Buonanotte Madame: Estratto
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Estratto.
"Buonanotte Madame" è un romanzo che declina le sfumature dell’incontro. L’incontro tra l’inesorabilità della sofferenza e la potenza della libertà, tra la fatica del quotidiano e l’importanza decisiva di ogni minuto. È l’incontro tra Rosa, affetta da SLA, e Alessio, uno degli infermieri incaricati di assisterla. Divisi dalla malattia, impareranno insieme, uniti, a riconoscere la vita. Perché non esistono malati incurabili, ma solo inguaribili.
Quelli di ZEd
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Anteprima del libro
Buonanotte Madame - Quelli di ZEd
Alessio Biondino
Buonanotte, madame
Estratto
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Buonanotte, madame (estratto)
Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-837-4
In copertina: Madame, di Fabrizio Seri
Rappresentanza e intermediazione letteraria a cura di
Edelweiss – Servizi Editoriali
Tel: 06 96525274
www.servizieditoriali.org
info@servizieditoriali.org
Agente di riferimento: Andrea Carnevale
andrea.carnevale@servizieditoriali.org
Che posso donarti
se non la mia umiltà?
L’incondizionato bisogno di pietà
di una violata intimità
e di tarpato orgoglio.
Puoi togliermi,
in tragico crescendo,
il corpo mutato in povero
contenitore di protesizzazioni:
è tuo ormai.
Ti beffa, comunque, quella carezza
che mi fa tremare la pelle…
occhi limpidi che sanno dire:
grazie… o… ti amo!
Splendida capacità di cogliere l'attimo,
di gioire e soffrire,
di accogliere o respingere:
ancor responsabile di me
nella tua tentata frustrazione.
Maria Pia Pavani, Sla
(dalla raccolta di poesie Canto Muto, ed. Consedit sas 2008)
Prefazione
Leggendo questo racconto-diario, ogni rigo mi rimandava ai ricordi di amici malati di SLA. Per tutti, voglio ricordare una persona con la sua testimonianza: Non si pensa mai a quale possa essere il quotidiano di un malato, che può avere il corpo devastato dalla malattia ma la mente intatta, con il desiderio di esprimere ancora sentimenti e manifestare reazioni.
Quando mi dettò con i suoi occhi sul pc questa frase, riuscivo a leggerle in viso l’incredibile tensione interiore che la affliggeva. Poi Rosa Maria (per gli amici Rosma, coincidenza particolare per il suo nome simile alla protagonista del libro) fa un appello a tutti i personaggi che definiscono il variegato mondo della sanità
: bisogna preparare del personale competente e adeguato all’assistenza dei malati gravi perché gli ammalati tutti non hanno bisogno solo di farmaci e medicazioni, ma anche, e soprattutto, di presenze rassicuranti e positive
. Agli uomini di fede, poi, Rosma ricorda che si può trovare l’assoluto anche in uno sguardo che vuole riprendere a sperare.
E qui avrei già detto tutto. Rosma avrebbe voluto un infermiere come è stato quello di Rosa. Per dire il vero, l’infermiere protagonista accanto a Rosa è andato oltre al suo dovere professionale; sicuramente, però, le ha dato forza per elaborare la sua condanna a una vita muta, imprigionata in un corpo quasi immobile, ed è stato oggetto di piena fiducia da parte di tutta la famiglia della malata.
Anche se si sa che la SLA è una malattia che prima o poi porta alla morte, ciò che è capitato a Rosa avrebbe potuto essere di certo meno tragico. Non mi soffermo su questo, ma sul modo ironico e fantasioso delle reazioni della malata per mantenere alta l’attenzione per la sua sopravvivenza. Non manifesta le paure e le angosce, ma le maschera abilmente con delle strategie ben studiate per essere sorvegliata anche di notte, dove è con lei soltanto l’anziano marito.
Il fatto più grave che può capitare a una persona è quello di rimanere muta. Lo scambio di idee e l’espressione di qualsiasi desiderio diventano problematici, difficili, stancanti, ma fortunatamente non impossibili: i pazienti che presentano importanti deficit di comunicazione, infatti, di solito si concentrano sull’utilizzo e sull’ottimizzazione di ogni abilità motoria residua: la capacità di scrivere è sfruttata fino all’ultimo scarabocchio, così come la gestualità e le espressioni del viso o degli occhi; poi la comunicazione con l’Etran, la tabella alfanumerica trasparente, luogo delle rincorse con gli occhi a caccia di parole, frasi e pensieri.
Avrei visto bene anche un comunicatore a scansione oculare, davanti a Rosa; si sarebbe divertita moltissimo.
La voglia di vivere di questi malati è immensa e ogni piccolo gesto per migliorare la qualità della loro esistenza può essere incommensurabile. A volte dal valore inestimabile. Certo è che il nostro saper relazionarci con persone malate, anche in fase terminale, scaturisce specialmente dal bagaglio valoriale che possediamo: quello che non abbiamo non lo possiamo dare. E in genere, gli operatori sanitari sentono un naturale bisogno di instaurare una relazione con la persona che assistono; ciò è di fondamentale importanza per aiutare assistente e assistito a conoscersi, a entrare in sintonia e a creare un rapporto di fiducia che diviene indispensabile nell’intero processo di cura. Ed è proprio il vivere insieme condizioni difficili e complesse che dà a infermiere, assistente familiare e paziente la capacità di relazionarsi profondamente.
Il lavoro, per questi infermieri di cura ad alta intensità, è molto duro e vario a seconda delle situazioni assistenziali: ci sono pazienti arrendevoli, che si fanno accudire pazientemente e che accettano i servizi alla persona spesso anche con ironia; altri invece sono puntigliosi, scontrosi a causa del loro malessere o del loro carattere e riversano di continuo tutta la propria rabbia su chi li cura e accudisce, rendendo l’opera di aiuto davvero molto complicata.
Gravi depressioni, spesso devastanti e quasi incontrollabili, devono essere affrontate dal personale di assistenza sociosanitaria insieme alle famiglie, con molta delicatezza ed empatia e spesso con costi personali non indifferenti da parte di tutti i soggetti in gioco.
Un ambiente di lavoro sereno e la consapevolezza di avere dietro di sé un’organizzazione sanitaria efficiente possono essere un importante sostegno per gli operatori che si ritrovano nel bel mezzo di queste situazioni così difficili; un sostegno che può aiutarli a trovare la giusta soluzione anche per le tante difficoltà psicologiche ed emotive che l’assistito si ritrova quotidianamente a vivere nella impari lotta contro la propria malattia.
Le persone che accompagnano malati così gravi nel loro più ripido tratto di strada terrena, solo alla fine riscontrano negli occhi lucidi e nelle strette di mano di parenti e amici il piacere di aver dato dignità a una vita non considerata più tale. Ed è un piacere immenso, duraturo… Impagabile.
Mina Welby
Co-Presidente Associazione Luca Coscioni
Per la Libertà di Ricerca Scientifica
Introduzione
La SLA non sembra una malattia. Assomiglia piuttosto a una condanna. È una morte inesorabile, terribile, che ti porta via un pezzetto per volta. Giorno dopo giorno. Oggi non muovi più bene un piede, domani un braccio; poi non riesci più a tenere in posizione la testa. Fino alla totale immobilità. Mangiare e bere diventa gravoso, problematico, fino a risultare impossibile. Ti accorgi che una semplice operazione come parlare da qualche tempo si è fatta complessa, laboriosa; e ti ritrovi a farfugliare frasi sempre più incomprensibili, sino a perdere in toto la capacità di comunicare verbalmente. Fai spesso fatica a respirare e questa tua sensazione peggiora, divenendo più frequente e opprimente col passare delle settimane.
Nonostante tutto questo, la lucidità mentale e la sfera sensoriale restano perfettamente intatte; e con esse il proprio io, la consapevolezza di sé, i fastidi, la sofferenza e il dolore. Sei costretto ad assistere al progressivo, totale e inesorabile disfacimento del tuo corpo, che viene divorato a morsi da una patologia tanto ingravescente quanto inarrestabile. Sei consapevole del fatto che non esiste nessuna cura e che presto dipenderai dagli altri per ogni cosa; anche solo per grattarti il naso.
Poi un giorno ti risvegli in un letto d’ospedale. Cerchi di capire cosa ti è capitato, ma ricordi solo che avevi fame d’aria e che ti sforzavi tanto per respirare; poi il buio. Ti rendi conto che ti è successo qualcosa di importante, di grave, ma che per fortuna sei ancora vivo. Però non fai in tempo a fare un sospiro di sollievo e a ringraziare Dio, che ti guardi… e vedi dei tubi che ti entrano disgustosamente in gola; noti che accanto al tuo letto è posizionato un affare chiamato ventilatore meccanico, che soffia dentro a quei tubi per aiutarti a respirare; vedi poi una sonda ficcata nella tua pancia, attraverso la quale ti nutrono artificialmente con fluidi poco invitanti e per mezzo di un altro macchinario che te li spinge nello stomaco. Ti dicono che dipenderai da quei presidi per il resto dei tuoi giorni. E che presto, essendo stabile
dal punto di vista respiratorio, sarai dimesso per essere gestito a domicilio dalla tua famiglia e/o da servizi medico/assistenziali che operano sul territorio.
Immobilità, inguaribilità, dipendenza dagli altri e dalle macchine… ti ritrovi impantanato in una sorta di via di mezzo tra quella che era la tua vita e quella che sarà la tua morte. Senza limiti di tempo, per giunta, visto che ora sei un paziente cronico stabilizzato
, condizione in cui si può sopravvivere anche per diversi anni.
Quanta forza ci vuole per sopportare tutto questo? Come ci si può adattare a questa nuova, cruda realtà? C’è posto, in questa terra buia e desolata, per la speranza o per momenti di gioia, di serenità o di libertà? È possibile, in qualche modo, far tornare vita
questa complicata sopravvivenza?
Reputo questa premessa e questi quesiti necessari per introdurre questo libro. L’intero lavoro, infatti, è basato su un lungo, reale percorso assistenziale ed è liberamente ispirato (ogni riferimento a luoghi o persone è di mia invenzione)