che era meglio andarci piano, visto che ero ancora convalescente.

    «Per oggi la passi liscia, ma appena guarisci facciamo i conti»grugnì mio padre, e io sapevo bene che per quanto riguardava l’argomento in questione, ogni sua promessa era debito.

    Il sapiente riprese la spiegazione dal punto in cui era stata interrotta. I miei ne capirono quanto prima, ovvero nulla, ma perlomeno poterono addebitarne la causa alla mia inopportuna intromissione.

    Nei giorni che seguirono l’intero parentado si avvicendò in visite a casa nostra, ognuno desideroso di comprendere cosa fosse avvenuto. Mio papà mostrava loro quelle medesime radiografie, le sparpagliava più o meno a caso sul tavolo della cucina, assumeva il medesimo portamento che aveva visto ostentare dal celebre studioso, gonfiava un attimo i polmoni e poi proferiva:

    «A seguito del trauma scrofondaniale con firopondatonesiritornicadica, il pristillorescostroncoidale ha fatto sì che la gulendronicacipilloriale…»

    Coloro che lo udivano ci capivano più o meno quanto lui, però non mi risulta che se ne siano mai lamentati. Se ne andavano apparentemente soddisfatti, e da lì a pochi giorni la questione venne accantonata.

    «La vita continua» fu il commento di mia zia Assunta, quella mezza sorda.

    "La vita riprende" sarebbe stato più opportuno dire, ma nessuno parve dar peso a tale sfumatura.

    Ero stato dichiarato morto dal medico legale, rimasto inanimato per quasi tre giorni e quindi tornato al mondo nel bel mezzo della cerimonia funebre. Tutti sembravano pensare che la faccenda fosse chiusa lì.

    Si sbagliavano.

    Fiorella.

    Compagni di scuola da sempre.

    Quali sono le probabilità che un ragazzino e una ragazzina si ritrovino per una dozzina di anni di seguito nella stessa classe e nello stesso banco? Poche, molto poche.

    Alle elementari fu sicuramente una coincidenza. La maestra ci mise nello stesso banco perché aveva assegnato i posti in ordine alfabetico, e siccome io

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