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Il Mistero di Perry Lake
Il Mistero di Perry Lake
Il Mistero di Perry Lake
E-book419 pagine9 ore

Il Mistero di Perry Lake

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Il Mistero di Perry Lake: Un thriller avvincente dalla prima all’ultima pagina
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N°1 EBOOK MONDIALE
PIÙ DI 400.000 LETTORI IN TUTTO IL MONDO
DIRITTI PER IL SUO ADATTAMENTO CINEMATOGRAFICO VENDUTI A HOLLYWOOD

I cadaveri di due ragazze rinvenuti nella riva di un lago quasi contemporaneamente. Una contea i cui abitanti nascondono oscuri segreti. Un promettente agente speciale dell’Unità di Analisi Comportamentale dell’FBI assegnato al caso. Un crimine simile rimasto irrisolto per quasi vent’anni... Immergiti in un’indagine intricata che appassionerà gli amanti del genere.
IL PRIMO CAPITOLO DI UNA SAGA CHE HA VENDUTO PIÙ DI 750.000 COPIE
Alla sua prima incursione nel genere poliziesco Enrique Laso sbalordisce con un romanzo affascinante, carico di suspense e mistero. Dopo aver venduto centinaia di migliaia di copie dei suoi libri in tutto il mondo grazie al successo di titoli come “El rumor de los muertos” (più di 130.000 copie vendute) o “Desde el Infierno” (adattato per il cinema in Spagna), Laso ritorna con un romanzo travolgente che ti cattura dalla prima pagina e non ti lascia fino al suo inquietante finale.
Per amanti di romanzi come “Il Silenzio degli Innocenti” e serie tv come “Twin Peaks”, “Criminal Minds”, “CSI” o “True Detective”.
I LETTORI DI TUTTO IL MONDO HANNO DETTO...
“Il miglior romanzo giallo dell’anno”
“Enrique Laso entra nel genere dalla porta principale”
“Uno dei finali migliori che abbia letto in vita mia”
“Scritto magistralmente”
“Intelligente, divertente e accattivante”
“Non son riuscito a smettere di leggere finché non l’ho finito”
“Credibile fin nei minimi dettagli. Splendido”
“La chiave di questa storia non è sapere Chi, ma Perché”
“Un Bestseller che è già diventato un classico”
“Un capolavoro”

LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2016
ISBN9781370282487
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    Anteprima del libro

    Il Mistero di Perry Lake - Enrique Laso

    Capitolo I

    Quando mi chiamarono, era già passata una settimana dal ritrovamento del secondo cadavere. Era un problema perché molti elementi erano andati persi, e avrei dovuto accontentarmi delle sicuramente scarse prove che una squadra di poliziotti poco abituati a crimini di questo genere era riuscita a raccogliere. Per fortuna mi era stata assegnata un’unità della polizia scientifica abbastanza competente, sebbene mentre volavamo da Washington all’Aeroporto Internazionale di Kansas City immaginavamo, non a torto, che le scene sarebbero già state inquinate da decine di agenti benintenzionati quanto maldestri.

    Liz, che conoscevo professionalmente per l’unico caso di cui mi fossi occupato fino ad allora, mi porse un fascicolo con alcune fotografie: i corpi cianotici di due ragazze nude, abbandonati nella laguna, come inutili resti di spazzatura di una tranquilla mattinata di picnic. Restai a fissare gli occhi aperti di una delle ragazze, che probabilmente non aveva più di vent’anni, e mi sembrò che cercasse di supplicarmi: "devi trovare la bestia che mi ha fatto questo".

    Allontanai le foto con orrore e guardai dal finestrino del piccolo Gulfstream III, che stava già sorvolando lo Stato dell’Illinois. C’erano poche nuvole nel cielo, e ricordo di aver visto chiaramente, o di aver sognato, la città di Springfield e il suo famoso lago. Quell’immagine maestosa e mite contrastava con la torbida tempesta che sapevo incombere sul mio futuro più prossimo. Chiusi gli occhi e mi parve di vedere mio padre lanciare con abilità una palla da baseball appena comprata, perché la prendessi con le mie mani. Avrei voluto restare aggrappato a quell’immagine idilliaca, irripetibile, e viverci sommerso per sempre.

    Presto tornai alla realtà. Avevo una nuova sfida da affrontare, e la posta in gioco era molto alta. Il mio primo caso era stato risolto con un successo fragoroso: ero riuscito a elaborare il profilo di un assassino seriale che da mesi tormentava gli abitanti della decadente città di Detroit. Inizialmente i detective assegnati ai diversi casi non erano riusciti a trovare un nesso tra questi, e i dossier andarono ad aggiungersi alle centinaia di casi che affollavano gli archivi di una città con il tasso di omicidi più alto di tutti gli Stati Uniti. Fu proprio lì che il mio nuovo capo, Peter Wharton, Direttore dell’Unità di Analisi Comportamentale della sede centrale dell’FBI a Quantico decise di mandarmi. Aveva fiducia in me principalmente per due ragioni: il mio curriculum accademico impeccabile, che includeva l’essere stato il primo del mio corso di Psicologia all’Università di Stanford; e la mia notevole capacità di deduzione, messa alla prova decine di volte da lui stesso durante la mia formazione, attraverso casi intricati basati su fatti reali. Non l’avevo deluso. Dopo varie settimane di duro lavoro riuscii a elaborare un profilo criminale attendibile al 92%, e come se non bastasse, delimitai il raggio d’azione dell’assassino e individuai la zona in cui avrebbe dovuto risiedere. In tre mesi eravamo riusciti a catturare un mostro che aveva fatto fuori niente meno che 21 anime innocenti. Al mio rientro a Washington non solo venni accolto da molti dei miei colleghi come un eroe, ma lo stesso Peter iniziò a guardarmi come la più salda promessa della nuova generazione di agenti speciali prodotti dalla fabbrica di Quantico. In un modo o nell’altro il mio successo, e questo è innegabile, si doveva in buona parte a lui, e perciò era anche il suo.

    Sono passati solo sei mesi da allora. Sei mesi di vita nella bambagia, a godermi il paradiso guadagnato in passato, a osservare gli altri in disparte, arricchendo la mia formazione e valutando casi di cui quasi sempre conoscevo già la soluzione. Una vita comoda e facile. Ma niente dura per sempre.

    Il confortevole jet mi avvicinava a più di 600 miglia all’ora e a più di 40.000 piedi di altitudine a un destino incerto che avrebbe segnato il mio futuro: un nuovo successo mi avrebbe aperto tutte le porte degli ascensori più veloci dell’FBI; un fiasco avrebbe messo in dubbio le mie capacità, e fino a una nuova sfida nessuno avrebbe avuto la certezza che io, Ethan Bush, fossi un genio che aveva commesso un errore perdonabile o che, al contrario, avessi avuto un colpo di fortuna una volta nella vita.

    Capitolo II

    Ci mettemmo solo un’ora ad arrivare all’ufficio dello sceriffo della contea di Jefferson, situato nella periferia della piccola città di Oskaloosa, raggiungibile dalla US-59. Viaggiavamo su un comodo furgoncino guidato da un agente della contea, che si era mostrato a dir poco distante, per quanto gentile, e immaginai da subito che dovesse trattarsi di istruzioni del capo. In queste piccole contee l’arrivo di agenti federali viene di solito accolto con qualche riserva. L’ufficio era una modesta costruzione su un solo piano, con la facciata ridipinta a nuovo con un tono di grigio piacevole e moderno. Quando scesi dal furgoncino, sentii una folata d’aria fresca e umida.

    – È una bella giornata. Il vento arriva da ovest e il lago lo rinfresca – commentò asciutto l’agente mentre ci conduceva verso l’interno dell’edificio.

    Clark Stevens, lo sceriffo della contea, ci aspettava in un’ampia sala con un tavolo rotondo al centro, uno schermo da 50’’ alla parete e dozzine di fotografie, appunti e vari fogli provenienti da qualche fascicolo, fissati con delle puntine a un’altra parete rivestita di sughero.

    - Buongiorno. Lei deve essere Ethan Bush, e questa la sua formidabile squadra – disse Clark, porgendomi la mano in modo cortese, nonostante non sapessi bene come interpretare il commento sulla "formidabile squadra".

    - Esattamente. Piacere di conoscerla, sceriffo Stevens. Grazie per averci accolto nella sua contea – risposi con studiata delicatezza.

    Subito dopo gli presentai le tre persone che mi accompagnavano, e che in primo luogo erano il mio personale di supporto in questa missione.

    - Ho chiesto aiuto all’FBI perché in questa piccola contea un omicidio è un fatto inaudito, figuriamoci due in una sola settimana – precisò Stevens, presumo volendo mettere in chiaro che fosse lui il capobranco, e che se non fosse stato per la sua esplicita richiesta noi non ci saremmo nemmeno trovati lì.

    - Capisco benissimo, sceriffo, e da questo momento può contare sulla nostra completa collaborazione – risposi, pur sapendo che presto o tardi sarebbero sorte delle tensioni tra noi.

    - La contea di Jefferson non arriva a 20.000 abitanti, e Oskaloosa supera di poco i mille. Il posto più confortevole dove alloggiare qui in zona è il campeggio che si trova sul lato sud est del lago, che però non ho ritenuto appropriato, perciò vi metteremo a disposizione una residenza di proprietà del comune, che abbiamo ripulito, e in cui vi sentirete come a casa. Ogni giorno verrà qualcuno a fare le pulizie e a prepararvi qualcosa da mangiare, di modo che possiate avere tutti i comfort di un hotel, ma in un ambiente più accogliente.

    - Perfetto – si affrettò a rispondere Liz, che fino a quel momento aveva mantenuto un silenzio carico d’attesa.

    Clark si alzò e tirò fuori da un archivio alcuni fascicoli che gettò sul tavolo.

    - ad oggi è tutto ciò che abbiamo del caso. Contiene la relazione del medico legale, la storia delle due ragazze, alcune fotografie e la lista dei criminali della contea di cui siamo a conoscenza.

    Raccolsi uno dei fascicoli e gli diedi uno sguardo. A Quantico ci erano giunti sono un paio di fogli e quattro o cinque fotografie delle scene del crimine.

    - Sceriffo, mi piacerebbe che la mia squadra effettuasse una nuova autopsia sui due cadaveri… - mormorai, consapevole che quella era la prima volta che mettevo il dito nella piaga.

    Stevens rimase in piedi, inspirando profondamente una boccata d’aria. Era un uomo maturo, apparentemente giudizioso, che aveva richiesto volontariamente la nostra collaborazione, ma sicuramente era convinto che alla fine la questione ci sarebbe sfuggita di mano.

    - Non ha nemmeno letto la relazione del nostro medico legale…

    - Lo faremo. Ma Liz, Mark e Tom hanno molta esperienza nelle autopsie di casi di omicidi. Spero che lo capisca.

    - Certo, certo… Ma vede, Ethan… posso chiamarla Ethan?

    - Ovviamente. Mi sentirei più a mio agio – risposi, in tutta sincerità.

    - Perfetto. Allora mi chiami Clark e saremo tutti felici e contenti. Come le dicevo, Ethan, io in realtà vi ho chiamati, ho chiesto la vostra collaborazione…

    Lo sceriffo Stevens prese un’altra boccata d’aria. La sua presenza, così come tutta la comunicazione non verbale, permetteva facilmente di mettersi nei suoi panni, di capirlo e di provare un’empatia immediata nei suoi confronti.

    - Si? – chiesi con rispetto, incoraggiandolo a proseguire.

    - Vede, qui, come le dicevo, non siamo abituati ad avere a che fare con degli omicidi, sebbene in passato sia capitato, e ce la siamo cavata senza grossi problemi. Ma questa volta è diverso. Affrontare un assassino seriale, capisce bene…

    - Clark, credo sia presto per parlare di un assassino seriale. È vero che due cadaveri, nella stessa zona, per giunta a solo una settimana di distanza, portano immancabilmente a pensare a una stessa persona. Ma a Quantico ci insegnano a non essere precipitosi nei giudizi di valore. Il secondo potrebbe essere opera di un copycat, un imitatore, così, crudele e semplice. Inoltre, due omicidi non equivalgono ancora a una serie – spiegai, sebbene nel profondo mi trovassi abbastanza d’accordo con lui. Ma era anche vero che mi avevano insegnato bene a non dare valutazioni iniziali affrettate.

    Lo sceriffo si avvicinò fino al punto in cui mi ero seduto. Prese con delicatezza il fascicolo che mi aveva dato poco prima e cercò un foglio segnato da un post-it azzurro.

    - E tre omicidi… equivalgono a una serie?

    Guardai la foto che mi indicava con l’indice. Era la fotografia di una giovane, diversa dalle due che avevo già visto nel jet in viaggio verso Kansas City. La qualità del colore e il leggero deterioramento suggerivano che si trattasse di una foto antica. Rimasi sconcertato.

    - Non capisco… Ci avevano parlato solo di due ragazze! – esclamai, come se a Washington potessero sentire la mia voce furiosa.

    - Tranquillo, Ethan. Ci eravamo riservati questa informazione per quando foste arrivati, e mi aspettavo di commentarla con voi una volta che aveste letto la relazione. Questa giovane è Sharon Nichols, e non è stata assassinata proprio ieri. Il suo corpo senza vita è apparso nello stesso posto delle altre due sciagurate, ma nel 1998, vale a dire… niente meno che 17 anni fa. Si tratta di un caso rimasto irrisolto e alla fine archiviato, come tanti altri. Per questo motivo abbiamo bisogno di voi. Temiamo di trovarci di fronte a un assassino seriale che è tornato in zona… Chissà il numero di vittime che avrà collezionato in questi quasi 20 anni!

    Capitolo III

    Quella notte sognai mio padre. Eravamo insieme in un campo da baseball completamente deserto. Probabilmente si trattava di quello dei San Francisco Giants, anche se non potrei dirlo con certezza, in quanto i miei occhi erano completamente fissi su quelli di mio padre. Lui faceva il lanciatore ed io reggevo una mazza adatta alla mia età e statura. Mio padre mi sembrava enorme, invincibile da lontano. I suoi profondi occhi neri incutevano quel tipo di rispetto guadagnato con l’autorità del sapere, non con l’imposizione della forza.

    - Sei a due strike, quindi devi concentrarti bene su questo lancio – mi disse, come se invece del mio rivale fosse il mio allenatore.

    - Ok! – esclamai, incoraggiato dalle sue parole.

    Mi concentrai sulla preziosa palla di cuoio lucido che stavamo inaugurando quella mattina stessa e mi sistemai il berretto in modo che la visiera proteggesse bene le mie pupille dal sole di mezzogiorno. Mio padre lanciò la palla come solo i professionisti sapevano fare, ma per fortuna io battei un colpo abbastanza buono da permettermi di abbandonare la gabbia di battuta per cercare di raggiungere la prima base. Scattai correndo come un’anima indemoniata e prima che mio padre, senza troppo sforzo, potesse anche solo prendere la palla io avevo già completato un fuoricampo in tempo record.

    - Grande, Ethan! Oggi ti sei meritato una bud fresca.

    Essendo io ancora un adolescente, mio padre di quando in quando mi premiava con qualche birra. Da un lato era un modo per stare tra uomini, dall’altro credo che desiderasse che i miei primi contatti con l’alcol, che presto o tardi si sarebbero verificati, avvenissero in sua presenza e in maniera controllata.

    Nel sogno mio padre tirava fuori due Budweiser da un frigo portatile pieno zeppo di ghiaccio ben tritato e me ne lanciava una, con un sorriso così splendente da illuminare lo stadio. Poi ci sedevamo insieme nella panchina della squadra di casa.

    - Non ti piace il baseball… vero? – chiese lui, guardando la struttura, evitando il mio sguardo, come per darmi il coraggio per rispondere.

    Mi fermai a pensare un attimo. Aspettavo quella domanda da un paio d’anni. Esattamente da quando avevo abbandonato la squadra di baseball della scuola per darmi all’atletica. Era qualcosa che ero riuscito a confidare a mia madre, ma non a lui.

    - Lo adoro. Mi piace molto andare con te allo stadio a vedere i Giants – risposi, cercando di eludere la vera questione.

    - Sai che non mi riferisco a questo. So che ti piace vedere il baseball, che ti godi ogni partita, anche se arriva a durare più di cinque ore. Mi riferisco al giocare a baseball…

    Nei sogni il tempo passa in modo diverso dal mondo convenzionale. In quel sogno credo di aver tardato due o tre giorni a rispondere a mio padre, che aspettava in un silenzio statico e prudente la mia risposta.

    - No, papà. Non mi piace. L’unica cosa che mi piace del giocare a baseball è poter stare un po’ al tuo fianco.

    Mio padre mi cinse con il suo forte braccio e mi strinse a sé. Potei scorgere i suoi occhi umidi per l’emozione. Era un tipo robusto e duro, ma il suo cuore era più grande del resto del corpo.

    - Sai una cosa? Quando ti ho visto correre per le basi, sono rimasto impressionato. Nemmeno un ghepardo sarebbe stato in grado di raggiungerti.

    - Puoi dirlo forte! – esclamai, sollevato.

    - Ti piace correre?

    La domanda mi colse impreparato, e per un attimo ebbi la certezza che mia madre avesse rivelato il nostro piccolo segreto.

    - Sì, mi piace molto. Papà… da due anni faccio parte della squadra di atletica, invece che di quella di baseball… - confessai.

    Mio padre mi diede due lievi pacche sulla spalla, e mi rivolse uno sguardo che sembrava quasi colmo di ammirazione.

    - E come te la cavi?

    - Sono uno dei migliori! – esclamai. Ma non era del tutto vero: non ero uno dei migliori… ero il migliore. Uno dei mezzofondisti più promettenti di tutta la California.

    - Allora è deciso. D’ora in avanti niente più baseball. Beh, continueremo ad andare a veder giocare i Giants, ovviamente. Ma verrò a vederti mentre ti alleni in pista. Voglio essere nel posto dove ti senti veramente felice, figlio mio.

    Mi svegliai madido di sudore. Sembrava avessi appena finito di correre la maratona di Boston, in un giorno da cani di inizio primavera. Ci misi un po’ a rendermi conto di trovarmi nella casa che lo sceriffo della contea ci aveva prestato a mo’ di hotel.

    Il sogno era stato senza dubbio curioso: vi si mescolavano fatti reali con scene del tutto immaginarie. Non capivo quale motivo avesse spinto la mia mente a recuperare dal passato quegli attimi remoti per collocarli nel presente. Istintivamente, senza pensare, allungai la mano in cerca del mio Smartphone e scorsi la rubrica fino a trovare la voce che cercavo: Papà. Appena premetti il pulsante di chiamata capii che non avrebbe risposto nessuno. Il suo vecchio cellulare era custodito come un tesoro in un cassetto del mio appartamento nella periferia di Washington. Continuavo a pagare puntualmente la rata mensile all’AT&T, sebbene da quasi dieci anni mio padre riposasse nel piccolo cimitero di Mariposa, in California.

    Capitolo IV

    Lo stesso furgoncino che avevamo preso dall’aeroporto di Kansas City ci conduceva ora alla laguna dove erano stati rinvenuti i due cadaveri. Questa volta ad accompagnarci era il vice sceriffo, Ryan Bowen, un giovane asciutto e distante, anche se apparentemente abbastanza professionale.

    - D’estate questa è una zona più frequentata; ma in questo periodo dell’anno, anche se inizia a fare bel tempo, è raro incrociare qualcuno – ci disse, mentre indicava una strada sterrata che si addentrava tra i cespugli verso il lago, che già si intravedeva da lontano.

    - Ma… non siamo troppo vicino alla strada? – chiese Tom, anticipandomi.

    - Ha ragione. È piuttosto curioso, non trova?

    Avanzammo con cautela lungo il sentiero sterrato color caolino, seguendo le tracce che le macchine, probabilmente dei fuoristrada, avevano lasciato precedentemente e che ora apparivano profonde e asciutte. Ryan parcheggiò vicino ad alcune piante e, una volta sceso dalla macchina, ci guidò verso un fossato argilloso con della vegetazione schiacciata.

    - Qui è dove sono state trovate – disse il vice sceriffo con freddezza.

    Liz, Mark e Tom non tardarono a mettersi al lavoro. Erano venuti ben equipaggiati. Avevano portato pochi vestiti con sé, ma a quanto pareva non avevano dimenticato nessuno dei giocattoli più preziosi per questo tipo di sfide. Io restai accanto a Ryan, non volevo assolutamente ostacolare il lavoro della mia competente squadra.

    Mi resi subito conto che qualcosa non quadrava. Ci trovavamo di spalle a una delle rive del Perry Lake, abbastanza appartata dai luoghi più frequentati, a meno di quindici metri dall’acqua. Ma la zona che il vice sceriffo Bowen aveva delimitato con il suo indice non era più che un pantano. Scattai qualche foto del presunto luogo in cui erano state trovate le vittime e scoprii che i corpi nudi erano stati parzialmente sommersi in ciò che dava l’idea di essere una poco profonda laguna.

    - È sicuro che sia questo il posto dove son stati scoperti i cadaveri? – chiesi, sconcertato.

    Ryan buttò un’occhiata veloce alle foto che tenevo nella mano destra, per poi rivolgermi uno sguardo di sufficienza.

    - Certo. Questa zona si allaga ogni volta che piove. Poi, in un paio di giorni, ridiventa il pantano che ha davanti in questo momento.

    - Quindi… ha piovuto per tutta questa settimana? - insistetti, cercando di far capire che le mie disquisizioni non erano finite e che lui nemmeno poteva immaginare dove andassero a parare.

    - No – rispose con decisione. Poi si grattò la barba di tre giorni e calciò, irritato, dei fili d’erba fresca. – Ora che me lo fa notare, solo adesso realizzo che ha piovuto solamente la notte precedente a ciascuno degli omicidi…

    Mi allontanai da Bowen, lasciandolo ai suoi pensieri per potermi concentrare sui miei. Se l’assassino delle due ragazze era lo stesso, non si trattava certo di un imbecille. Sebbene fosse ancora presto per scartare l’ipotesi, l’idea che si trattasse di un assassino disorganizzato sembrava sempre meno probabile. Al contrario, il profilo combaciava con quello di qualcuno consapevole che la pioggia avrebbe rappresentato un serio ostacolo per chi si sarebbe occupato dell’indagine. Da tempo avevo ormai smesso di credere alle coincidenze, ma ero ancora troppo giovane per ignorarle del tutto. Seguii il percorso naturale che dalla strada avrebbe condotto l’assassino fino a lì, ma nel senso opposto. Mi trovai subito di fronte ai solchi lasciati dai fuoristrada, gli stessi che erano serviti da guida al furgone.

    - Hanno preso le impronte degli pneumatici? – esclamai affinché Ryan riuscisse a sentirmi e a smettere di sognare ad occhi aperti.

    - No, no… Credo che non ci fossero impronte di pneumatici.

    - E allora queste tracce?

    - Devono essere del Ford Explorer Interceptor del nostro ufficio – rispose con semplicità il vice sceriffo.

    Un SUV della polizia. C’era la possibilità, per quanto desiderassi ignorarla, che quelle stesse ruote avessero calpestato le tracce di pneumatici o di impronte preesistenti.

    - Qualcuno si è preso il disturbo di scattare delle foto prima che l’Interceptor percorresse questa strada…? – mormorai, quasi rassegnato.

    - In realtà non ricordo. Tutto ciò che vuole sapere dovrebbe trovarsi nel fascicolo che le ha consegnato lo sceriffo Stevens.

    Bowen aveva ragione. Tutto ciò avrebbe dovuto essere lì, tra i fogli che si trovavano schiacciati sul mio fianco destro, ma che avevo esaminato appena. Sapevo che vi avrei trovato all’interno una marea di supposizioni, fatte incoscientemente a priori, che a lungo andare mi avrebbero influenzato. Lo avevo studiato in decine di casi ed era ciò che aveva quasi fatto sfumare il mio primo successo a Detroit.

    - Va bene. Mi piace considerare punti di vista diversi. Sa come siamo fatti noi psicologi… la strada dritta per noi è la più lunga – cercai di difendermi.

    - Non ne avevo idea…

    - Chi sono le persone che hanno trovato i cadaveri? – chiesi, cercando di cambiare argomento velocemente.

    - Chi sono? Sarebbe più giusto chiedere chi è la persona – rispose il vice sceriffo, confuso.

    Riaprii la cartella del fascicolo e lo sfogliai rapidamente, come se in realtà l’avessi studiato a fondo e in quei fogli qualcosa non quadrasse con l’informazione che avevo appena ricevuto. Così facendo guadagnavo un po’ di tempo per riordinare le idee.

    - È stata la stessa persona a trovare i due corpi?

    - Sì. Si tratta di Tim Nolan, un pescatore di frodo di branzini bianchi e neri, che abbondano in questa parte del lago. Mi creda – disse, forse scorgendo qualcosa di torbido nelle mie pupille – non è una cattiva persona. Frequenta spesso questa zona.

    - Sì, ma Ryan – lo chiamai per nome, cercando di apparire più vicino nelle mie valutazioni – deve riconoscere che risulta quantomeno sospetto che questo pescatore si sia imbattuto in due cadaveri nel giro di sette giorni.

    - Ha ragione, però son sicuro che se lo conoscesse da anni, come me, non la penserebbe così. Ma immagino sia per questo che Clark ha chiesto il vostro aiuto, perché non avete pregiudizi, giusto?

    - Più o meno – risposi, constatando che nei piccoli paesi il lavoro della polizia è più complicato di quanto possa sembrare da un comodo ufficio della periferia di Washington.

    Dalla mia posizione, vicino al punto in cui era stato parcheggiato il furgone, potevo vedere alla mia sinistra la riva del lago e parte del fossato in cui erano state scoperte le vittime, e alla mia destra il tortuoso sentiero sterrato che conduceva alla strada. Guardai più volte da una parte e dall’altra.

    - Passano molte macchine su questa strada?

    - No, giusto un paio al giorno.

    - Ad ogni modo, converrà con me sul fatto che sia molto rischioso disfarsi di un corpo proprio in questo punto. Io, ad esempio, ne avrei scelto uno diverso.

    - Non ha tutti i torti – rispose Bowen annuendo.

    - Solo qualcuno che conosce molto bene questo posto, che lo frequenta assiduamente, avrebbe la certezza di correre pochi rischi – conclusi.

    Capitolo V

    Liz mi aveva già detto di non essere riuscita a scoprire praticamente niente dal cadavere di Clara Rose, la prima vittima. Dopo averla sottoposta a una prima autopsia, l’avevano seppellita. Dopo l’esumazione, tra le ore passate sotto la pioggia, le più di due settimane trascorse e i danni del primo esame forense, si era potuto fare ben poco.

    Tuttavia, fortunatamente, con il secondo corpo, quello di Donna Malick, era stato possibile adottare delle misure per una corretta conservazione. Lo avevano custodito nell’obitorio e lo sceriffo Stevens era riuscito a convincere la famiglia a rimandare la sepoltura, spiegando che stava arrivando una squadra dell’FBI e che era possibile che venisse richiesto un nuovo esame. La famiglia Malick aveva accettato con dolore la situazione, ma non aveva sollevato obiezioni, evitando senza dubbio l’intervento di avvocati, giudici e altre seccature.

    Mentre Liz lavorava sulla sventurata Donna, io mi ero preoccupato di noleggiare una piccola Chevrolet Spark verde lime per avere una maggiore libertà di movimento e una certa indipendenza dall’ufficio dello sceriffo della contea di Jefferson.

    Armato di cartina e del precario GPS del mio Smartphone, dedicai la mattinata a costeggiare il lago e a visitare alcune delle cittadine della zona. La mia intenzione era di iniziare a familiarizzare con un contesto che sapevo mi avrebbe accompagnato per diverse settimane, se non mesi.

    Così, dirigendomi verso sud, da Oskaloosa, visitai brevemente le piccole località di Perry, Grantville, Meriden e, per finire, Valley Falls. Erano tutti paesini che contavano appena un migliaio di abitanti. Non dico che la gente di queste piccole località dovesse conoscersi per forza, ma quasi sicuramente conosceva il 90% degli abitanti del circondario. Avevo percorso poco più di 100 miglia in totale, vale a dire che queste cittadine erano abbastanza vicine tra loro, e più o meno ben collegate. Erano dei posti piacevoli, in cui si poteva sognare di trascorrere la vecchiaia. Il pensiero che la tranquillità pacifica di quella zona quasi idilliaca si stesse vedendo turbata da due crimini così orrendi era inquietante.

    Quando tornai a Oskaloosa, Liz mi ricevette con un mezzo sorriso che immaginai subito indicasse qualche scoperta nella seconda autopsia.

    - Hai già mangiato? – le chiesi, prima di darci dentro col lavoro.

    - No, e ad essere sincera mi sento come se non lo facessi da anni.

    - Va bene, andiamo in un posto in centro in cui pare facciano dei buoni hamburger, come piacciono a te.

    - Fantastico!

    Seduto nella Chevrolet insieme a Liz ricordai il breve periodo in cui eravamo usciti insieme. Erano già passati diversi mesi da allora, anche se il ricordo era ancora vivido. Ero stato io, dopo qualche settimana in cui avevamo trascorso quasi tutte le notti insieme e condiviso le 48 ore del fine settimana, a chiudere la relazione. Liz era una donna incredibile: intelligente, loquace, brillante, gentile, chiacchierona e sì, come se non bastasse, molto carina. I suoi profondi occhi azzurri e il suo caschetto castano chiaro molto particolare, attiravano l’attenzione di chiunque la vedesse. Ma mi ero reso conto che mentre in lei la fiamma dell’amore cresceva di giorno in giorno, dentro di me restava solo qualche tizzone che lottava per non spegnersi. Era una situazione molto spiacevole e non volevo che si protraesse oltre. Se dopo la rottura mi fossi reso conto di aver perso la donna della mia vita, avrei avuto tutto il tempo per chiedere scusa e cercare di rimediare ai possibili danni causati. Era quanto di più onesto potessi fare. Ovviamente, rischiavo di perderla per sempre, e non si trattava solo di perdere una più che effimera compagna, ma un’amica di quelle che uno desidera avere al proprio fianco per l’eternità. Era già passato abbastanza tempo per capire che lei, sfortunatamente, sembrava non essere la donna della mia vita, nonostante fosse una ragazza sensazionale. Nonostante tutto, notavo che nel suo cuore batteva ancora la speranza di una seconda possibilità.

    - So che hai scoperto qualcosa. Ti conosco, e il sorriso che mi hai fatto quando sono arrivato ti smaschererebbe a miglia di distanza – dissi mentre aspettavamo che un gentile cameriere ci portasse gli hamburger da mezza libbra con salsa barbecue che avevamo ordinato.

    - Non ho segreti per te… Dunque, sebbene sia lo sceriffo Stevens che il medico legale l’avessero ipotizzato, ora posso ufficialmente confermarti che Donna Malick non è stata uccisa nella laguna. Sospetto che lo stesso valga per

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