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OK Computer
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E-book237 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Il protagonista, Mat, vola a Tokyo per lavoro, lasciando il suo paese e la sua famiglia in Italia. Dopo sette anni non si è ancora davvero ambientato e non ha trovato delle vere amicizie fino all’incontro con Steve e Misaki. Una serie di tragedie che lo colpiscono gli fanno capire come quel lavoro gli stia stretto, sia alienante, e decide di partire, chissà se alla ricerca di una nuova città in cui stabilirsi. Un romanzo accompagnato dalla musica e dalle fragilità.

Nico Mescudi Barillari è nato il 5 gennaio 1999 e abita attualmente a Taglio di Po, un paese di provincia del nord est dell’Italia, sulle rive del fiume Po. Frequenta l’ultimo anno di Culture e pratiche della moda all’università di Rimini. D’estate lavora nel lido balneare dei genitori, il Lido degli Estensi. Le sue passioni sono  la musica, la moda, l’arte, il cinema e la letteratura (tutto ciò che riguarda la cultura in generale). Ha giocato a calcio per molti anni e corre tutti i giorni ormai da quattro, ricoprendo lunghe distanze. Gli piacerebbe in futuro fare lo scrittore.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2023
ISBN9788830688926
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    Anteprima del libro

    OK Computer - Nico Mescudi Barillari

    barillariLQ.jpg

    Nico Mescudi Barillari

    OK Computer

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8430-0

    I edizione agosto 2023

    Finito di stampare nel mese di agosto 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    OK Computer

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Mi è capitato spesso, non che sia un vanto, ma neanche un peso sulla vita, di cambiare. Cambiare e percepire le sensazioni diversamente dal passato in un contesto in cui, se è vero che l’amore aiuta a non sentire il dolore e ad andare avanti nei momenti più difficili, in un mondo fatto di stenti e di pressioni, hanno la stessa importanza anche il tempo e lo spazio, fondamentali a mantenere la propria persona e a superare le fasi più o meno complicate della vita. Esse formano, di fatto, le tre componenti essenziali del mio animo. Ognuno ha bisogno di silenzio per ascoltare il proprio spirito, cadenzandone il ritmo, azione necessaria per affrontare ogni tipo di situazione. Durante l’ultimo periodo della mia vita, mentre ero a lavoro, poco prima di iniziare la seconda parte della mia giornata lavorativa, nella solita pausa pranzo, passavano le notizie odierne alla televisione della sala e siccome poco prima mi ero intrattenuto a parlare con un collega circa le direttive di un progetto, arrivai nel momento in cui il notiziario dedicava spazio alle notizie, per così dire, di gossip, arte e più in generale di cultura popolare. Lo scandalo di giornata riguardava, da quello che mi parve di capire, la fine della relazione di una nota coppia, composta da una più che celebre idol e dal suo ex ragazzo, famoso campione militante nel massimo campionato di pallacanestro, il quale accettato, per convenienza, da tutte le orde di fan accanite della sua ormai ex partner. La coppia era diventata la beniamina dei ragazzi e anche di qualche adulto, anche perché la relazione durava da più di dieci anni, e solo grazie al tradimento da parte di lui si era divisa clamorosamente. La folla in quella piazza, di fronte a una delle scuole più grandi della città (almeno credo), inquadrata dalle telecamere del telegiornale, insorgeva verso lo scalpore destato dalla notizia. L’intervistatore non faceva altro che peggiorare la situazione con le domande di rito ai poveri fan, che avevano finito la giornata scolastica. Lo stomaco ancora in attesa di cibo e con la testa pulsante dalla prima parte di giornata lavorativa, con lo schermo del computer che aveva tormentato i nervi ottici e le parole del direttore che erano uscite secche dalla bocca per andare a colpire a tempo, come un martello pneumatico, il mio udito, ancora frastornato dal suono della sveglia, provocarono in me una scarsa attenzione verso quelle assurdità che passavano alla televisione, situata proprio sopra il mio angolo visivo, in quei bracci per tv a muro. Finito il pasto e dopo un caffè rigenerante tornai in forze, nuovo e pronto per affrontare l’ultima parte di giornata, che solitamente mi riusciva meglio, con lo sguardo a volte assente rivolto al vuoto, visto dall’alto delle finestre del Sony Building, proprio dove si trovava il mio ufficio. Le strade nel quartiere di Ginza mi lasciavano, e mi lasciano tutt’ora, sempre senza fiato, i neon delle insegne, intrecciavano le scie dei fanali delle macchine in cui la frenesia infervorava l’inerzia di chiunque si fosse trovato lì in quel preciso momento. Finito l’ultimo compito per il plan aziendale, con l’oscurità ormai presente, forzata dal posizionamento della terra rispetto al sole che non consentiva molta luce nel pomeriggio delle giornate di fine autunno, mi diressi, prima di tornare a casa, al negozio di alimentari situato a metà strada tra il lavoro e il appartamento in cui vivevo, per comprare una parte di quello che avevo in mente di prepararmi per la cena, posto che il più delle volte dimenticavo sempre qualcosa da prendere, ripetendomi ogni volta di fare una lista per poi dimenticarmene rovinosamente. Finivo sempre per fare più giri al supermercato di quanti ne servissero. La cena ormai era diventata una certezza, alla carne o alle uova accompagnavo spesso della verdura (era comunque una cena non tipicamente giapponese o orientale che sia); ogni giorno mi ritrovavo a mangiare quel tipo di proteine e carboidrati, eccezion fatta per un pasto a settimana, che il più delle volte era riservato alla cena con i colleghi di lavoro o da qualcosa preso al ristorante da asporto proprio sotto la mia abitazione. La sera solitamente era la parte della giornata in cui volevo vedere qualche film in tv, o possibilmente dalle cassette che si potevano noleggiare nella videoteca posta a cinque minuti a piedi dal mio appartamento, verso il centro città. L’unica condizione era la stanchezza che, il più delle volte, mi faceva fluttuare con dolci turbolenze la testa, dopo una giornata di lavoro; provavo a oppormi ma mi facevo sempre vincere, la sensazione era così piacevole da farmi addormentare sul divano fino alle due della notte circa, per poi, puntualmente, mettermi sotto le coperte del letto terminando così il resto del riposo notturno. Decisi che, se non fossi stato in condizioni tali da sostenerne la visione, non avrei più noleggiato le cassette, che dovevano essere restituite il giorno dopo, ovviamente a pagamento; di conseguenza, prima della perdita dei sensi, finivo spesso per guardare stupidi quiz televisivi in cui il conduttore sembrava un automa o film scadenti del dopoguerra o dibattiti politici, non capendoci comunque una parola della loro lingua.

    Le giornate trascorrevano inesorabili in un regime di basse temperature e scarsa illuminazione solare invernale, ormai ero quasi giunto al settimo anno da lavoratore fuori sede, parola usata con molta fierezza e brillantezza ai tempi dell’università. Gli studi non erano stati esaltanti, ma grazie alla memoria su cui potevo contare, fui in grado di concludere la mia laurea in marketing, con l’accento sulla lingua inglese, quasi nel migliore dei modi e nei tempi prestabiliti. Dicembre, appena iniziato, stava volgendo velocemente al termine aprendo le porte al mio trentesimo compleanno e al nuovo millennio, con una luce che sembrava accecare le menti di tutti, l’aria era frizzante, Chissà cosa ci aspetta, Che ne saranno delle nostre vite, sentivo vociferare i colleghi e le colleghe a lavoro, in cui a tutti loro, compreso me, è stato venduto da tempo lo scenario delle macchine volanti, dei robot, della cura per ogni virus, del massimo guadagno, minimo sforzo, della pace tra i popoli e le più utopistiche o distopiche sceneggiature dei registi cinematografici che hanno assistito all’orrore delle guerre e al primo uomo sulla luna. In verità parte di tutto questo non succederà, ne ero consapevole, ne eravamo tutti consapevoli, ma ai più ottimisti e sfrenati sognatori piaceva pensare il contrario. Mentre vivevo quell’atmosfera elettrica, mi tornò in mente quello che mi rimaneva della mia vecchia vita.

    Si parla di un’altra vita proprio perché, prima di trasferirmi dove mi trovavo quel dicembre, passai i miei ventitré anni in un paesino di provincia nel sud Italia, in cui durante gli ultimi due anni di università, lavorai dietro a ogni tipo di bancone che sia stato di un bar, di un supermercato o di un info point di un centro commerciale, per mettere da parte dei soldi, necessari per permettermi di andarmene da quella specie di palude, con una laurea (conseguita anzitempo rispetto ai miei coetanei, data la possibilità di sfruttare lo stratagemma della primina, essendo io nato nei primi giorni di gennaio) che, sinceramente, non la sentivo neanche mia, scelta soltanto per continuare i miei studi tecnici alle scuole superiori, per convenienza si poteva dire. Casualmente incontrai nella città in cui studiai per i cinque anni universitari, dove solitamente con i miei amici passavamo solennemente il fine settimana, un mio compagno di corso, che per conoscenze di famiglia, mi informò di un’azienda di televisori con filiali in tutto il mondo che cercavano giovani laureati nel settore del marketing. Dopo aver parlato di ciò e dell’imminente vita post laurea che ci avrebbe atteso, ringraziai per l’informazione e con la mia compagnia di amici proseguimmo la serata, aspettando l’inesorabile arrivo dell’orario fatidico indicato per il ritorno a casa, trascinando i corpi da una piazzetta all’altra interrompendo discorsi e incrociando dialoghi a due a due, di noi quattro, un po’ come gli impiegati aziendali quando aspettano pazientemente, distraendosi con qualunque oggetto o fantasia onirica, la fine della giornata, arrovellando tra la proprie dita oggetti presenti sulla scrivania. Inviai la richiesta di lavoro e mi venne accettata poco dopo la mia proclamazione di laurea, tra fine giugno e inizio luglio del novantatré. Il Giappone mi aspettava. Mi smistarono, per convenienza, proprio qui, a Tokyo, data la mia giovane età (I giovani non hanno famiglia, se non si spostano loro…). Mi si aprirono così le maestose e scintillanti porte del mondo del lavoro, quello vero, quello per cui ogni familiare può andare fiero, per il proprio figlio, il quale dopo anni di studi abbacinanti, di grafite sotto le frasi di ogni foglio di dispense o libri, viene ripagato dei propri sforzi. Niente sarebbe stato più come prima, iniziava un nuovo capitolo. Con i saluti e i pianti di rito da parte dei familiari, gli auguri reciproci di buon proseguimento dai tre amici di sempre, un bagaglio di poca esperienza fuori casa e una valigia con lo stretto necessario, partii verso la via della fortuna, la quale, nel suo pacchetto, includeva, si pensava, una carriera lavorativa più o meno di successo, di conseguenza una buona situazione economica e perché no, una partner per cui sarebbe valsa la pena tornare a casa ogni giorno dopo il lavoro che, insieme a creature di simil fisionomia e carattere, ci si sarebbe ritrovati a discutere delle proprie giornate lavorative e scolastiche, davanti a deliziosi manicaretti e del buon sakè, come si è soliti bere qui in Giappone. Certo la vita di tanti miei ex compagni, conoscenti e anche di qualche vero amico, era indirizzata verso quella strada di lavoro-famiglia, nel raggio di pochi chilometri dal mio vecchio paese in Italia, con case in costruzione in attesa di occupazione, da parte della nuova generazione che stava crescendo e che stava depositando le ultime firme sui mutui che avrebbero sancito la fine della vecchia vita famigliare per darne inizio a una nuova. Altrettante aziende nelle vicinanze stavano, probabilmente, contribuendo con materiali e forza lavoro ad aumentare l’urbanizzazione, proprio le stesse nelle quali lavoravano due dei miei amici più stretti. Non erano certo da meno i servizi, quali, magari, l’apertura di nuovi bar e videoteche. Quando ancora scorrazzavo per le strade desolate del mio paese alle due della notte nel tepore dei sabati primaverili, avevamo a disposizione un bar e mezzo, dico mezzo perché solitamente succedeva sempre qualcosa di strano nell’altro presente, tra cui risse e giri poco trasparenti; quindi, tendevamo a evitarlo finendo per andare sempre nel solito, quello da cui iniziavamo la cavalcata notturna, in cui il flipper incassava come il più forte dei pugili i colpi di furori incontrollati. Il bagno, con la sola turca per entrambi i sessi (senza volere, all’avanguardia, sulla parità dei generi, che giustamente sta avanzando nei tempi recenti), era tatuato da testa a piedi con dediche di ogni tipo, frasi filosofiche sull’amore e insulti, dai più disparati, alle forze dell’ordine e ai partner, che sono finiti per uscire dalle rispettive vite per sciocchezze adolescenziali. Solo quelle mura possono dire di aver veramente vissuto lo scorrere del tempo andando incontro all’obsolescenza e all’ inadeguatezza rapportata ai nuovi progetti tecnologici. Chissà la solitudine che avrebbero provato certi territori, un tempo famigliari. Il proprietario, già in pensione, non aveva mai apportato modifiche, scelta razionalmente giustificata dal fatto che era praticamente l’unico bar in paese e quindi non c’era motivo di innovare e spendere denaro nel farlo. Quel vecchietto, il quale ha sempre dimostrato più anni di quanti ne avesse, ha portato avanti dignitosamente la sua attività con il solo aiuto della moglie, compagna di vita, viceammiraglio di quella nave che finalmente stava arrivando al porto, pronta per essere dismessa. Il bancone non è mai stato troppo largo per ospitare un dipendente, entrambi erano baristi, camerieri, azienda di pulizie e dispensatori di falsi sorrisi, ottima prerogativa per i lavoratori di quel settore. Mai un giorno di ferie, mai una parola fuori posto e potevo solo supporre, dall’altra parte del mondo, quanta poca vita poteva rimanere di tutto ciò, forse già finita, per lasciare spazio a nuove idee, tecnologie, avanguardie e concetti. Certo, quei due signori dopo più di cinquant’anni dovevano essere arrivati stanchi all’ombra del nuovo millennio, per godersi gli ultimi anni in totale tranquillità con forse l’unico rimpianto di non avere avuto il tempo e la possibilità di viaggiare e spostarsi da quella piccola palude di paese alle spalle di un lago. Penso, però, che nel ripetere sempre le stesse azioni di tutti i giorni, senza margine di errore, porti ad avere in un dato momento della vita un certo zen interno, a trovare un punto di equilibrio, in cui nulla sfugge e nulla arriva, come le nuvole di quelle giornate umide di fine autunno a Tokyo, che osservavo dalle finestre del quarto piano, nel mio ufficio, le quali si ritrovavano nel cielo, poco prima fatuo, come un gruppo di amici sui sampietrini di una piazza, assorti nei discorsi nella vita, formando uno sfondo di totale sintonia.

    Il freddo di dicembre è molto diverso da quello di fine novembre, lo avvertivo più secco e sincero, dice esplicitamente che vuole colpirti, a differenza di poche settimane prima in cui l’umidità intorpidisce gli occhi, rende difficile, alle volte, la possibilità di mettere a fuoco gli oggetti. La vista si appanna, la gola è esposta alle intemperie, non ancora consapevole dell’imminente arrivo dell’inverno e il naso come dispositivo più esposto della faccia che assorbe il colpo prima di tutti. Dopo aver smaltito la prima influenza si capisce la situazione e ci si inizia a vestire con precauzioni tali da muoversi incontrastati nella stagione imminente. Gli addobbi natalizi illuminavano la città già dal tardo pomeriggio, e combattevano contro le insegne dei negozi per avere la supremazia sullo spazio oscuro; atmosfere convenzionali sfidavano spettri commerciali. L’ora dei regali per i più previdenti era iniziata, motivo per il quale, anche a lavoro, c’era un clima di tensione, le vendite di televisori e schermi per computer cresceva ancora di più del solito degli ultimi anni. Le campagne promozionali stavano dando molte soddisfazioni, la zona in cui vendeva l’azienda, in Giappone, era una delle più profittevoli al mondo. Con il reparto grafico e audiovisivo avevamo lavorato da tutta la fine di agosto fino alla metà di novembre per quel momento. Il lavoro dal mio punto di vista non era poi così duro; come impiegato nel reparto marketing, mi bastava, tramite formule specifiche e preimpostate, spiegare quanto un’azione poteva o meno essere conveniente, togli questo, aggiungi quello, giocando sulle debolezze di chi comprava, strategie che alla fine aggiungevano, o toglievano (se fatte male) valore all’oggetto, identificabile il più delle volte nel valore aziendale.

    Inizialmente non fu molto facile. Appena arrivato mi portavo un bagaglio di studi fatti in maniera molto approssimativa, con una scarsa abilità negli apparecchi elettronici e nei software aziendali; la lingua non aiutava, tutti i dipendenti fortunatamente parlavano inglese, ma anche quella lingua era difficile per me all’inizio, non avendo mai avuto la possibilità di parlarla abitualmente in vita mia. Di conseguenza, anche i chiarimenti e le domande non mi venivano spontanee finendo per fare sempre di testa mia e puntualmente di sbagliare. Per fortuna dopo una settimana conobbi un signore, molto più grande di me, trasferitosi lì circa cinque anni prima di me da un paese situato a pochi chilometri dal mio, diplomatosi in un istituto tecnico di indirizzo informatico; era addetto a riparare i computer con anomalie e risolvere più in generale i guasti derivanti. Mi insegnò in maniera ottimale le funzionalità delle apparecchiature aziendali come le stampanti, i software per la contabilizzazione, la posta elettronica e più in generale come orientarmi nell’universo poco chiaro di internet.

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