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L'abisso di Camille
L'abisso di Camille
L'abisso di Camille
E-book170 pagine2 ore

L'abisso di Camille

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Info su questo ebook

L’abisso di Camille è un diario. Attraverso le parole cariche di colpa di Edouard Faret, direttore del manicomio di Montdevergues, ci avvicineremo alla vita di Camille Claudel, una donna eccezionale.

Camille fu una scultrice senza eguali, alunna e amante di Rodin, che cercò di farsi un nome, di ottenere la fama e il prestigio che la sua opera meritava in un mondo di uomini (alla fine del XIX secolo). Non ci riuscì.

Nel 1913 dopo la morte del suo adorabile padre, fu rinchiusa forzatamente dalla sua famiglia in un manicomio. Lì rimase trent’anni chiusa contro la sua volontà, fino alla sua morte, nonostante medici e alcuni parenti sapessero perfettamente che lei non era pazza.

L’abisso di Camille narra in forma poetica di questa terribile tragedia di una donna unica, un’artista geniale che ebbe un’esistenza segnata dal destino.

Per la prima volta un autore si avvicina agli anni dell’internamento di Camille, un periodo oscuro e a stento trattato prima d’ora con una certa profondità.

È il romanzo migliore e più profondo che abbia mai visto la luce fino ad ora di Enrique Laso. In esso esprime la sua ammirazione per Camille e al tempo stesso parte della sua rabbia di fronte a un mondo che si mostra ingiusto in innumerevoli occasioni. Un mondo in cui i miserabili finiscono per vincere…

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita29 dic 2016
ISBN9781507111369
L'abisso di Camille

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    Anteprima del libro

    L'abisso di Camille - Enrique Laso

    L’abisso di Camille

    Enrique Laso

    «Tutti quei meravigliosi doni che la natura le aveva donato erano serviti solo a portarle disgrazie»

    Paul Claudel

    Capitolo I

    Addio Montdevergues

    Montdevergues, 21 ottobre 1943

    ––––––––

    Oggi abbiamo seppellito una donna eccezionale in una fossa comune. Come un codardo, pietrificato, sono rimasto muto ad osservare come adagiavano il suo piccolo corpo, avvolto appena da un semplice lenzuolo, in una tomba indegna. In quel luogo infame condividerà il riposo eterno con gli altri malati, anch’essi scesi con le proprie ossa in una simile tomba.

    Ero lì, apparentemente imperterrito, annoiato spettatore silenzioso che placa le viscere lacerate dal dolore e dall’impotenza. Camille si confondeva con un mucchio di cadaveri, coperta prima con la calce e poi con palate e palate di terra umida e sporca. Piove senza sosta da due giorni, in questo autunno infinito che sembra voler piangere per sempre l’addio di un genio senza eguali. Qualcuno la ricorderà tra qualche anno? Il suo nome è stato quasi distrutto dall’implacabile vento della Storia, dalla grandezza di due uomini senza eguali che la amarono e poi la abbandonarono al suo destino, dall’ipocrisia di questa società ridicola e malata in modo madornale nella quale viviamo.

    Dopo che i becchini avevano completato il loro lavoro, ho continuato a rimanere inchiodato, immobile, accanto alla fossa da poco terminata. Sembrava che la terra del dipartimento di Vaucluse avesse coperto e bloccato i miei arti inferiori e che non avrei più potuto smuovermi da lì. Le mie pupille non volevano schiodarsi da quell’argilla lercia che ora premeva contro il corpo magro e malnutrito di Camille. L’aria umida mi arrivava portando con sé profumi vagamente mediterranei, confusi per alcuni chilometri da campi che piangono la propria miseria.

    Ho continuato a rimanere in piedi fino al calare della sera, fino a quando ho sentito le ginocchia cedere e intorpidirsi. Alcuni anziani si sono divertiti a osservarmi, come se io fossi un lunatico ossessionato che vuole trascorrere il proprio tempo con i morti. Che ironia! Sentivo le gambe stanche, sentivo i piedi sommersi dal fango e desideravo quasi di essere ingoiato con il resto del mio corpo. Quale amara tristezza inonda i cimiteri! Sembrava che l’allegria e le risate non avrebero mai più potuto percorrere quelle strade, perdendosi tra le lapidi.

    Quando sono tornato al manicomio tutti dormivano. Solo di rado si sente il grido lontano di qualche paziente che si lamenta o che si sveglia angosciato da qualche incubo. Sono felice di vivere all’esterno di questa costruzione, appartato da loro, lontano, inoltre, dal resto dello staff medico. Qui posso isolarmi e sognare che il mondo sia diverso: che non esistano la menzogna, il male, la demenza, la fame, il freddo, l’ingiustizia, i nazisti e la guerra... In questo luogo che mi accoglie da venti anni posso continuare a pensare che Camille è viva e che con il passare degli anni il mondo la ricorderà come una delle più grandi scultrici di tutti i tempi.

    Nessuno è voluto venire alla sua sepoltura. C’ero solo io. Nessun familiare, nessun altro medico, nessun paziente. Ho mandato un telegramma a suo fratello Paul, sapendo che stavo facendo uno sforzo invano e, come mi aspettavo, non è venuto. Al momento non si è nemmeno degnato di rispondermi personalmente. Tuttavia, la povera Camille aveva sperato fino all’ultimo secondo che sarebbe venuto a visitarla un’altra volta prima di morire. Ha sempre creduto in lui.

    Oggi la notte è più triste del solito. Dalla mia finestra posso contemplare i muri spenti e solidi di Montdevergues, che si estendono allungando il loro manto di crepe e di pietra. Fuori esiste un mondo, la vita, una società che si sviluppa secondo delle norme. Qui dentro è diverso, il mondo è altro e anche le norme sono diverse.

    Camille ha portato per dieci giorni lo stesso vestito. Io cercavo di scuoterla, cercavo di convincerla che era necessario lavarlo, ma lei si rifiutava, mi guardava accigliata e con aria diffidente. Erano molti anni che non mi guardava in questo modo. Era stanca e camminava pesantemente, trascinando i piedi e borbottando fra sé e sé. Si era accentuata la sua costante zoppaggine. Usciva a stento dalla sua stanza e si lamentava costantemente, più del solito. Non abbiamo quasi parlato in questi ultimi giorni e quando lo abbiamo fatto sono state chiacchiere brevi, nelle quali prediceva la sua fine.

    Sento l’odore della terra bagnata del manicomio. È quasi lo stesso odore che aveva sprigionato la fossa comune aperta recentemente, con le sue enormi fauci fangose in attesa dell’arrivo dei corpi dei matti emaciati che hanno lasciato la vita in questo manicomio dimenticato da Dio. È un odore che so che mi accompagnerà per il resto della mia esistenza. Quell’essenza strana rimarrà radicata nelle mie viscere, e anche se le cose andranno meglio, mi ricorderà sempre che questo giorno è esistito, che una volta sono stato direttore di un ospedale di squilibrati, che ho assistito impassibile non solo al crudele e anonimo funerale di un essere umano eccezionale, ma che, inoltre, sono stato complice di molti dei suoi ingiusti anni di prigionia e di inutile sofferenza. Giunge fino a me l’aroma inconfondibile della colpa, del dolore e della vergogna.

    Scrivo in questo infausto mattino, alla luce della candela, come sempre. Mi propongo di iniziare una specie di espiazione, una forma di atto che mi purghi, anche se solo minimamente, di tutto il male che la mia codardia ha potuto causare. Sento la mia mano bloccata, che si afferra alla penna d’oca come un’anima disperata che cerca di non penetrare all’Inferno. Forse già mi trovo nelle tenebre? Peccare è un processo lento, nel quale uno incappa quasi senza rendersene conto, quasi senza dar valore alle vere conseguenze di ogni propria azione.

    Non avevo mai sentito un dolore così profondo e così intenso. Da quando sono arrivato al manicomio ho dovuto assistere a molti funerali, troppi, soprattutto da quando i nazisti hanno invaso il paese e si è imposto questo nuovo regime di miseria. Ma noi che dirigiamo questo centro non siamo migliori di loro. Prima mangiamo noi, poi i malati di prima classe e infine lasciamo gli avanzi al resto. Così vanno le cose in quest’epoca storica tormentata e grigia che ci è toccata sopportare.

    Sopravvivo in questo spazio infame, circondato da così tanto sporco, ma mi chiedo costantemente se vale la pena viverci. Se un giorno la guerra finirà, se ad un certo punto riuscirò a lasciare questo ospedale e mi trasferirò a Parigi o a Marsiglia o a Lyon; riuscirò mai ad allontanare i fantasmi che durante questi anni si sono installati e hanno riempito le mie interiora? Sarò capace di sopportare di essere stato quasi due decenni a convivere con Camille Claudel nel suo abisso senza fare assolutamente nulla per tirarla fuori di lì?

    Capitolo II

    Quando ho conosciuto Camille

    ––––––––

    Montdevergues, 23 ottobre 1943

    Quando conobbi Camille lei aveva già sessanta anni. Ricordo i suoi grandi occhi azzurri, spenti e taciturni, che mostravano uno sguardo rassegnato e attonito, miscredente e carico di risentimento. Ancora risuonano nella mia testa le prime parole che mi rivolse: «Può fare con me quello che vuole, dottore, da anni mi hanno privato di tutto quello che avevo e non possono portarmi via più niente».

    Io mi ero laureato da poco in medicina, avevo la testa piena di sogni e aspirazioni e accettai di buon grado il posto nel manicomio di Montdevergues perché era molto vicino ad Avignone, dove vivevano alcuni parenti. Inoltre, sarei stato non molto lontano dal mare in modo che, durante i giorni liberi, sarei sempre potuto scappare a Marsiglia, Tolone o Montpellier. La prima volta che varcai i muri del manicomio mi sentii orgoglioso di andare a lavorare in un posto così magnifico. L’edificio principale è costruito in pietra solida e da un lato e dall’altro della porta di entrata si aprono ampi finestroni protetti da grate di ferro forgiato che danno alla facciata un aspetto imponente e di singolare bellezza. Su entrambi i lati si estendono due costruzioni più modeste: i padiglioni dei malati di classe bassa, quello femminile e quello maschile. Fuori dal complesso, e totalmente isolato, c’è un piccolo alloggio che mi offrirono appena arrivato e che accettai senza fiatare, dato che mi piaceva l’idea di poter godere di una certa solitudine. L’edificio principale accoglie la mensa, il deposito, la reception, gli uffici dei medici, le sale di consulto, la sala operatoria, una sala per le visite, le stanze del personale e del direttore medico, le stanze dei pazienti di prima classe e il padiglione dello svago, ubicato nella parte posteriore. Questo edificio fa le veci di una specie di teatro e negli anni ha accolto belle rappresentazioni teatrali realizzate dagli stessi pazienti.

    Per molto tempo, forse alcuni anni, considerai Montdevergues un luogo quasi idilliaco. Circondato da boschi e da un’abbondante vegetazione naturale, passeggiare per i suoi dintorni si trasformò in una gradevole abitudine. Il clima in questa regione non è molto rigido e si mostra tranquillo quasi tutto l’anno, sempre che a uno la pioggia soave  autunnale o primaverile non lo molesti troppo. L’inverno è rigido, ma non esageratamente e il calore dell’estate è più sopportabile che sulla costa, dove l’umidità ti impedisce di conciliare il sonno durante le notti. Pensavo che non avrei potuto trovare un luogo nel mondo migliore  per svolgere la mia professione.

    Mi piaceva camminare fino al paese vicino di Montfavet, situato a poco più di un chilometro, lungo una strada non asfaltata, fiancheggiata da alberi di diversa tipologia, anche se abbondano querce e cipressi. È un tratto consolante, leggero, senza dislivelli ripidi, nel quale uno può incontrare contadini e bestiami amabili e floridi, così frequenti in questa regione. Montfavet è un paese piccolo e semplice, ma a me sembra come un’ubicazione bucolica, come il luogo nel quale a un qualsiasi francese bene piacerebbe trascorrere i suoi ultimi giorni. Le sue case sono generose e disposte in maniera disordinata attorno a una piazza non molto grande, organizzate in maniera aleatoria seguendo un ordine che solo i suoi abitanti conoscono. Le mie passeggiate consistevano in brevi escursioni fino a una piccola brasserie dove prendevo del vino o una birra accompagnata da pane di segale e formaggio. Lì conversavo alcuni minuti con gli abitanti del paese e leggevo la stampa regionale che veniva da Avignone. Di solito, quando tornavo, la notte era già scesa e mi lasciavo guidare dal bagliore della luna, molto visibile in questa zona in cui scarseggia la luce artificiale. Indugiavo inspirando la piacevole e umida aria della notte, sedendomi su qualche sasso passando il tempo a contemplare il firmamento o a localizzare stelle cadenti.

    Montdevergues è costellata di bellissimi giardini che sono stati trascurati con il passare degli anni, ma che al mio arrivo mostravano un aspetto formidabile. Molte volte mi sedevo a leggere, quando il tempo era sereno, avvalendomi di alcuni dei numerosissimi esemplari che componevano la biblioteca del manicomio, vicino a qualche fontana, al dolce calore del sole. Non era strano condividere le panchine con qualcuno dei malati, dato che i trattamenti del manicomio erano abbastanza avanzati e avanguardisti e tra questi era previsto concedere un certo grado di libertà ai pazienti meno problematici. Anche se io mi occupavo del padiglione delle donne e non avevo ancora potuto avere

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