Dove finiscono tutte le strade (versione Light)
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Info su questo ebook
ITA:
Spina ha diciassette anni e già nessuna speranza.
Ana Isabel ha dovuto troppo presto rinunciare ai suoi sogni.
Filippo, che li ha invece realizzati, li scopre minacciati da un passato che torna prepotente.
Un legame sottile lega i loro destini in maniera inscindibile, fino a quando non verranno risolti tutti i conti in sospeso, là dove finiscono tutte le strade.
ENG:
Spina is seventeen years old and already any hope.
Ana Isabel has had too soon to abdicate her dreams.
Phillip, that has realized them instead, discovers them threatened by a past that it returns bossy.
A bond thin league their destinies in inseparable way, up to when all the accounts won't be resolved in suspended, there where all the roads end.
Quelli di ZEd
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Dove finiscono tutte le strade (versione Light) - Quelli di ZEd
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Domenico Panetta
Dove finiscono tutte le strade
Dove finiscono tutte le strade
Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6578-133-3
In copertina: Memorie
, di Marcello d’Adamo
A Lorenzo e Martina, che incontrano il mondo
A Paola, che il mondo lo fa
PROLOGO
Questa storia è amara. Come il sapore di certe notti calde d’estate, la finestra della camera spalancata su un cielo pece, e i troppi ricordi che armano trappole per i rimpianti.
Questa storia narra di un viaggio senza scampo, racconta di addii senza parole.
Incrocia i giorni di un’infanzia leggera e i giorni di un’adolescenza rubata. Giorni di vite appese a destini fragili. Giorni che plasmano anime in balìa di quei destini, senza strumenti per guidarne il corso verso una meta propizia.
È anche una storia sul tempo. Dove il tempo presente pretende di ignorare gli echi del tempo passato.
Quello futuro dirà, invece, se è valsa la pena di raccontarla e se ha meritato finanche di essere ascoltata.
UNO. BRACCATO
Piana di Gioia, 21 giugno 2010
Stava correndo a perdifiato da almeno dieci minuti e gli scarponi, che prima avevano prodotto tonfi pesanti sul terreno arido, ora affondavano tra i solchi umidi del campo arato, mettendo a dura prova le caviglie sottili. Con le braccia punte dagli insetti, si faceva largo tra gli arbusti bassi dell’agrumeto: la fronte stillava lacrime di sudore che scivolavano sul viso senza barba e la vista era annebbiata dallo sforzo. Il cuore batteva in gola all’impazzata e ogni tanto lo ricacciava, deglutendo, nel mezzo del petto.
Chissà se quelli erano vicini.
In qualche momento di lucidità rubato alla fatica, rivedeva i brevi momenti in cui aveva realizzato il disegno che aveva preparato, nei giorni appena passati, nell’afoso casotto perso nella piana. Non era risultato troppo difficile, alla fine. Masi gli aveva procurato la pistola, avvolta in un canovaccio scuro, umido d’olio e usurato dal tempo. Era una calibro 9 Beretta, lubrificata con cura, che era stata scelta perché univa al vantaggio di una estrema maneggevolezza la possibilità di piazzare colpi precisi anche senza essere tiratori scelti. Per andare dal sud della costa fino al vecchio casotto abbandonato tra i rovi e le immondizie aveva utilizzato la vecchia Fiat Punto di sua madre; due ore di strada, ma il giorno dell’azione aveva dovuto nasconderla e andare a piedi attraverso i campi.
La vecchia masseria, che era il suo obiettivo finale, era lontana tre o quattro chilometri al massimo e l’aveva raggiunta camminando senza fretta, svegliatosi di buon’ora, dopo essersi assicurato che nessuno potesse scorgere i segni della sua presenza. Una volta sul posto, aveva rasentato silenzioso il logoro muro di cinta e lo aveva scavalcato all’altezza delle due grandi finestre sul retro, dove non era alto più di un metro e mezzo. L’edificio era antico e già da una superficiale osservazione si poteva intuire che veniva abitato soltanto saltuariamente, da avventori occasionali che ne usufruivano per riposarsi o, come in quel caso, per trovarsi lontano da occhi indiscreti. La pietra e le travi mostravano, assieme ai segni del tempo, quelli di una negligente manutenzione. Non era quella la prima volta che vedeva la masseria: la sera prima vi si era recato per studiarne indisturbato ogni particolare e programmare nei dettagli l’azione.
Le voci dalle inflessioni gravi, che trapelavano dalle finestre aperte, dovevano appartenere a non più di quattro persone, come aveva previsto, e la conversazione alternava note severe a risa grossolane. Si era avvicinato poco alla volta al lato principale della masseria, dove c’era l’ingresso, socchiuso davanti allo sterrato sul quale sostavano quattro utilitarie coi finestrini abbassati. Aveva spinto il basso portone con un piede, molto lentamente, con la certezza che un eventuale cigolio sarebbe stato sovrastato dai toni alti dei convenuti. L’interno della masseria aveva un odore buono, intriso di campagna, e l’ambiente era mantenuto fresco dai larghi muri di pietra. Qua e là sulle pareti campeggiavano dipinti di ingenua composizione, raffiguranti paesaggi agresti, e un calendario fermo sulla pagina di novembre del 1999. La pistola stretta in pugno, era avanzato, trattenendo il fiato, nel piccolo atrio che dava sulla grande cucina. Le parole che udiva diventavano sempre più chiare e raccontavano di molto improbabili battute di caccia. Con la schiena appoggiata alla parete, accanto alla porta spalancata, aveva studiato per un interminabile minuto il suono delle voci per intuire la provenienza di ognuna e aveva calcolato che, molto probabilmente, il Capra
doveva essere seduto dall’altra parte del tavolo, col viso rivolto verso di lui, e di fronte aveva almeno due dei suoi compari. Passarono dei secondi interminabili, scanditi da un vecchio orologio a parete che segnava le sette e quaranta. Incrociò gli occhi per guardarsi la punta del naso, reiterando un tic che gli allentava la tensione, e quindi, con un agile movimento, rotolò con la schiena attorno allo stipite della porta e serrando le palpebre, il braccio teso sotto il mento, scaricò in direzione della vittima predestinata tutti i colpi che aveva nel caricatore. Il Capra fu colpito per tre volte in mezzo al petto e una alla testa, mentre gli altri tre uomini, lanciando urla sguaiate, si buttavano giù dalle sedie per evitare gli altri colpi che si erano persi nel vuoto. Il finimondo terminò in un attimo e allora gettò la pistola ai suoi piedi con un gesto deciso, si voltò senza guardare e, dopo aver guadagnato l’uscita, cominciò a correre a lunghe falcate come da piccolo aveva imparato a fare, senza scarpe, quando i grandi mettevano in palio una moneta per chi attraversava più veloce la spiaggia e tuffava per primo nell’acqua del mare i piedi scottati dalla sabbia rovente. Correva, il petto in fuori e la fronte alta, e dietro di sé sentiva ancora le urla e il motore di una macchina che si avviava.
«Corri Spina, corri.» L’incoraggiamento pulsava nella sua testa confortante come un mantra e intanto incespicava ancora nel terreno irregolare con gli scarponi troppo pesanti per quella estate incendiata dall’afa. Nonostante adesso corresse, il tragitto di ritorno gli sembrava ben più lungo di quello che, all’inverso, aveva percorso a piccoli passi pochi minuti prima. Alla fine raggiunse trafelato il casotto e ne percorse per metà il perimetro raggiungendo il retro, dove aveva lasciato la macchina. Schiuse la portiera infilando il braccio nell’apertura del finestrino abbassato, poiché la maniglia esterna non funzionava, e si sedette pesantemente, girando la chiave che aveva lasciato infilata nell’accensione. L’auto si mise in moto col frastuono della marmitta usurata e percorse veloce il viottolo di sassi che portava alla stradina di campagna che lo avrebbe condotto alla vecchia statale e, da lì, dopo dodici chilometri, all’imbocco della A3. Quando fu sull’autostrada, prese l’asciugamano appoggiato al sedile del passeggero e con un rapido gesto terse il sudore che si condensava in piccole gocce tra le ciglia, impedendogli di vedere nitidamente.
Adesso poteva dire di aver cominciato il suo viaggio.
Cinque ore dopo, dovette concentrarsi un momento, affinché tutto quello che era accaduto gli sembrasse reale. Dopo tutto il Capra aveva raccolto quello che si meritava, che diamine! Non era che uno sbruffone di quarant’anni e di cento chili, dalle sopracciglia folte che componevano un unico arco sopra la fronte e il doppio mento che gli conferiva un aspetto buffo, lo sguardo acquoso che tradiva una segreta inaffidabilità; non aveva famiglia e, probabilmente, non sarebbe mancato a nessuno. Lui invece era Spina, stimato e rispettato, a dispetto della giovanissima età, e riguardo alla sua personale integrità chiunque lo conosceva avrebbe messo una mano sul fuoco.
Con questi pensieri cercava di tenere lontani i fantasmi di una colpa fin troppo evidente. In questo modo, nella monotonia dell’autostrada che gli annebbiava i ricordi, il viaggio che aveva intrapreso non somigliava nemmeno a una fuga. Nelle piazzole di ristoro delle aree di servizio, famigliole organizzate e gruppi di giovani apparentemente senza pensieri gli rammentavano che l’estate cominciava quel giorno. Si era accorto soltanto adesso, guardandosi distrattamente nello specchietto retrovisore, di come i suoi riccioli neri fossero rimasti scompigliati nell’azione e cercò di sistemarli con un gesto delicato della mano destra. I brufoli sul suo volto acerbo tradivano i suoi diciassette anni più dei suoi vestiti, che invece sembravano quelli di un contadino di mezza età. Era un ragazzone alto, dalle spalle robuste, con il volto bello dai lineamenti gentili e gli occhi svelti di chi è abituato a contendere, occhi neri sulla pelle scura, ancor più scura perché bruciata dal sole. Il naso era regolare, le labbra carnose e sanguigne. L’aspetto era quello di una persona che interpretava con imperturbabile distacco le cose della vita. Gioia, dispiacere, entusiasmo, rammarico, passione, fastidio: nulla sapeva procurargli una reazione che gli stampasse sul viso un’espressione particolarmente intensa, una smorfia capace di modificare quella sfuggente maschera di chi sembra essere sempre capitato lì per caso.
Il piede spingeva sull’acceleratore più di quanto la vecchia vettura potesse sopportare e le vibrazioni producevano un brontolio fastidioso, come quello di chi è costretto a fare qualcosa contro ogni voglia. Il giorno era ancora lungo e la meta lontana: aveva tutto il tempo per riflettere sul da fare ma, intanto, spontaneamente, indugiava ancora su quello che era stato fatto. In cuor suo cominciava a capire quale prezzo amaro dovesse pagare per potersi sedere a condividere il tavolo dei grandi.
DUE. UNA MISTERIOSA TELEFONATA
Collecchio, 21 giugno 2010
«Quattro euro e settantacinque.» La fornaia ripiegò il lembo del sacchetto che aveva terminato di pesare e vi incollò lo scontrino adesivo stampato dalla bilancia.
«Come sta Alice?» chiese poi consegnandolo nelle mani di Filippo.
«Bene. Oggi è tornata all’asilo.»
«Cosa è stato alla fine?»
«Una tracheite, niente di grave, certo che di questa stagione…»
«Capita, quando vanno all’asilo…»
«Già» rispose Filippo, per nulla appassionato da quella conversazione. Poi appoggiò il sacchetto nel cestino, salutò con un gesto della mano e si diresse verso la corsia dei vini. Non era mai stato un grande intenditore di alcolici, ma quando stava a tavola non riusciva a rinunciare a un bicchiere di buon rosso. Alla cassa del mini market all’ora di pranzo non c’era quasi mai nessuno: la signora Irma aveva il solito faccione sorridente sotto il cerchietto che raccoglieva i capelli ispidi.
«’Giorno signor Magiani. Manca tanto alle vacanze?»
«Ancora un mesetto, Fiorella non può stare in ferie prima della fine del prossimo mese.»
«Mare?»
«Montagna.»
Pagò velocemente le poche cose che aveva comprato consegnando una banconota da venti euro e si diresse verso l’uscita. Nel piccolo parcheggio assolato c’erano poche macchine, per lo più appartenenti ai pochi dipendenti del negozio. Aveva lasciato la sua Audi sotto le rare fronde di uno